D A R K S I D E [Capitolo 3]
Apr. 21st, 2011 05:10 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
Titolo: D A R K S I D E
Rating: Arancione
Genere: Malinconico, Romantico, Sovrannaturale
Personaggi: Brian Basco, Gabriel Spiegelman, Gina Timmins, Ian Bennett, Nuovo Personaggio
Wordcount: 1187 (
fiumidiparole)
Note: AU, Het, Long-fic, Non per stomaci delicati
«Brian...».
Non riuscivo a tenere sotto controllo la voce, che percepivo io stessa instabile e rotta da un pianto ormai prossimo.
Lo guardavo, e nei suoi occhi non vedevo più lo stesso uomo con cui avevo passato così tante avventure e del quale mi ero perdutamente innamorata, ma vedevo semplicemente un estraneo dall’aria familiare.
Volevo abbracciarlo, ma il mio cervello mi urlava disperatamente di non farlo, perché non era più veramente lui.
«Brian...» sussurrai di nuovo «... cosa sei?».
Lui abbassò gli occhi, e per un istante potei giurare di aver visto in un lampo il mio Brian.
«Un mostro...» disse semplicemente, la voce intrisa di dolore e orrore, voltandosi e correndo via.
«Gina!».
Il dottor Bennett mi sostenne, mentre le mie ginocchia cedevano e le lacrime traboccavano dai miei occhi, offuscando il suo profilo in fuga.
[Alternativamente Gina/Brian side]
La notte era calata in fretta e l’atmosfera si era fatta estremamente lugubre, anche se stavo guidando attraverso strade illuminate abbondantemente dai lampioni sparsi un po’ ovunque.
In effetti, non era un fattore esterno ad influenzare la mia attuale percezione di “lugubre”, quanto piuttosto la mia attuale situazione interiore: Brian era impazzito, era diventato una perfetta macchina omicida e vagava solo per quelle stesse strade, chissà dove... e io non sapevo come fare per aiutarlo. Anzi, avrei dovuto temere d’incontrarlo, perché Bennett aveva ipotizzato che quella versione grottesca e malata del mio amato avrebbe potuto tentare di farmi fuori.
Nonostante ciò, il mio cervello si rifiutava di crederlo possibile, così come si rifiutava di credere che dietro quelle morti ci fosse lui, proprio lui, che aborriva con tutto se stesso l’assassinio.
«Ma non è più lui, Gina, devi ficcartelo nella testa!» continuavo a ripetermi, sperando che quelle parole prima o poi facessero realmente breccia nel mio cervello.
Non volevo crederci, ma dovevo, e la cosa non mi piaceva per niente.
Per il momento, l’unica cosa sensata che mi era venuta in mente di fare era di andare in quel vicolo dove avevano rinvenuto l’ultimo cadavere e sperare che ci fosse qualche traccia su un possibile indiziato.
Ne dubitavo, ma che altro potevo fare? Starmene con le mani in mano non mi pareva affatto giusto!
Parcheggiai davanti al vicolo che mi aveva indicato Gabbo e scesi dall’auto stringendomi addosso la felpa che mi ero premurata di portare quando ero stata dal dottor Bennett.
Il mio respiro si condensava in nuvolette nella gelida aria notturna. Avevo voglia di un caldo abbraccio e mi venne in mente quella volta in cui, colti da un acquazzone in piena regola durante una gita in un bosco, io e Brian ci eravamo rifugiati nella nostra tenda e lui mi aveva circondato dolcemente con le sue braccia per riscaldarmi.
Le sue calde, forti braccia...
Soffocai un pianto: non era il momento dei ricordi nostalgici, quello! Dovevo essere seria e, soprattutto, concentrata.
Avanzai nel vicolo ripiegandomi su me stessa lentamente, per cercare di scampare al freddo; intanto, mi guardavo intorno: si vedeva poco, ma comunque era qualcosa e mi bastava.
Vicino all’imboccatura della stradina c’erano ancora i segni lasciati dai poliziotti per vedere in che posizione si trovava il cadavere.
«Menomale, mi risparmiano un po’ di lavoro...» commentai, avvicinandomi e fermandomi poco distante: nell’aria si sentiva l’inconfondibile odore del sangue, che ancora decorava il muro tutt’attorno al punto dov’era avvenuto l’assassinio, simile ad un’inquietante corona rosso scuro. Metteva i brividi e per di più quell’odoraccio mi dava il voltastomaco.
Mi chinai comunque a terra e iniziai a dare un’occhiata in giro: non c’era niente sull’asfalto, né intorno al punto in cui il cadavere era stato ritrovato... no, non proprio.
Vicino alla base del muro, avvertii qualcosa di morbido sotto le mie dita e lo presi, alzandolo alla forte luce del lampione della strada principale. Mi ci volle qualche istante perché vi riconoscessi un ciuffo di peli marrone scuro.
Ma che ci faceva un ciuffo di peli lì? Non sembravano di cane: erano troppo lunghi e spessi per esserlo. Ma allora a cosa appartenevano?
Estrassi prontamente il cellulare dalla tasca e cercai nella rubrica il numero telefonico di Gabbo, premendo con mano tremante il tasto per avviare la telefonata, mentre continuavo ad osservare ciò che avevo raccolto: che fosse un indizio...?
Gabriel rispose al terzo squillo.
«Pronto, Gina? Banana!»
«Sì, Gabbo, sono io. Potresti passarmi Bennett?» domandai in tono sbrigativo: non avevo voglia di stare in quel vicolo un istante più del dovuto.
Potevo cercare di fare la coraggiosa quanto mi pareva, ma la verità era che avevo timore a stare in giro a quell’ora della notte da sola con tutto quel che era accaduto negli ultimi tempi.
Non volevo essere l’ennesima vittima.
Ricordai con nostalgia la volta in cui, verso mezzanotte, me ne stavo tornando a casa trascinandomi sulle spalle un Brian più ubriaco che vivo. Anche quello era un modo per non andare in giro da sola, anche se non era esattamente definibile tale.
Sentii un rumore dall’altro lato dell’apparecchio che mi distolse dalle mie piacevoli divagazioni, quindi la squillante e allarmata voce di Ian Bennett esclamò: «Gina...? Cos’è successo? Sta bene? Dove si trova?».
«Una domanda alla volta, dottore» esclamai, riepilogando brevemente le risposte «Io sto bene, sono nel vicolo su Rest Road e... be’, ho trovato qualcosa di abbastanza interessante vicino al luogo dove è stato trovato l’ultimo corpo».
«Cos’è?» lo sentii domandare.
Pareva improvvisamente turbato ed eccitato ad un tempo.
«È... un ciuffo di peli scuri»
«Peli scuri?» ripeté lo psichiatra.
«Sì, d’animale, anche se non penso siano di un cane: sono troppo lunghi e spessi per esserlo...» li osservai di nuovo in controluce, poi aggiunsi «... forse sono di lupo, ma non azzarderei nemmeno quell’ipotesi».
«Forse è meglio se torni indietro e mi fai vedere: potremmo venirne a capo, in due...» disse Bennett.
«Okay... arrivo» replicai, riattaccando e infilando il ciuffetto di peli in una bustina di plastica che tenevo nei pantaloni.
Non chiedetemi perché l’avessi portata con me, perché non saprei spiegarlo. Prima di uscire di casa, semplicemente, l’avevo presa e messa in tasca.
Chiamatelo “sesto senso”.
Mi rialzai e fu in quel momento che un brivido gelido mi corse lungo la schiena, assieme ad un lungo e cupo ringhio animale pieno d’aggressività latente.
Ero paralizzata, ma obbligai comunque il mio busto a ruotare lentamente per metà, finché i miei occhi incrociarono il profilo di due bestie, due grossi lupi dalle zanne snudate e dall’aria poco rassicurante. Qualcosa nella mia testa mi disse che c’entravano con l’omicidio avvenuto in quel luogo.
Una delle due belve aveva gli occhi rosso brace, mentre l’altra li aveva di un bell’azzurro dai riflessi di ghiaccio, e per un istante mi ricordò Brian.
Ma poi il lupo dagli occhi di brace ringhiò in modo minaccioso e il mio cervello andò nel panico.
D’istinto mi volsi e corsi verso la macchina, al che loro si gettarono subito al mio inseguimento: sentivo i loro artigli cozzare e graffiare l’asfalto.
Per mia fortuna erano parecchio lontani da me e per recuperare la distanza che ci separava non bastava poco, nonostante la loro incredibile rapidità.
Mi gettai contro lo sportello dell’auto e lo aprii. Con mano tremante infilai la chiave e accesi il motore, guardando le bestie che mi stavano correndo incontro, affamate della mia carne.
Partii in retromarcia con uno stridere di gomme allucinante, mentre il lupo dagli occhi rossi scattava verso la mia auto. Prese in pieno il cofano e rimbalzò all’indietro lanciando un guaito.
Accelerai senza aspettare neppure un attimo, il cuore che mi batteva a mille in petto. In quel momento l’altro animale cercò di pararsi davanti a me per fermare la mia ritirata.
Gli schiacciai una zampa: sentii la ruota anteriore sinistra passare sopra il suo osso come se l’avessi appena investito di persona e non potei fare a meno di sentirmi un po’ in colpa; tuttavia non decelerai, né tantomeno mi fermai per vedere se era ancora vivo.
Dovevo tornare da Bennett e raccontargli cosa mi era appena successo.
Non sapevo nemmeno se quello che avevo trovato potesse aiutare Brian, ma non m’importava: al momento avevo solo bisogno di un posto caldo e di qualcuno che conoscessi bene e con cui potessi parlare liberamente. In assenza del mio amato, Ian Bennett era l’unico che possedeva ambedue questi requisiti.
Rating: Arancione
Genere: Malinconico, Romantico, Sovrannaturale
Personaggi: Brian Basco, Gabriel Spiegelman, Gina Timmins, Ian Bennett, Nuovo Personaggio
Wordcount: 1187 (
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Note: AU, Het, Long-fic, Non per stomaci delicati
«Brian...».
Non riuscivo a tenere sotto controllo la voce, che percepivo io stessa instabile e rotta da un pianto ormai prossimo.
Lo guardavo, e nei suoi occhi non vedevo più lo stesso uomo con cui avevo passato così tante avventure e del quale mi ero perdutamente innamorata, ma vedevo semplicemente un estraneo dall’aria familiare.
Volevo abbracciarlo, ma il mio cervello mi urlava disperatamente di non farlo, perché non era più veramente lui.
«Brian...» sussurrai di nuovo «... cosa sei?».
Lui abbassò gli occhi, e per un istante potei giurare di aver visto in un lampo il mio Brian.
«Un mostro...» disse semplicemente, la voce intrisa di dolore e orrore, voltandosi e correndo via.
«Gina!».
Il dottor Bennett mi sostenne, mentre le mie ginocchia cedevano e le lacrime traboccavano dai miei occhi, offuscando il suo profilo in fuga.
[Alternativamente Gina/Brian side]
La notte era calata in fretta e l’atmosfera si era fatta estremamente lugubre, anche se stavo guidando attraverso strade illuminate abbondantemente dai lampioni sparsi un po’ ovunque.
In effetti, non era un fattore esterno ad influenzare la mia attuale percezione di “lugubre”, quanto piuttosto la mia attuale situazione interiore: Brian era impazzito, era diventato una perfetta macchina omicida e vagava solo per quelle stesse strade, chissà dove... e io non sapevo come fare per aiutarlo. Anzi, avrei dovuto temere d’incontrarlo, perché Bennett aveva ipotizzato che quella versione grottesca e malata del mio amato avrebbe potuto tentare di farmi fuori.
Nonostante ciò, il mio cervello si rifiutava di crederlo possibile, così come si rifiutava di credere che dietro quelle morti ci fosse lui, proprio lui, che aborriva con tutto se stesso l’assassinio.
«Ma non è più lui, Gina, devi ficcartelo nella testa!» continuavo a ripetermi, sperando che quelle parole prima o poi facessero realmente breccia nel mio cervello.
Non volevo crederci, ma dovevo, e la cosa non mi piaceva per niente.
Per il momento, l’unica cosa sensata che mi era venuta in mente di fare era di andare in quel vicolo dove avevano rinvenuto l’ultimo cadavere e sperare che ci fosse qualche traccia su un possibile indiziato.
Ne dubitavo, ma che altro potevo fare? Starmene con le mani in mano non mi pareva affatto giusto!
Parcheggiai davanti al vicolo che mi aveva indicato Gabbo e scesi dall’auto stringendomi addosso la felpa che mi ero premurata di portare quando ero stata dal dottor Bennett.
Il mio respiro si condensava in nuvolette nella gelida aria notturna. Avevo voglia di un caldo abbraccio e mi venne in mente quella volta in cui, colti da un acquazzone in piena regola durante una gita in un bosco, io e Brian ci eravamo rifugiati nella nostra tenda e lui mi aveva circondato dolcemente con le sue braccia per riscaldarmi.
Le sue calde, forti braccia...
Soffocai un pianto: non era il momento dei ricordi nostalgici, quello! Dovevo essere seria e, soprattutto, concentrata.
Avanzai nel vicolo ripiegandomi su me stessa lentamente, per cercare di scampare al freddo; intanto, mi guardavo intorno: si vedeva poco, ma comunque era qualcosa e mi bastava.
Vicino all’imboccatura della stradina c’erano ancora i segni lasciati dai poliziotti per vedere in che posizione si trovava il cadavere.
«Menomale, mi risparmiano un po’ di lavoro...» commentai, avvicinandomi e fermandomi poco distante: nell’aria si sentiva l’inconfondibile odore del sangue, che ancora decorava il muro tutt’attorno al punto dov’era avvenuto l’assassinio, simile ad un’inquietante corona rosso scuro. Metteva i brividi e per di più quell’odoraccio mi dava il voltastomaco.
Mi chinai comunque a terra e iniziai a dare un’occhiata in giro: non c’era niente sull’asfalto, né intorno al punto in cui il cadavere era stato ritrovato... no, non proprio.
Vicino alla base del muro, avvertii qualcosa di morbido sotto le mie dita e lo presi, alzandolo alla forte luce del lampione della strada principale. Mi ci volle qualche istante perché vi riconoscessi un ciuffo di peli marrone scuro.
Ma che ci faceva un ciuffo di peli lì? Non sembravano di cane: erano troppo lunghi e spessi per esserlo. Ma allora a cosa appartenevano?
Estrassi prontamente il cellulare dalla tasca e cercai nella rubrica il numero telefonico di Gabbo, premendo con mano tremante il tasto per avviare la telefonata, mentre continuavo ad osservare ciò che avevo raccolto: che fosse un indizio...?
Gabriel rispose al terzo squillo.
«Pronto, Gina? Banana!»
«Sì, Gabbo, sono io. Potresti passarmi Bennett?» domandai in tono sbrigativo: non avevo voglia di stare in quel vicolo un istante più del dovuto.
Potevo cercare di fare la coraggiosa quanto mi pareva, ma la verità era che avevo timore a stare in giro a quell’ora della notte da sola con tutto quel che era accaduto negli ultimi tempi.
Non volevo essere l’ennesima vittima.
Ricordai con nostalgia la volta in cui, verso mezzanotte, me ne stavo tornando a casa trascinandomi sulle spalle un Brian più ubriaco che vivo. Anche quello era un modo per non andare in giro da sola, anche se non era esattamente definibile tale.
Sentii un rumore dall’altro lato dell’apparecchio che mi distolse dalle mie piacevoli divagazioni, quindi la squillante e allarmata voce di Ian Bennett esclamò: «Gina...? Cos’è successo? Sta bene? Dove si trova?».
«Una domanda alla volta, dottore» esclamai, riepilogando brevemente le risposte «Io sto bene, sono nel vicolo su Rest Road e... be’, ho trovato qualcosa di abbastanza interessante vicino al luogo dove è stato trovato l’ultimo corpo».
«Cos’è?» lo sentii domandare.
Pareva improvvisamente turbato ed eccitato ad un tempo.
«È... un ciuffo di peli scuri»
«Peli scuri?» ripeté lo psichiatra.
«Sì, d’animale, anche se non penso siano di un cane: sono troppo lunghi e spessi per esserlo...» li osservai di nuovo in controluce, poi aggiunsi «... forse sono di lupo, ma non azzarderei nemmeno quell’ipotesi».
«Forse è meglio se torni indietro e mi fai vedere: potremmo venirne a capo, in due...» disse Bennett.
«Okay... arrivo» replicai, riattaccando e infilando il ciuffetto di peli in una bustina di plastica che tenevo nei pantaloni.
Non chiedetemi perché l’avessi portata con me, perché non saprei spiegarlo. Prima di uscire di casa, semplicemente, l’avevo presa e messa in tasca.
Chiamatelo “sesto senso”.
Mi rialzai e fu in quel momento che un brivido gelido mi corse lungo la schiena, assieme ad un lungo e cupo ringhio animale pieno d’aggressività latente.
Ero paralizzata, ma obbligai comunque il mio busto a ruotare lentamente per metà, finché i miei occhi incrociarono il profilo di due bestie, due grossi lupi dalle zanne snudate e dall’aria poco rassicurante. Qualcosa nella mia testa mi disse che c’entravano con l’omicidio avvenuto in quel luogo.
Una delle due belve aveva gli occhi rosso brace, mentre l’altra li aveva di un bell’azzurro dai riflessi di ghiaccio, e per un istante mi ricordò Brian.
Ma poi il lupo dagli occhi di brace ringhiò in modo minaccioso e il mio cervello andò nel panico.
D’istinto mi volsi e corsi verso la macchina, al che loro si gettarono subito al mio inseguimento: sentivo i loro artigli cozzare e graffiare l’asfalto.
Per mia fortuna erano parecchio lontani da me e per recuperare la distanza che ci separava non bastava poco, nonostante la loro incredibile rapidità.
Mi gettai contro lo sportello dell’auto e lo aprii. Con mano tremante infilai la chiave e accesi il motore, guardando le bestie che mi stavano correndo incontro, affamate della mia carne.
Partii in retromarcia con uno stridere di gomme allucinante, mentre il lupo dagli occhi rossi scattava verso la mia auto. Prese in pieno il cofano e rimbalzò all’indietro lanciando un guaito.
Accelerai senza aspettare neppure un attimo, il cuore che mi batteva a mille in petto. In quel momento l’altro animale cercò di pararsi davanti a me per fermare la mia ritirata.
Gli schiacciai una zampa: sentii la ruota anteriore sinistra passare sopra il suo osso come se l’avessi appena investito di persona e non potei fare a meno di sentirmi un po’ in colpa; tuttavia non decelerai, né tantomeno mi fermai per vedere se era ancora vivo.
Dovevo tornare da Bennett e raccontargli cosa mi era appena successo.
Non sapevo nemmeno se quello che avevo trovato potesse aiutare Brian, ma non m’importava: al momento avevo solo bisogno di un posto caldo e di qualcuno che conoscessi bene e con cui potessi parlare liberamente. In assenza del mio amato, Ian Bennett era l’unico che possedeva ambedue questi requisiti.