fiamma_drakon (
fiamma_drakon) wrote2011-06-18 02:23 pm
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Un compleanno tutt'altro che normale
Titolo: Un compleanno tutt'altro che normale
Rating: Giallo
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale
Personaggi: Alfred F. Jones (America), Arthur Kirkland (Inghilterra)
Wordcount: 3209 (
fiumidiparole)
Note: Yaoi
Inghilterra era sulla strada di casa, esausto dopo un’altra estenuante giornata di riunione con le Forze Alleate, durante la quale aveva dovuto sorbirsi le frecciatine tutt’altro che ben gradite di Francia e le discussioni più o meno sensate circa le strategie da adottare contro le Potenze dell’Asse.
Stranamente, quel giorno America era stato assente all’incontro.
Nubi plumbee cominciavano ad addensarsi nel cielo, promettendo una pioggia di non poca entità che si sarebbe scatenata di lì a poco e che quasi certamente si sarebbe perpetrata per tutta la notte, peggiorando.
Inghilterra era sulla strada di casa, esausto dopo un’altra estenuante giornata di riunione con le Forze Alleate, durante la quale aveva dovuto sorbirsi le frecciatine tutt’altro che ben gradite di Francia e le discussioni più o meno sensate circa le strategie da adottare contro le Potenze dell’Asse.
Stranamente, quel giorno America era stato assente all’incontro, cosa che aveva quasi dell’assurdo, considerate le sue manie di comando; tuttavia, ad Arthur la cosa non dispiaceva più di tanto: non aveva voglia di discutere con lui e di sopportare tutte le sue uscite stupide. Non quel giorno: era il suo compleanno e non voleva arrabbiarsi inutilmente o stare a badare ai suoi progetti da piccolo ingegnere pazzo.
Un tuono riecheggiò nel silenzio, facendo tremare l’aria.
«Meglio affrettarsi...» mormorò tra sé e sé, accelerando un po’ il passo.
In lontananza riusciva già a scorgere il profilo di casa sua. Desiderava essere già lì, al caldo davanti al camino.
Avrebbe passato la sera del suo compleanno accoccolato davanti ad un fuocherello scoppiettante con una tazza di thè fumante ed un buon libro, niente d’eccezionale ma qualcosa di sicuramente gradito dopo una giornata come quella.
Sentì cadere le prime gocce d’acqua ghiacciata e subito cominciò a correre.
La pioggia iniziò immediatamente a scendere fitta, cadendo al suolo come una cascata di granelli di ghiaccio, picchiando con forza sulla schiena e sulla testa del biondo, che arrivò davanti alla porta di casa inzuppato da capo a piedi.
Pescò la chiave di casa da una tasca infradiciata che riuscì ad aprire con non poca fatica e la infilò nella toppa dell’uscio. La girò, facendo scattare la serratura, e spinse.
«SORPRESA!».
Arthur saltò all’indietro per lo spavento e perse l’equilibrio, cadendo in una pozzanghera e ricoprendosi di melma.
Dalla sua posizione alzò gli occhi verso la soglia, sulla quale si era materializzato il profilo della persona che all’inglese era la più familiare che potesse trovarsi davanti.
«Inghilterra!»
«America?! Che cosa ci fai a casa mia?!».
Un moto istantaneo d’odio riempì l’animo di Kirkland: America era vestito elegante, con una camicia bianca che teneva fuori dei jeans chiari, per una volta senza il suo giubbotto da aviatore addosso, e lo guardava dalla porta di casa completamente asciutto. Lui, invece, non solo era fradicio di gelida acqua piovana, ma per di più la sua uniforme era anche inzaccherata di fango a causa della caduta.
Era frustrante - oltre che dannatamente imbarazzante.
«Dai, non essere sempre così scontroso!» lo esortò l’americano, afferrandolo per una manica e tirandolo a sé con fin troppa energia. Inghilterra venne alzato di peso e cadde contro il petto di Alfred, percependo il piacevole tepore del suo corpo attraverso il tessuto bagnato della sua uniforme.
«C-che cosa ci fai qui?» domandò ancora l’inglese, ritraendosi da lui, paonazzo per la ristretta vicinanza.
«Sono venuto per te» disse Alfred con totale spontaneità, senza minimamente prestare la propria attenzione al fatto che una frase del genere potesse essere fraintesa - ed effettivamente lo fu dal suo interlocutore, che arrossì ancora, fortemente in imbarazzo.
America non ci fece caso e gli pizzicò una guancia abbastanza forte da strappargli un debole “ahi!”.
Arthur si massaggiò vigorosamente la guancia dolente e fece per replicare qualcosa, ma l’altro lo precedette.
«Buon compleanno, Inghilterra!» esclamò allegramente, dandogli un affettuoso buffetto sulla testa.
L’inglese indietreggiò, assumendo un’espressione d’indignazione mista a disagio: non gli piaceva che America si prendesse certe libertà con lui solo perché era più basso.
In un secondo momento distolse lo sguardo, indirizzandolo al suolo: non si aspettava che proprio lui si ricordasse del suo compleanno - o comunque gliene importasse qualcosa. Dopotutto, adesso era una nazione indipendente.
«Be’, cos’è quell’espressione triste?» fece America, perplesso, tirandogli di nuovo la guancia.
«Ahio! Smettila...!» lo rimproverò Inghilterra, afferrandogli il polso e spostandolo, interrompendo quella dolorosa ed oltremodo fastidiosa tortura «Piuttosto, come hai fatto ad entrare in casa?» chiese subito dopo, sviando ulteriormente il discorso dalla domanda iniziale.
L’americano stirò le labbra in un sorriso che assunse rapidamente connotati che definire di semplice compiacimento era eufemistico.
«Eheh!» rise, infilando la mano destra nella tasca dei jeans. Ne cavò fuori una chiave alla quale era appeso un portachiavi che l’inglese identificò all’istante.
«La riconosci?»
«Hai ancora quella chiave di riserva?» fu la replica che ottenne, senza il minimo entusiasmo, ma solamente un debole sentore di sorpresa.
Si ricordava ancora quando gliel’aveva data: era stato in seguito ad una mancanza d’attenzioni da parte sua, che era uscito dopo Alfred da casa senza lasciargli le chiavi per rientrare - col risultato che, al suo ritorno la sera tardi, l’aveva trovato seduto sullo scalino davanti alla porta, con le ginocchia strette al petto per cercare di proteggersi un po’ dal freddo. Nella sua mente aveva ancora bene impressa l’espressione da cucciolo ferito che gli aveva rivolto vedendolo arrivare.
Nonostante nel consegnargli la chiave l’avesse avvertito di non separarsene mai e per nessun motivo, si sorprendeva che l’avesse tenuta anche dopo la loro separazione e che oltretutto ci tenesse ancora attaccato il ciondolo che gli aveva dato, una piccola bandiera inglese.
«La conservo in caso voglia venire mentre non ci sei!» spiegò America, facendo spallucce, riponendo l’oggetto al suo posto.
«È violazione di domicilio» gli fece notare Inghilterra «Anche se adesso si spiega perché ogni tanto me lo ritrovo in giro per casa senza che l’abbia fatto entrare...» realizzò tra sé.
«È stata anche casa mia» sentenziò Alfred.
Cadde un silenzio disagiato, teso, che durò solo pochi istanti, il tempo che America impiegò a prendere Arthur per le spalle e metterlo davanti a sé, spingendolo verso la sala da pranzo.
«Andiamo, forza!».
«E-ehi!» esclamò Inghilterra, cercando d’opporre resistenza, invano: America era troppo forte per lui.
«Che cosa s...?!».
L’inglese s’interruppe quando si fermarono sulla porta della sala da pranzo: la tavola era apparecchiata per due persone e le portate facevano bella mostra di loro su vassoi lucidati alla perfezione, come i calici posti innanzi ai due piatto, che riflettevano la tremula e romantica luce del candelabro sistemato al centro.
«Oh...» mormorò Inghilterra, stupefatto, entrando.
«C’è voluto un bel po’ per sistemare tutto, quindi non sono potuto venire alla riunione di oggi» spiegò America, grattandosi la testa con fare disagiato «Non potevo lasciare le cose a metà» aggiunse, con più determinazione.
Inghilterra arrossì nel notare l’espressione fanciullesca che si era dipinta in viso ad Alfred.
«Lo rende così carino...» commentò tra sé, poi scosse con vigore la testa «M-ma che sto dicendo?! È un maschio! È America!».
L’altro osservò il suo sguardo e non poté fare a meno di sorridere: sembrava confuso, ma tutto sommato compiaciuto di ciò che gli aveva preparato.
«Ti piace?» chiese, parandoglisi davanti ed osservandolo con innocente aspettativa.
«B-be’...» cominciò Kirkland, guardando altrove, imbarazzato dalla situazione «Sì, ehm... l’hai preparato per me, no...?».
Perché all’improvviso si sentiva tanto in soggezione nel parlare con America? Non aveva mai avuto problemi, dannazione!
«S-sì, insomma, quello che voglio dire... err...» fece una breve pausa, cercando di assumere un contegno dignitoso, nonostante si sentisse il sangue al cervello ed il viso in fiamme «Grazie».
America rise.
«C-che cosa c’è da ridere?»
«Sei diventato tutto rosso!»
«Hmpf!» sbuffò Inghilterra, offeso «Avresti anche potuto risparmiarti tutto questo!».
«Oh, dai. Sapevo che non avresti preparato niente di speciale per stasera» disse l’altro col tono tipico di chi la sa lunga, poi proseguì, senza la minima malignità: «Tu non sai cucinare».
«Non avevo intenzione di cenare perché stasera non ho fame, altrimenti sarei benissimo in grado di cucinare!» replicò l’inglese in tono sostenuto.
In quel preciso istante il suo stomaco emise un borbottio ben udibile da entrambi che lo tradì.
America ridacchiò e Inghilterra divenne paonazzo per la vergogna.
«Smettila di rider... atcì!».
Inghilterra si fermò un momento.
«Atcì!» starnutì una seconda volta, più forte.
«Tsk! Vado a cambiarmi» annunciò, avviandosi verso la porta «Non fare cose stupide in m...» si bloccò a metà frase e scosse la testa, uscendo.
Per quanto si sforzasse e ci si impegnasse, continuava a vedere America - soprattutto quand’erano loro due da soli, lontani dal campo di battaglia - come il tenero ed ingenuo bambino con il quale aveva passato così tanti anni e momenti piacevoli. In parte ancora era un bambino, benché adesso fosse cresciuto e fosse addirittura più alto di lui - fatto che non riusciva ad accettare pienamente.
Appena ebbe oltrepassato la soglia, Alfred sospirò, andando ad appoggiarsi contro una parete. Contemplò il proprio operato con orgoglio e soddisfazione per alcuni minuti, ricordando l’espressione piacevolmente sorpresa di Arthur.
Alla fine, tutto il suo lavoro non era andato sprecato come aveva inizialmente temuto.
Sperava soltanto che Inghilterra riuscisse a divertirsi almeno un po’: principalmente, era lì per quello. Non voleva lasciarlo da solo per il suo compleanno: solo l’idea lo rattristava.
Dopo poco sentì dei passi attutiti provenire dal corridoio e si affrettò a tornare dov’era prima, appena un momento prima che l’inglese entrasse.
Alfred lo esaminò da capo a piedi, senza riuscire a non arrossire un poco: Inghilterra era così... carino.
Indosso aveva una camicia azzurra con i primi due bottoni aperti, così da lasciar scoperto il collo ed una piccola parte del petto. Sopra la camicia portava un gilet nero che gli dava un’aria un po’ formale che però - conoscendolo come lo conosceva America - con ogni probabilità era un effetto che aveva ricercato di proposito, come testimoniava anche l’elegante paio di pantaloni neri che portava, da sotto i quali spuntavano un paio di scarpe nere che parevano nuovissime, forse addirittura mai usate.
I capelli erano vittime evidenti di un tentativo d’asciugatura super rapido: i ciuffi che solitamente gli cadevano in modo ordinato sulla fronte erano disordinati, mentre per il resto i capelli stavano come pareva loro, sparati un po’ in tutte le direzioni.
Quel modo totalmente casuale di tenere i capelli lo rendeva più normale agli occhi dell’americano, familiare in un certo senso. Più carino.
«Hai fatto in fretta» commentò.
«Non volevo farti aspettare...» mormorò con un fil di voce l’inglese «Che c’è da guardare?» fece un momento dopo a voce più alta e con una nota d’indignazione, notando l’espressione assorta dell’altro, fissa su di sé.
«Niente...!» si affrettò a rispondere America, senza riuscire a dissimulare un certo atteggiamento colpevole «Dai, mangiamo! Ho una fame...!» proseguì, avvicinandosi al tavolo.
«E dov’è la novità?» ribatté Arthur in tono quasi esasperato, occupando uno qualsiasi dei due posti.
America gonfiò le guance, offeso, ma non disse niente: era troppo impegnato a riempire il suo stomaco vuoto per dire alcunché.
A quanto pareva lo chef aveva preparato il pasto non solo tenendo conto dei gusti di ambedue, ma anche considerando quanto lui medesimo riusciva a mangiare, che non era poco.
Inghilterra, mentre mangiava, osservava l’altro mangiare a sua volta: mancava quasi totalmente di educazione, un difetto che a tavola aveva notato in lui fin dall’infanzia. Crescendo, la cosa non era migliorata granché, da come poteva vedere: Alfred mangiava bocconi enormi e probabilmente li ingoiava quasi senza masticare, ingurgitava quantità di cibo esagerate senza saziarsi e beveva facendo rumore.
Era un modo di mangiare che all’inglese pareva piuttosto imbarazzante, anche se il diretto interessato non sembrava affatto crucciarsi per quello.
A ben guardare, sembrava che con gli anni fosse addirittura peggiorato; eppure quel suo modo di mangiare così maleducato, rumoroso... americano, lo metteva sotto una luce differente dal solito. Lo rendeva quasi più tenero.
Mentre lo guardava, l’inglese non si rese conto di smettere pian piano di mangiare per concentrare tutta la sua attenzione su di lui, fatto del quale, però, America si accorse benissimo.
Deglutendo l’ennesimo boccone prima di parlare, l’americano chiese: «C’è qualche problema?».
Dall’espressione che gli si era dipinta in viso - un misto tra riflessione, curiosità ed anche una leggera nota di disgusto - Alfred temeva che il cibo non fosse di suo gradimento - mandando così al vento le ore che aveva passato a studiare i libri di cucina inglese che aveva trovato in casa.
«No, non è niente» replicò l’altro, negando con il capo, riprendendo a mangiare.
Il resto della cena - che durò relativamente poco - fu consumato in silenzio, dato che era impossibile avviare una qualsivoglia discussione con Alfred mentre mangiava: avrebbe senz’altro cercato di rispondere con la bocca piena, col risultato che Arthur non ci avrebbe capito niente e avrebbe perso l’appetito.
Quando ebbero terminato ed arrivò il momento del dessert, America saltò su dalla sedia con un’eccitazione un po’ troppo spinta, tanto da sfociare nell’imbarazzante; tuttavia, l’americano non se ne fece affatto un problema.
Inghilterra non riusciva a capire che cosa ci fosse da esaltarsi tanto: era solo una torta di compleanno - se di una torta si trattava.
Per lui sarebbe stato un felice compleanno anche senza: si accontentava di poco - anche considerando il clamoroso fallimento dell’anno prima, quando aveva cercato di prepararsi da solo la torta ed aveva finito col rovinare il forno senza un nulla di fatto.
«Vado a prendere il dolce» sentenziò l’americano, cominciando a radunare tutti i piatti e i vassoi sporchi, caricandosene in braccio più del dovuto, tanto da traballare leggermente nel muovere il primo passo verso la cucina.
Arthur si alzò a propria volta.
«Ti do una ma...»
«No, faccio da solo!» lo bloccò l’altro, cercando di mantenere il precario equilibrio della piccola pila di stoviglie che reggeva «Tu rimani lì!».
A quel punto sparì oltre la soglia della cucina.
Arthur si versò un bicchiere di birra e bevve lentamente, in silenzio, per non rimanere senza niente da fare in quel momento di stasi: stare ad aspettare che Alfred gli portasse il dolce di compleanno lo faceva sentire a disagio.
Finito il primo bicchiere se ne versò un altro.
A metà di quello, America ritornò con un vassoio rettangolare tra le mani ed un’espressione allegra.
Dalla posizione in cui si trovava, l’inglese riusciva soltanto a vedere il fianco della torta, bianco di crema - o forse panna - ed una candelina a strisce trasversali rosse e blu che dal modo di scoppiettare della fiammella pareva più che altro un petardo.
Quando l’americano gli mise davanti il dessert, Inghilterra sgranò gli occhi, stupefatto: la torta era decorata con glassa blu, rossa e bianca in modo da tracciare sulla superficie la bandiera inglese.
Quando si trattava di torte particolari, Alfred riusciva a tirar fuori tutto il suo estro creativo e a stupire sempre.
«Oh...» mormorò Arthur, sorpreso, inarcando le sopracciglia.
«Allora? Dai, soffia!» lo esortò Alfred, eccitato, fissandolo con aspettativa.
Inghilterra, rosso in viso, lo esaudì e soffiò goffamente sulla candelina.
«Evviva! Auguri Inghilterra!» esclamò al settimo cielo America, abbracciandolo.
L’inglese s’infervorò violentemente, cominciando a sentire caldo.
«T-togliti!» disse, cercando di svincolarsi dalla sua presa, riuscendo dopo qualche tentativo nell’impresa.
Era stato strano: Inghilterra aveva sentito battere il cuore a mille nel momento stesso in cui le braccia dell’altro si erano strette attorno al suo collo.
L’americano afferrò un coltello e tagliò due porzioni del dolce, aggirando il tavolo per tornare a sedersi.
Mentre mangiavano, Arthur alternava un boccone ad un sorso di birra, chiacchierando con Alfred, il quale - arrivato quasi il momento di terminare la serata - aveva cominciato a parlare del più e del meno senza fermarsi. Trascinato dalla conversazione, Inghilterra cominciò a bere senza il minimo buonsenso e il risultato che ottenne dopo una buona mezz’ora fu di cominciare a non rispondere più delle proprie azioni e parole.
Anche dopo aver finito il dessert, i due continuarono a discutere animatamente e Inghilterra continuò a bere, fino al punto d’essere talmente ubriaco che persino America, nella sua semplicità e mancanza quasi assoluta d’attenzioni per determinati particolari, se ne accorse.
«Ehi, Inghilterra tutto okay...?» chiese incuriosito, inarcando le sopracciglia.
L’inglese stava steso sul tavolo, le palpebre che vibravano nello sforzo di rimanere aperte, mentre biascicava parole sconnesse e discorsi senza alcun senso.
Inghilterra alzò il capo e lo guardò, indignato.
«Perché sei venuto, anche se sei indi... pendente...?» borbottò.
«Eh-eh?» domandò America, sbattendo le palpebre con perplessità.
«Non serviva che tu venissi!» esclamò l’altro a voce alta, come se l’americano non riuscisse a sentirlo bene «Però mi ha fatto piacere...» ammise poi con voce più moderata, guardando il suo interlocutore direttamente negli occhi.
Alfred vide lacrime affacciarsi ai lati dei pozzi verde intenso racchiusi tra le sue palpebre. Era sul punto di piangere.
Kirkland si abbassò, poggiando il mento sulle braccia conserte sul piano del tavolo, lo sguardo offuscato da un leggero velo di depressione.
«Indipendenza... America, sei un idiota... perché te ne sei andato...?» chiese a voce alta, quasi gridando.
Sembrava che, ora che non era più propriamente padrone di sé, riuscisse ad esternare i pensieri che solitamente reprimeva.
In quel momento, ad Alfred parve incredibilmente fragile e si sentì in dovere di fare qualcosa per fargli sentire la propria presenza al suo fianco - quella che l’aveva accusato di non aver mantenuto in quegli anni a causa della sua voglia d’indipendenza e libertà.
Per questo si sporse a propria volta sul tavolo e prese il viso dell’inglese tra le dita, carezzandogli la pelle coi polpastrelli, avvicinandolo a sé per poi catturare le sue labbra con le proprie in un bacio lungo ed inizialmente casto, poi sempre più appassionato e profondo.
Inghilterra chiuse gli occhi, arrossendo, mentre il suo cuore palpitava sempre più rapido.
Quando si separarono, l’inglese si accasciò nuovamente sul tavolo.
«È distrutto...» osservò l’americano, alzandosi.
«Andiamo Inghilterra, forza!» esclamò, avvicinandosi a lui da dietro, sollevandolo di peso dalla sedia come se fosse un fuscello e prendendolo in grembo.
Arthur, sbronzo e assonnato, si accoccolò contro il petto di Alfred come in cerca di protezione e contatto ravvicinato, quasi intimo.
America arrossì un poco nel contemplare il suo viso disteso, gli occhi socchiusi in atto di assopimento, le guance infiammate.
Tenendolo tra le braccia, lo trasportò fino in camera.
Una volta giunti lì, l’americano fece per deporlo sul letto, ma si sentì tirare la camicia debolmente.
«America...» sussurrò Inghilterra, stringendo con poca energia la sua camicia tra le dita, come per attirare la sua attenzione.
«Sì?»
«Puoi...?».
Il mattino seguente, Arthur fu svegliato da un fastidioso raggio di sole che gl’investiva il viso. Schiuse debolmente gli occhi e si ritrovò a contemplare il soffitto della sua camera.
Era nel suo letto, ma non ricordava come ci fosse arrivato e perché fosse andato a dormire completamente vestito.
L’unica cosa di cui era sicuro era che la sera avanti aveva esagerato un po’ troppo con la birra: ricordava vaghi sprazzi di conversazione con America, ma erano sconnessi tra loro.
L’inglese sbatté un paio di volte le palpebre per liberarsi degli ultimi accenni di sonno e fu solo allora che percepì una presenza al suo fianco ed un debole russare vicino al suo orecchio.
Girò il viso verso la parete e rimase così un momento, prima che il suo viso s’infiammasse per la rabbia ed una buona dose di shock: America giaceva addormentato nel suo stesso letto, il viso poco distante dal suo.
Stava girato su un fianco, voltato al suo indirizzo, la bocca lievemente aperta in una “o” muta e innocente.
Inghilterra saltò indietro di scatto, cadendo rumorosamente giù dal letto, riuscendo così a svegliare il suo ospite. Quest’ultimo alzò il capo e fissò confusamente l’altro, sporgendosi lievemente verso di lui.
«Ehi, tutto bene...?» chiese, mezzo assonnato.
«Che cosa ci fai nel mio letto?!» gridò l’altro, sconvolto.
«Mi hai chiesto tu di rimanere, ieri notte... dopo che mi hai baciato...» asserì tranquillamente Alfred, mettendosi seduto, grattandosi la testa e sbadigliando.
«CHE COSAAA?!?!» urlò Arthur, arretrando ancora.
Nella mente gli apparve confusamente il ricordo e per un momento Kirkland rivide il viso di Jones avvicinarsi al suo e sentì le sue labbra toccare le sue, cercare una sua reazione con determinazione.
Non disse niente: a quanto pareva, la voce se ne era andata per qualche lido sperduto chissà dove.
L’unico commento coerente che riuscì a formulare mentalmente fu un deciso e amaro: «Devo assolutamente smettere di bere. Se non sono padrone di me faccio cose assurde! Che imbarazzo...! Voglio morire!!».
Rating: Giallo
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Note: Yaoi
Inghilterra era sulla strada di casa, esausto dopo un’altra estenuante giornata di riunione con le Forze Alleate, durante la quale aveva dovuto sorbirsi le frecciatine tutt’altro che ben gradite di Francia e le discussioni più o meno sensate circa le strategie da adottare contro le Potenze dell’Asse.
Stranamente, quel giorno America era stato assente all’incontro.
Nubi plumbee cominciavano ad addensarsi nel cielo, promettendo una pioggia di non poca entità che si sarebbe scatenata di lì a poco e che quasi certamente si sarebbe perpetrata per tutta la notte, peggiorando.
Inghilterra era sulla strada di casa, esausto dopo un’altra estenuante giornata di riunione con le Forze Alleate, durante la quale aveva dovuto sorbirsi le frecciatine tutt’altro che ben gradite di Francia e le discussioni più o meno sensate circa le strategie da adottare contro le Potenze dell’Asse.
Stranamente, quel giorno America era stato assente all’incontro, cosa che aveva quasi dell’assurdo, considerate le sue manie di comando; tuttavia, ad Arthur la cosa non dispiaceva più di tanto: non aveva voglia di discutere con lui e di sopportare tutte le sue uscite stupide. Non quel giorno: era il suo compleanno e non voleva arrabbiarsi inutilmente o stare a badare ai suoi progetti da piccolo ingegnere pazzo.
Un tuono riecheggiò nel silenzio, facendo tremare l’aria.
«Meglio affrettarsi...» mormorò tra sé e sé, accelerando un po’ il passo.
In lontananza riusciva già a scorgere il profilo di casa sua. Desiderava essere già lì, al caldo davanti al camino.
Avrebbe passato la sera del suo compleanno accoccolato davanti ad un fuocherello scoppiettante con una tazza di thè fumante ed un buon libro, niente d’eccezionale ma qualcosa di sicuramente gradito dopo una giornata come quella.
Sentì cadere le prime gocce d’acqua ghiacciata e subito cominciò a correre.
La pioggia iniziò immediatamente a scendere fitta, cadendo al suolo come una cascata di granelli di ghiaccio, picchiando con forza sulla schiena e sulla testa del biondo, che arrivò davanti alla porta di casa inzuppato da capo a piedi.
Pescò la chiave di casa da una tasca infradiciata che riuscì ad aprire con non poca fatica e la infilò nella toppa dell’uscio. La girò, facendo scattare la serratura, e spinse.
«SORPRESA!».
Arthur saltò all’indietro per lo spavento e perse l’equilibrio, cadendo in una pozzanghera e ricoprendosi di melma.
Dalla sua posizione alzò gli occhi verso la soglia, sulla quale si era materializzato il profilo della persona che all’inglese era la più familiare che potesse trovarsi davanti.
«Inghilterra!»
«America?! Che cosa ci fai a casa mia?!».
Un moto istantaneo d’odio riempì l’animo di Kirkland: America era vestito elegante, con una camicia bianca che teneva fuori dei jeans chiari, per una volta senza il suo giubbotto da aviatore addosso, e lo guardava dalla porta di casa completamente asciutto. Lui, invece, non solo era fradicio di gelida acqua piovana, ma per di più la sua uniforme era anche inzaccherata di fango a causa della caduta.
Era frustrante - oltre che dannatamente imbarazzante.
«Dai, non essere sempre così scontroso!» lo esortò l’americano, afferrandolo per una manica e tirandolo a sé con fin troppa energia. Inghilterra venne alzato di peso e cadde contro il petto di Alfred, percependo il piacevole tepore del suo corpo attraverso il tessuto bagnato della sua uniforme.
«C-che cosa ci fai qui?» domandò ancora l’inglese, ritraendosi da lui, paonazzo per la ristretta vicinanza.
«Sono venuto per te» disse Alfred con totale spontaneità, senza minimamente prestare la propria attenzione al fatto che una frase del genere potesse essere fraintesa - ed effettivamente lo fu dal suo interlocutore, che arrossì ancora, fortemente in imbarazzo.
America non ci fece caso e gli pizzicò una guancia abbastanza forte da strappargli un debole “ahi!”.
Arthur si massaggiò vigorosamente la guancia dolente e fece per replicare qualcosa, ma l’altro lo precedette.
«Buon compleanno, Inghilterra!» esclamò allegramente, dandogli un affettuoso buffetto sulla testa.
L’inglese indietreggiò, assumendo un’espressione d’indignazione mista a disagio: non gli piaceva che America si prendesse certe libertà con lui solo perché era più basso.
In un secondo momento distolse lo sguardo, indirizzandolo al suolo: non si aspettava che proprio lui si ricordasse del suo compleanno - o comunque gliene importasse qualcosa. Dopotutto, adesso era una nazione indipendente.
«Be’, cos’è quell’espressione triste?» fece America, perplesso, tirandogli di nuovo la guancia.
«Ahio! Smettila...!» lo rimproverò Inghilterra, afferrandogli il polso e spostandolo, interrompendo quella dolorosa ed oltremodo fastidiosa tortura «Piuttosto, come hai fatto ad entrare in casa?» chiese subito dopo, sviando ulteriormente il discorso dalla domanda iniziale.
L’americano stirò le labbra in un sorriso che assunse rapidamente connotati che definire di semplice compiacimento era eufemistico.
«Eheh!» rise, infilando la mano destra nella tasca dei jeans. Ne cavò fuori una chiave alla quale era appeso un portachiavi che l’inglese identificò all’istante.
«La riconosci?»
«Hai ancora quella chiave di riserva?» fu la replica che ottenne, senza il minimo entusiasmo, ma solamente un debole sentore di sorpresa.
Si ricordava ancora quando gliel’aveva data: era stato in seguito ad una mancanza d’attenzioni da parte sua, che era uscito dopo Alfred da casa senza lasciargli le chiavi per rientrare - col risultato che, al suo ritorno la sera tardi, l’aveva trovato seduto sullo scalino davanti alla porta, con le ginocchia strette al petto per cercare di proteggersi un po’ dal freddo. Nella sua mente aveva ancora bene impressa l’espressione da cucciolo ferito che gli aveva rivolto vedendolo arrivare.
Nonostante nel consegnargli la chiave l’avesse avvertito di non separarsene mai e per nessun motivo, si sorprendeva che l’avesse tenuta anche dopo la loro separazione e che oltretutto ci tenesse ancora attaccato il ciondolo che gli aveva dato, una piccola bandiera inglese.
«La conservo in caso voglia venire mentre non ci sei!» spiegò America, facendo spallucce, riponendo l’oggetto al suo posto.
«È violazione di domicilio» gli fece notare Inghilterra «Anche se adesso si spiega perché ogni tanto me lo ritrovo in giro per casa senza che l’abbia fatto entrare...» realizzò tra sé.
«È stata anche casa mia» sentenziò Alfred.
Cadde un silenzio disagiato, teso, che durò solo pochi istanti, il tempo che America impiegò a prendere Arthur per le spalle e metterlo davanti a sé, spingendolo verso la sala da pranzo.
«Andiamo, forza!».
«E-ehi!» esclamò Inghilterra, cercando d’opporre resistenza, invano: America era troppo forte per lui.
«Che cosa s...?!».
L’inglese s’interruppe quando si fermarono sulla porta della sala da pranzo: la tavola era apparecchiata per due persone e le portate facevano bella mostra di loro su vassoi lucidati alla perfezione, come i calici posti innanzi ai due piatto, che riflettevano la tremula e romantica luce del candelabro sistemato al centro.
«Oh...» mormorò Inghilterra, stupefatto, entrando.
«C’è voluto un bel po’ per sistemare tutto, quindi non sono potuto venire alla riunione di oggi» spiegò America, grattandosi la testa con fare disagiato «Non potevo lasciare le cose a metà» aggiunse, con più determinazione.
Inghilterra arrossì nel notare l’espressione fanciullesca che si era dipinta in viso ad Alfred.
«Lo rende così carino...» commentò tra sé, poi scosse con vigore la testa «M-ma che sto dicendo?! È un maschio! È America!».
L’altro osservò il suo sguardo e non poté fare a meno di sorridere: sembrava confuso, ma tutto sommato compiaciuto di ciò che gli aveva preparato.
«Ti piace?» chiese, parandoglisi davanti ed osservandolo con innocente aspettativa.
«B-be’...» cominciò Kirkland, guardando altrove, imbarazzato dalla situazione «Sì, ehm... l’hai preparato per me, no...?».
Perché all’improvviso si sentiva tanto in soggezione nel parlare con America? Non aveva mai avuto problemi, dannazione!
«S-sì, insomma, quello che voglio dire... err...» fece una breve pausa, cercando di assumere un contegno dignitoso, nonostante si sentisse il sangue al cervello ed il viso in fiamme «Grazie».
America rise.
«C-che cosa c’è da ridere?»
«Sei diventato tutto rosso!»
«Hmpf!» sbuffò Inghilterra, offeso «Avresti anche potuto risparmiarti tutto questo!».
«Oh, dai. Sapevo che non avresti preparato niente di speciale per stasera» disse l’altro col tono tipico di chi la sa lunga, poi proseguì, senza la minima malignità: «Tu non sai cucinare».
«Non avevo intenzione di cenare perché stasera non ho fame, altrimenti sarei benissimo in grado di cucinare!» replicò l’inglese in tono sostenuto.
In quel preciso istante il suo stomaco emise un borbottio ben udibile da entrambi che lo tradì.
America ridacchiò e Inghilterra divenne paonazzo per la vergogna.
«Smettila di rider... atcì!».
Inghilterra si fermò un momento.
«Atcì!» starnutì una seconda volta, più forte.
«Tsk! Vado a cambiarmi» annunciò, avviandosi verso la porta «Non fare cose stupide in m...» si bloccò a metà frase e scosse la testa, uscendo.
Per quanto si sforzasse e ci si impegnasse, continuava a vedere America - soprattutto quand’erano loro due da soli, lontani dal campo di battaglia - come il tenero ed ingenuo bambino con il quale aveva passato così tanti anni e momenti piacevoli. In parte ancora era un bambino, benché adesso fosse cresciuto e fosse addirittura più alto di lui - fatto che non riusciva ad accettare pienamente.
Appena ebbe oltrepassato la soglia, Alfred sospirò, andando ad appoggiarsi contro una parete. Contemplò il proprio operato con orgoglio e soddisfazione per alcuni minuti, ricordando l’espressione piacevolmente sorpresa di Arthur.
Alla fine, tutto il suo lavoro non era andato sprecato come aveva inizialmente temuto.
Sperava soltanto che Inghilterra riuscisse a divertirsi almeno un po’: principalmente, era lì per quello. Non voleva lasciarlo da solo per il suo compleanno: solo l’idea lo rattristava.
Dopo poco sentì dei passi attutiti provenire dal corridoio e si affrettò a tornare dov’era prima, appena un momento prima che l’inglese entrasse.
Alfred lo esaminò da capo a piedi, senza riuscire a non arrossire un poco: Inghilterra era così... carino.
Indosso aveva una camicia azzurra con i primi due bottoni aperti, così da lasciar scoperto il collo ed una piccola parte del petto. Sopra la camicia portava un gilet nero che gli dava un’aria un po’ formale che però - conoscendolo come lo conosceva America - con ogni probabilità era un effetto che aveva ricercato di proposito, come testimoniava anche l’elegante paio di pantaloni neri che portava, da sotto i quali spuntavano un paio di scarpe nere che parevano nuovissime, forse addirittura mai usate.
I capelli erano vittime evidenti di un tentativo d’asciugatura super rapido: i ciuffi che solitamente gli cadevano in modo ordinato sulla fronte erano disordinati, mentre per il resto i capelli stavano come pareva loro, sparati un po’ in tutte le direzioni.
Quel modo totalmente casuale di tenere i capelli lo rendeva più normale agli occhi dell’americano, familiare in un certo senso. Più carino.
«Hai fatto in fretta» commentò.
«Non volevo farti aspettare...» mormorò con un fil di voce l’inglese «Che c’è da guardare?» fece un momento dopo a voce più alta e con una nota d’indignazione, notando l’espressione assorta dell’altro, fissa su di sé.
«Niente...!» si affrettò a rispondere America, senza riuscire a dissimulare un certo atteggiamento colpevole «Dai, mangiamo! Ho una fame...!» proseguì, avvicinandosi al tavolo.
«E dov’è la novità?» ribatté Arthur in tono quasi esasperato, occupando uno qualsiasi dei due posti.
America gonfiò le guance, offeso, ma non disse niente: era troppo impegnato a riempire il suo stomaco vuoto per dire alcunché.
A quanto pareva lo chef aveva preparato il pasto non solo tenendo conto dei gusti di ambedue, ma anche considerando quanto lui medesimo riusciva a mangiare, che non era poco.
Inghilterra, mentre mangiava, osservava l’altro mangiare a sua volta: mancava quasi totalmente di educazione, un difetto che a tavola aveva notato in lui fin dall’infanzia. Crescendo, la cosa non era migliorata granché, da come poteva vedere: Alfred mangiava bocconi enormi e probabilmente li ingoiava quasi senza masticare, ingurgitava quantità di cibo esagerate senza saziarsi e beveva facendo rumore.
Era un modo di mangiare che all’inglese pareva piuttosto imbarazzante, anche se il diretto interessato non sembrava affatto crucciarsi per quello.
A ben guardare, sembrava che con gli anni fosse addirittura peggiorato; eppure quel suo modo di mangiare così maleducato, rumoroso... americano, lo metteva sotto una luce differente dal solito. Lo rendeva quasi più tenero.
Mentre lo guardava, l’inglese non si rese conto di smettere pian piano di mangiare per concentrare tutta la sua attenzione su di lui, fatto del quale, però, America si accorse benissimo.
Deglutendo l’ennesimo boccone prima di parlare, l’americano chiese: «C’è qualche problema?».
Dall’espressione che gli si era dipinta in viso - un misto tra riflessione, curiosità ed anche una leggera nota di disgusto - Alfred temeva che il cibo non fosse di suo gradimento - mandando così al vento le ore che aveva passato a studiare i libri di cucina inglese che aveva trovato in casa.
«No, non è niente» replicò l’altro, negando con il capo, riprendendo a mangiare.
Il resto della cena - che durò relativamente poco - fu consumato in silenzio, dato che era impossibile avviare una qualsivoglia discussione con Alfred mentre mangiava: avrebbe senz’altro cercato di rispondere con la bocca piena, col risultato che Arthur non ci avrebbe capito niente e avrebbe perso l’appetito.
Quando ebbero terminato ed arrivò il momento del dessert, America saltò su dalla sedia con un’eccitazione un po’ troppo spinta, tanto da sfociare nell’imbarazzante; tuttavia, l’americano non se ne fece affatto un problema.
Inghilterra non riusciva a capire che cosa ci fosse da esaltarsi tanto: era solo una torta di compleanno - se di una torta si trattava.
Per lui sarebbe stato un felice compleanno anche senza: si accontentava di poco - anche considerando il clamoroso fallimento dell’anno prima, quando aveva cercato di prepararsi da solo la torta ed aveva finito col rovinare il forno senza un nulla di fatto.
«Vado a prendere il dolce» sentenziò l’americano, cominciando a radunare tutti i piatti e i vassoi sporchi, caricandosene in braccio più del dovuto, tanto da traballare leggermente nel muovere il primo passo verso la cucina.
Arthur si alzò a propria volta.
«Ti do una ma...»
«No, faccio da solo!» lo bloccò l’altro, cercando di mantenere il precario equilibrio della piccola pila di stoviglie che reggeva «Tu rimani lì!».
A quel punto sparì oltre la soglia della cucina.
Arthur si versò un bicchiere di birra e bevve lentamente, in silenzio, per non rimanere senza niente da fare in quel momento di stasi: stare ad aspettare che Alfred gli portasse il dolce di compleanno lo faceva sentire a disagio.
Finito il primo bicchiere se ne versò un altro.
A metà di quello, America ritornò con un vassoio rettangolare tra le mani ed un’espressione allegra.
Dalla posizione in cui si trovava, l’inglese riusciva soltanto a vedere il fianco della torta, bianco di crema - o forse panna - ed una candelina a strisce trasversali rosse e blu che dal modo di scoppiettare della fiammella pareva più che altro un petardo.
Quando l’americano gli mise davanti il dessert, Inghilterra sgranò gli occhi, stupefatto: la torta era decorata con glassa blu, rossa e bianca in modo da tracciare sulla superficie la bandiera inglese.
Quando si trattava di torte particolari, Alfred riusciva a tirar fuori tutto il suo estro creativo e a stupire sempre.
«Oh...» mormorò Arthur, sorpreso, inarcando le sopracciglia.
«Allora? Dai, soffia!» lo esortò Alfred, eccitato, fissandolo con aspettativa.
Inghilterra, rosso in viso, lo esaudì e soffiò goffamente sulla candelina.
«Evviva! Auguri Inghilterra!» esclamò al settimo cielo America, abbracciandolo.
L’inglese s’infervorò violentemente, cominciando a sentire caldo.
«T-togliti!» disse, cercando di svincolarsi dalla sua presa, riuscendo dopo qualche tentativo nell’impresa.
Era stato strano: Inghilterra aveva sentito battere il cuore a mille nel momento stesso in cui le braccia dell’altro si erano strette attorno al suo collo.
L’americano afferrò un coltello e tagliò due porzioni del dolce, aggirando il tavolo per tornare a sedersi.
Mentre mangiavano, Arthur alternava un boccone ad un sorso di birra, chiacchierando con Alfred, il quale - arrivato quasi il momento di terminare la serata - aveva cominciato a parlare del più e del meno senza fermarsi. Trascinato dalla conversazione, Inghilterra cominciò a bere senza il minimo buonsenso e il risultato che ottenne dopo una buona mezz’ora fu di cominciare a non rispondere più delle proprie azioni e parole.
Anche dopo aver finito il dessert, i due continuarono a discutere animatamente e Inghilterra continuò a bere, fino al punto d’essere talmente ubriaco che persino America, nella sua semplicità e mancanza quasi assoluta d’attenzioni per determinati particolari, se ne accorse.
«Ehi, Inghilterra tutto okay...?» chiese incuriosito, inarcando le sopracciglia.
L’inglese stava steso sul tavolo, le palpebre che vibravano nello sforzo di rimanere aperte, mentre biascicava parole sconnesse e discorsi senza alcun senso.
Inghilterra alzò il capo e lo guardò, indignato.
«Perché sei venuto, anche se sei indi... pendente...?» borbottò.
«Eh-eh?» domandò America, sbattendo le palpebre con perplessità.
«Non serviva che tu venissi!» esclamò l’altro a voce alta, come se l’americano non riuscisse a sentirlo bene «Però mi ha fatto piacere...» ammise poi con voce più moderata, guardando il suo interlocutore direttamente negli occhi.
Alfred vide lacrime affacciarsi ai lati dei pozzi verde intenso racchiusi tra le sue palpebre. Era sul punto di piangere.
Kirkland si abbassò, poggiando il mento sulle braccia conserte sul piano del tavolo, lo sguardo offuscato da un leggero velo di depressione.
«Indipendenza... America, sei un idiota... perché te ne sei andato...?» chiese a voce alta, quasi gridando.
Sembrava che, ora che non era più propriamente padrone di sé, riuscisse ad esternare i pensieri che solitamente reprimeva.
In quel momento, ad Alfred parve incredibilmente fragile e si sentì in dovere di fare qualcosa per fargli sentire la propria presenza al suo fianco - quella che l’aveva accusato di non aver mantenuto in quegli anni a causa della sua voglia d’indipendenza e libertà.
Per questo si sporse a propria volta sul tavolo e prese il viso dell’inglese tra le dita, carezzandogli la pelle coi polpastrelli, avvicinandolo a sé per poi catturare le sue labbra con le proprie in un bacio lungo ed inizialmente casto, poi sempre più appassionato e profondo.
Inghilterra chiuse gli occhi, arrossendo, mentre il suo cuore palpitava sempre più rapido.
Quando si separarono, l’inglese si accasciò nuovamente sul tavolo.
«È distrutto...» osservò l’americano, alzandosi.
«Andiamo Inghilterra, forza!» esclamò, avvicinandosi a lui da dietro, sollevandolo di peso dalla sedia come se fosse un fuscello e prendendolo in grembo.
Arthur, sbronzo e assonnato, si accoccolò contro il petto di Alfred come in cerca di protezione e contatto ravvicinato, quasi intimo.
America arrossì un poco nel contemplare il suo viso disteso, gli occhi socchiusi in atto di assopimento, le guance infiammate.
Tenendolo tra le braccia, lo trasportò fino in camera.
Una volta giunti lì, l’americano fece per deporlo sul letto, ma si sentì tirare la camicia debolmente.
«America...» sussurrò Inghilterra, stringendo con poca energia la sua camicia tra le dita, come per attirare la sua attenzione.
«Sì?»
«Puoi...?».
Il mattino seguente, Arthur fu svegliato da un fastidioso raggio di sole che gl’investiva il viso. Schiuse debolmente gli occhi e si ritrovò a contemplare il soffitto della sua camera.
Era nel suo letto, ma non ricordava come ci fosse arrivato e perché fosse andato a dormire completamente vestito.
L’unica cosa di cui era sicuro era che la sera avanti aveva esagerato un po’ troppo con la birra: ricordava vaghi sprazzi di conversazione con America, ma erano sconnessi tra loro.
L’inglese sbatté un paio di volte le palpebre per liberarsi degli ultimi accenni di sonno e fu solo allora che percepì una presenza al suo fianco ed un debole russare vicino al suo orecchio.
Girò il viso verso la parete e rimase così un momento, prima che il suo viso s’infiammasse per la rabbia ed una buona dose di shock: America giaceva addormentato nel suo stesso letto, il viso poco distante dal suo.
Stava girato su un fianco, voltato al suo indirizzo, la bocca lievemente aperta in una “o” muta e innocente.
Inghilterra saltò indietro di scatto, cadendo rumorosamente giù dal letto, riuscendo così a svegliare il suo ospite. Quest’ultimo alzò il capo e fissò confusamente l’altro, sporgendosi lievemente verso di lui.
«Ehi, tutto bene...?» chiese, mezzo assonnato.
«Che cosa ci fai nel mio letto?!» gridò l’altro, sconvolto.
«Mi hai chiesto tu di rimanere, ieri notte... dopo che mi hai baciato...» asserì tranquillamente Alfred, mettendosi seduto, grattandosi la testa e sbadigliando.
«CHE COSAAA?!?!» urlò Arthur, arretrando ancora.
Nella mente gli apparve confusamente il ricordo e per un momento Kirkland rivide il viso di Jones avvicinarsi al suo e sentì le sue labbra toccare le sue, cercare una sua reazione con determinazione.
Non disse niente: a quanto pareva, la voce se ne era andata per qualche lido sperduto chissà dove.
L’unico commento coerente che riuscì a formulare mentalmente fu un deciso e amaro: «Devo assolutamente smettere di bere. Se non sono padrone di me faccio cose assurde! Che imbarazzo...! Voglio morire!!».