Like a videogame
Sep. 20th, 2011 03:33 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
Titolo: Like a videogame
Rating: Verde
Genere: Comico, Sportivo
Personaggi: Alfred F. Jones (America), Arthur Kirkland (Inghilterra), Axis Powers, Un po’ tutti
Wordcount: 3102 (
fiumidiparole)
Prompt: Una partita "amichevole" di calcio @
xshade_shinra
Non c'era niente di peggio che vedere America alle prese con la sua nuova console, un Nintendo DS XL - l'ultimo regalo di Giappone.
Alfred aveva avuto sempre per le mani joypad supertecnologici pieni di pulsanti di tutte le dimensioni sparsi per tutta la superficie dell'oggetto, addirittura nascosti negli angoli più impensati.
L'abilità con cui riusciva a maneggiare quegli "aggeggi" - come preferiva chiamarli Inghilterra - era qualcosa di profondamente inquietante, per certi versi incredibile.
Invece, vederlo alle prese con una console dove i tasti erano così pochi - solo la pulsantiera e quattro tasti contrassegnati da altrettante lettere più due tasti sul lato superiore - e non sempre indispensabili per via del touch screen era qualcosa di divertentissimo.
Non c'era niente di peggio che vedere America alle prese con la sua nuova console, un Nintendo DS XL - l'ultimo regalo di Giappone.
Alfred aveva avuto sempre per le mani joypad supertecnologici pieni di pulsanti di tutte le dimensioni sparsi per tutta la superficie dell'oggetto, addirittura nascosti negli angoli più impensati.
L'abilità con cui riusciva a maneggiare quegli "aggeggi" - come preferiva chiamarli Inghilterra - era qualcosa di profondamente inquietante, per certi versi incredibile.
Invece, vederlo alle prese con una console dove i tasti erano così pochi - solo la pulsantiera e quattro tasti contrassegnati da altrettante lettere più due tasti sul lato superiore - e non sempre indispensabili per via del touch screen era qualcosa di divertentissimo.
Jones non riusciva ad orientarsi, né a capirne fino in fondo il funzionamento. Qualche volta Arthur lo sentì addirittura inveire in un americano piuttosto volgare - che riuscì a comprendere nel complesso solo grazie ad alcune pronunce simili a quelle della sua madrelingua - contro l'apparecchio per la mancanza di alcuni tasti che, a quanto pareva, per lui erano fondamentali.
Di solito con America non accadeva, però quella era la classica sfuriata dei giocatori che venivano battuti dal gioco per inesperienza o mancanza di familiarità con il videogame, e per questo attribuivano ad esso l'intera colpa.
Era stato così che la casa dove Jones e Kirkland convivevano era stata invasa dalle invettive tutt'altro che flebili dell'ex colonia.
«E poi ha il coraggio di venire a lamentarsi che io mi arrabbio e sbraito per ogni minima cosa...!» constatò contrariato il britannico una sera, mentre sciacquava i piatti della cena che si era preoccupato Alfred di preparare, udendo i concitati e furiosi discorsi che quest’ultimo intavolava con la sua console.
Come se i suoi problemi di "adattamento" al nuovo modo di giocare non fossero già un bel grattacapo, c'era anche da tenere in considerazione il modo di interagire con il videogioco che Giappone aveva regalato ad America insieme all’apparecchio.
Da quel poco che aveva potuto capire, si trattava di un videogioco a tema sportivo, più precisamente calcio.
Da quel che aveva sentito - e se non ricordava male - il gioco si chiamava "Inazuma Eleven".
«Maledizione, mi hanno fatto un altro goal!» sbottò America indignato, raddrizzandosi sulla poltrona dov'era rannicchiato con il pigiama già addosso - una maglia a maniche lunghe bianca con un supereroe in calzamaglia disegnato sopra ed un paio di larghi pantaloni bianchi.
«Endou non ha altre mosse disponibili, come cavolo faccio a parare?!» disse lamentoso, senza rivolgersi a nessuno in particolare - o forse solo al suo DS.
Modificò e strinse la presa sullo stilo e si ributtò nel gioco.
Inghilterra, sdraiato su un fianco sul divano, sbuffò rumorosamente mentre cambiava canale alla tv: cominciava ad essere monotono e noioso sentirlo parlare da solo.
Fece per dirgli qualcosa, quando - in modo assolutamente non intenzionale - sintonizzò su un canale di cartoni, beccando proprio - il Fato doveva essergli avverso, oppure era lui ad essere particolarmente sfortunato - la trasposizione animata di quel maledetto gioco.
America alzò repentinamente lo sguardo dal piccolo schermo dell’apparecchio e fissò gli occhi su quello più grande della tv.
«Aaaah...!» esclamò, con un tono di voce in cui era talmente percepibile il suo entusiasmo da fare quasi paura.
Era inoltre ben comprensibile un implicito ordine di non cambiare per nessun motivo canale cui Arthur obbedì più che altro per vedere se così riusciva a zittirlo un po’.
Così dovette sorbirsi venti atroci minuti di assurdità calcistiche e non solo, ma trovate che addirittura sfidavano qualsivoglia legge della natura: calciatori che saltavano ad altezze vertiginose, colpi astrusi ed impossibili ed una resistenza fisica da parte del portiere - l’ovvio protagonista - che era tutto meno che credibile.
«Sinceramente, è inverosimile. Il calcio vero non si gioca così» commentò Kirkland una volta che l’episodio fu terminato, cambiando finalmente canale.
«Come se tu ne sapessi qualcosa di calcio!» controbatté America.
«Di certo più di te» asserì Arthur, che cominciava a scaldarsi.
«Ahah! Allora domani ti sfido in un’amichevole di calcio!» esclamò Alfred, fissandolo deciso.
«“Amichevole” un cavolo» avrebbe voluto ribattere il britannico, ma decise di tenere la considerazione per sé.
«Okay, accetto!» acconsentì a voce alta.
«Andare a chiedere aiuto alle Potenze dell’Asse... davvero sono caduto così in basso...?» si chiese Inghilterra, lanciando un sospiro di autocommiserazione, curvando le spalle con fare depresso.
Il biondo guardò contrariato la casa di Germania: di solito, sia Italia sia Giappone si fermavano da lui prima e dopo le esercitazioni, per cui aveva buone probabilità di trovarceli tutti.
Controvoglia e con un'espressione a metà tra il mesto e lo scoraggiato bussò.
Ad aprire venne proprio il meno adatto: Italia.
Da un'iniziale e tipica espressione svanita e spensierata, sul suo viso comparve una deplorevole e penosa smorfia di terrore.
«INGHILTERRAAA!» gridò, lacerando il quieto silenzio, poi gli sbatté vigorosamente la porta in faccia, facendo sobbalzare il britannico per la foga con cui aveva sbattuto il battente.
Sospirando una seconda volta, l’inglese riprovò: non poteva lasciar perdere. Ne andava del suo orgoglio. Se non avesse superato quell’ostacolo, non sarebbe più riuscito a guardare in faccia America.
Solo l’idea di subire un’onta simile lo riempiva di rabbia.
Stavolta ad aprirgli la porta fu Giappone.
«Ah, Inghilterra... allora è per questo che Italia è tornato dentro e si è attaccato a Germania piangendo...» disse il moro.
Arthur fissò il suolo, cercando il coraggio di manifestare le proprie intenzioni.
«Che cosa ci fai qui?» lo interrogò il giapponese, perplesso. Almeno lui non sembrava spaventato o incline a sbattergli la porta in faccia.
Kirkland dovette ingoiare amaramente la sua dignità e decidersi ad esprimere la sua richiesta: «Ho... bisogno del vostro aiuto».
Kiku lo guardò per qualche momento, poi lo invitò dentro, guidandolo fino alla stanza dove si trovavano i suoi due alleati.
A differenza di quel che aveva sempre pensato, la casa di Germania era arredata con uno stile semplice seppur discretamente sofisticato, che discordava con l'immagine di plebeo e rozzo che si era fatto di Ludwig nella mente.
Appena lo vide materializzarsi sulla porta, Feliciano tentò di fuggire correndo verso la finestra, ma non riuscì a divincolarsi dalla stoica presa del tedesco seduto su una poltrona, che l'aveva afferrato prontamente per un polso per impedirgli la fuga.
«Gli inglesi stanno arrivando!» gridò, quasi in preda a convulsioni.
«Veramente sono venuto da solo» lo corresse Inghilterra, spavaldo, trattenendosi a malapena dall’aggiungere qualche spiacevole commento tagliente nei confronti di Veneziano.
«E precisamente cosa sei venuto a fare?» indagò Germania, osservandolo serio.
Sembrava disposto al dialogo più di quanto Kirkland avesse previsto.
«Dice di aver bisogno di noi» riferì Honda, schietto.
«Allora, visto che sei solo, puoi anche sederti e parlare» lo invitò il tedesco, accennando con il capo al divano innanzi a sé «Italia smettila di frignare. Non ti farà niente!» redarguì il castano, tirandolo verso di sé con tale forza che l'italiano gli cadde seduto in grembo, una posizione in cui era più facile immobilizzarlo.
«Ti ascoltiamo» lo esortò pacatamente Giappone.
Arthur si accomodò sul divano molto compostamente, incrociando con fare piuttosto arrogante le braccia sul petto - era diventata un’abitudine ed era difficile rinunciarci così, di punto in bianco.
«America mi ha sfidato questo pomeriggio ad una partita di calcio ed io non ho nessun giocatore» disse semplicemente, di getto.
«Calcio...?» esclamò Veneziano, come se nel pronunciare quella parola Inghilterra si fosse trasformato da mostro cattivo in brava persona.
L'espressione sul viso di Germania la diceva lunga su quanta importanza desse a quella richiesta.
«Quindi vuoi che giochiamo con te?» chiese Kiku, per avere un'ulteriore conferma circa la situazione.
«Sì, vorrei che mi aiutaste a formare una squadra di undici giocatori» puntualizzò l'inglese, senza riuscire ad abbandonare l’espressione arrogante che era solito tenere quando si trovava con Ludwig.
«Che bello, giochiamo a calcio...!» esclamò Italia con la sua consueta aria svanita.
«Se la partita è oggi pomeriggio non abbiamo molto tempo per mettere insieme una squadra decente... oltretutto non abbiamo il tempo di coordinarci» osservò pragmaticamente Germania, come se stesse soppesando la validità o meno di una strategia di guerra.
«Però potrebbe risultare interessante...» ammise il tedesco, prima di pronunziarsi definitivamente: «Va bene. Per questa volta puoi contare su di noi, Inghilterra. È tregua».
Sollevando Italia con qualche difficoltà, Germania si mise in piedi a propria volta, quindi si rivolse ai suoi due alleati: «Contattate chi conoscete e chiedete in giro!».
«Yes sir!» esclamò Feliciano entusiasta, correndo verso la porta.
«Sì» si limitò a dire Kiku, seguendo l’altro.
Germania si allontanò in direzione di un tavolino posto tra due delle finestre, sul quale era appoggiato un telefono.
Sollevò la cornetta e se la portò all’orecchio, componendo un numero che Inghilterra non riuscì a vedere.
«Pronto? Sono io, Austria. Senti, hai da fare questo pomeriggio...?».
Per fortuna, nel pomeriggio la volta celeste si era coperta di una coltre di nubi: giocare una partita di calcio sotto un sole cocente sarebbe stato stremante per tutti.
Le due squadre si erano già disposte in campo ed i giocatori erano pronti.
Inghilterra si chiese come avessero fatto - visto che si erano riuniti solo un’ora prima - a riesumare qualcosa che potesse anche solo lontanamente somigliare ad una divisa di calcio.
L’unica consolazione era che, a quanto sembrava, anche dall’altra parte il problema “divisa” fosse stato risolto alla bell’e meglio: in ambedue le squadre i colori si somigliavano, ma le tonalità e lo stile erano differenti. C’era chi indossava canottiere, chi t-shirt, chi addirittura maglie a maniche lunghe. I pantaloncini, fortunatamente, erano tutti al ginocchio.
Per la squadra di America, il colore della maglia era il rosso acceso delle fiamme vive, abbinato a pantaloncini bianchi; per quella di Inghilterra, invece, l’abbinamento era azzurro per la parte superiore e bianco per quella inferiore.
Lo schieramento di Alfred consisteva in un 2-4-4: America e Francia in attacco, a centrocampo Canada, Ucraina, Cina e Sealand, in difesa Bielorussia, Lituania, Estonia, Lettonia e, a difesa della porta, Russia - che pareva essere più aggressivo del solito.
Lo schema di Arthur, invece, consisteva in un 3-4-3: il tridente d’attacco era composto da Germania, Ungheria e Prussia, a centrocampo Inghilterra, i due Vargas e Austria, in difesa Giappone, Grecia e Spagna e come portiere Svizzera.
Il calcio d’inizio sarebbe stato dato da America, che era impaziente di dimostrare a Inghilterra quanto si sbagliava: lui sapeva giocare a calcio, e gliel’avrebbe dimostrato battendolo.
Un fischio da parte di Seychelles - che si era rifiutata di giocare, preferendo vestire i panni dell’arbitro - e Alfred passò a Francis, correndo in avanti.
Prussia si catapultò letteralmente addosso al francese, riuscendo a strappargli con facilità estrema la palla, che passò subito al fratello più giovane con un passaggio alto.
Ungheria si proiettò in avanti mentre Germania intercettava il passaggio e passava all’attacco.
Per quanto ci si impegnassero, i giocatori di America poterono ben poco contro un tridente d’attaccanti feroci come Ludwig, Gilbert ed Elizabeta ed il primo fu un goal abbastanza facile da conquistare.
America digrignò i denti, lanciando un’occhiata all’ex madrepatria, che gli stava sorridendo con evidente soddisfazione e consapevolezza della propria superiorità.
Non poteva dargliela vinta così facilmente.
Quando Russia rimise in gioco il pallone, America lo intercettò e caricò verso la porta avversaria seguito da Francia.
Stavolta riuscirono a superare i tre attaccanti e ad arrivare allo schieramento successivo, che però sottovalutarono per la presenza combinata di Nord e Sud Italia - i quali avevano scelto di propria iniziativa di mettersi fianco a fianco - ma si accorsero subito d’aver commesso un errore: con un’azione combinata, Veneziano e Romano entrarono in scivolata e rubarono palla a Bonnefoy - che non riuscì a difenderla - poi il più giovane degli italiani la passò al tedesco.
Inghilterra li osservò, palesemente stupito, così come il resto della squadra: quei due insieme erano veramente bravi a giocare a calcio!
«Ce l’abbiamo fatta!» esultò Feliciano, abbracciando il più grande, che se lo scrollò di dosso con un seccato: «Guarda che non abbiamo mica segnato!».
Una volta che ebbero saggiato la bravura degli avversari, la squadra di Alfred parve cominciare a fare sul serio: riuscire a penetrare fino alla porta per la squadra di Kirkland si rivelò essere sempre più difficile ed estenuante, così come impedire allo schieramento di Jones di arrivare fino al loro portiere.
Alla fine, proprio un momento prima del fischio che segnava la fine del primo tempo, con uno spettacolare assist di America, Francia riuscì a segnare, riportando le squadre in pareggio.
Sul risultato di uno a uno i due schieramenti andarono a riposo.
«Dobbiamo farli a pezzi!» esclamò Inghilterra, sedendosi sulla panchina a riprender fiato: per cercare di fermare le molteplici incursioni dei due attaccanti aveva corso come un folle.
«Però sono forti» ammise Ungheria, lanciando un’occhiata di sbieco all’altra panchina.
«Voi due siete bravi, perlomeno a giocare a calcio» si stava intanto complimentando Germania con i due fratelli Vargas.
«Davvero?» chiese Veneziano, felice d’essere elogiato dal tedesco.
«Tsk! Non mi serve che me lo dica tu che sono bravo, bastardo mangiapatate! Lo so già!» ribatté bruscamente Romano, incrociando le braccia sul petto stizzito.
«Romano, sei stato fantastico!» s’intromise Spagna.
«Dici davvero...?» replicò l’altro, evidentemente compiaciuto nonostante la reazione meno esuberante rispetto al più piccolo.
«Dobbiamo segnare di nuovo, Ovest!» sbottò Prussia, posando un braccio attorno alle spalle del fratello.
Sembrava discretamente sicuro delle proprie possibilità.
«E tu, Austria, vedi di renderti un po’ più utile nel secondo tempo!» intimò a Roderich, che respirava a fatica, seduto al capo opposto della panchina rispetto ad Inghilterra. Sembrava esausto.
Era evidente che non era abituato a certi tipi di sforzo.
Ungheria gli si era avvicinata e gli aveva porto un asciugamano ed una bottiglietta d’acqua, che l’austriaco aveva accettato di buon grado, ringraziandola educatamente.
«Lo stesso vale per te. Non correre in giro come un idiota senza concludere niente» replicò con pacatezza e compostezza il musicista, apparendo così ancor più minaccioso.
«Che cos’hai dett...?!» fece per rispondere Gilbert, ma Ludwig lo fermò.
«Ehi, non è il momento di picchiarsi, altrimenti rimarremmo senza un giocatore» asserì, logico e tagliente, poi rivolto al fratello puntualizzò: «Questa è una tregua».
Prussia si calmò e si allontanò sbuffando.
Più in là, Giappone e Grecia si stavano riposando silenziosamente, seduti sul prato.
«America, cosa facciamo...?».
Canada si era avvicinato al fratello, osservando di sottecchi gli avversari con un po’ di timore.
«Vinciamo!» esclamò l’americano, risoluto «Bloccateli!» disse poi, rivolto al resto della squadra «Non fateli passare, per nessuna ragione. Non posso perdere!».
Con queste parole di non proprio incitamento, la squadra di America rientrò in campo assieme a quella di Inghilterra.
Nel secondo tempo, ambedue gli schieramenti si diedero un gran da fare ed il ritmo di gioco divenne sempre più incalzante e serrato ed i giocatori più agguerriti - a dispetto della partita amichevole - ma nessuno riuscì a segnare, da nessuna delle due parti.
America non riusciva a sopportare quella situazione di stallo.
«Devo vincere. Assolutamente...! Io sono l’eroe, e l’eroe non perde mai!» si disse, roso dalla rabbia.
Era così deciso a vincere che, senza pensarci, gridò a Ucraina, in quel momento impegnata a cercare di bloccare Ungheria: «Fammi un passaggio alto!».
La sorella di Russia, non capendo che cosa volesse fare ma fidandosi di lui comunque, eseguì: il pallone sorvolò una buona parte di campo a circa due metri e mezzo da terra.
Con quella traiettoria sarebbe finito presto alla squadra avversaria, se Alfred non fosse intervenuto.
Inghilterra lo osservò scioccato mentre si piegava sulle ginocchia e spiccava un potente salto, staccandosi con forza da terra.
Era impossibile che riuscisse ad intercettare il pallone ad una simile altezza, eppure, quello sconsiderato ci provò comunque ed in un modo che Arthur non avrebbe mai previsto: a metà del movimento, Alfred torse il busto girandosi per mettersi in posizione orizzontale e fece per avvitarsi su sé stesso.
Quell’azione per l’inglese - benché l’avesse vista solamente una volta - era fin troppo familiare.
Era la stessa mossa di quell’attaccante coi capelli biondi del videogioco che aveva visto in tv solo la sera prima.
Stava cercando di imitarlo?! Che si aspettasse addirittura la comparsa di un tornado infuocato...?
D’istinto, senza neppure pensarci, scattò in avanti tra i compagni di squadra urlando: «IDIOTA! CHE STAI...?!».
S’interruppe quando l’americano, dopo appena mezzo avvitamento, sferrò con tutte le sue forze un calcio verso il pallone, mancandolo d’una decina di centimetri, precipitando così a terra, vinto dall’ineluttabile forza di gravità.
Il pallone finì ai piedi di Austria, che lo fermò mentre tutti correvano attorno ad America, steso al suolo.
Il primo a soccorrerlo fu Arthur.
«America?» domandò.
Vedendo che il ragazzo si teneva un polpaccio, istintivamente fece per spostargli le mani, strappandogli un gemito di dolore.
«Ahiaaa... che male!» sibilò tra i denti l’americano.
Giappone si chinò accanto all’inglese e, con garbo, sollevò le mani di Jones dalla gamba, toccandola delicatamente.
«Credo che sia rotta...» constatò Kiku.
«Perché non ha funzionato...?» borbottò America, deluso «Nel videogioco funzionava...».
«Videogioco?» ripeté Francia, perplesso.
«Quale videogioco, aru?» chiese Cina.
A quel punto - ignorando palesemente la curiosità degli altri - Arthur esclamò con veemenza: «IDIOTA! Hai creduto veramente di poter copiare quella mossa?!».
Il silenzio di America e l’espressione che assunse gli risposero che sì, era assolutamente convinto che ce la potesse fare.
«Inghilterra...» s’intromise timidamente Giappone, posandogli una mano sulla spalla «Sarà meglio portarlo in ospedale».
«Sì, hai ragione» sospirò l’inglese, chinandosi e sollevandogli le spalle.
«Qualcuno mi aiuta a caricarlo in macchina?» domandò.
Con la forza congiunta sua, di Germania e Prussia, America fu caricato sui sedili posteriori della Rolls Royce di Inghilterra, che si mise alla guida senza nemmeno preoccuparsi di cambiarsi i vestiti, buttando la propria borsa con il cambio d’abito sul sedile del passeggero.
Se dovevano visitarlo, avrebbe avuto tutto il tempo per cambiarsi in seguito.
«Ah, Inghilterra» lo chiamò Ludwig, aprendogli lo sportello perché sentisse bene.
«La partita è tecnicamente finita, perciò anche la tregua» sentenziò, lasciando bene intendere le conseguenze di ciò.
Richiuse la portiera e se ne andò accompagnato dal fratello mentre il britannico metteva in moto.
«Guarda tu cosa mi tocca fare...» borbottò quest’ultimo, esasperato «Non sei abbastanza indipendente da andarci da solo all’ospedale?» gli rimproverò senza voltarsi.
Anche senza la possibilità di guardarlo in faccia, America percepì tutto il peso della sua rabbia e non solo quella.
«Ti sei preoccupato?» domandò, incuriosito: Inghilterra aveva smesso di preoccuparsi per lui quando si era dichiarato indipendente - e, se aveva continuato a farlo, si era ben curato di tenerglielo nascosto.
«Ti sei appena molto probabilmente rotto una gamba cercando di imitare uno stupido videogame. Secondo te?» esclamò l’altro con ironia pungente.
In quel momento Alfred si sentì vergognosamente in colpa per un motivo che nemmeno lui riusciva ad identificare con certezza assoluta.
«Mi dispiace» disse semplicemente.
«Ah, se ti dispiace adesso, sarai disperato sapendo che quell’aggeggio tu non lo vedrai più per un bel pezzo!» lo minacciò risoluto Arthur, col classico tono di un genitore che mette in castigo il figlio.
Avvertì una specie di fitta nostalgica nel fare quell’affermazione.
Si chiese se avesse mai veramente smesso di preoccuparsi per la colonia: in quel momento non sembrava proprio.
Cercò di scacciare quel pensiero e ci riuscì discretamente bene: la rabbia pensando a cos’avrebbe dovuto sopportare quando Alfred fosse tornato a casa con il gesso aveva preso il sopravvento.
«EEEEEEHH?!?!» fece America, sconcertato e affranto «Ma non è giusto!».
«E invece sì! Vedrai che la voglia di fare idiozie simili ti passerà presto! Certe volte mi piacerebbe veramente sapere cos’hai al posto del cervello...!».
Rating: Verde
Genere: Comico, Sportivo
Personaggi: Alfred F. Jones (America), Arthur Kirkland (Inghilterra), Axis Powers, Un po’ tutti
Wordcount: 3102 (
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Prompt: Una partita "amichevole" di calcio @
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Non c'era niente di peggio che vedere America alle prese con la sua nuova console, un Nintendo DS XL - l'ultimo regalo di Giappone.
Alfred aveva avuto sempre per le mani joypad supertecnologici pieni di pulsanti di tutte le dimensioni sparsi per tutta la superficie dell'oggetto, addirittura nascosti negli angoli più impensati.
L'abilità con cui riusciva a maneggiare quegli "aggeggi" - come preferiva chiamarli Inghilterra - era qualcosa di profondamente inquietante, per certi versi incredibile.
Invece, vederlo alle prese con una console dove i tasti erano così pochi - solo la pulsantiera e quattro tasti contrassegnati da altrettante lettere più due tasti sul lato superiore - e non sempre indispensabili per via del touch screen era qualcosa di divertentissimo.
Non c'era niente di peggio che vedere America alle prese con la sua nuova console, un Nintendo DS XL - l'ultimo regalo di Giappone.
Alfred aveva avuto sempre per le mani joypad supertecnologici pieni di pulsanti di tutte le dimensioni sparsi per tutta la superficie dell'oggetto, addirittura nascosti negli angoli più impensati.
L'abilità con cui riusciva a maneggiare quegli "aggeggi" - come preferiva chiamarli Inghilterra - era qualcosa di profondamente inquietante, per certi versi incredibile.
Invece, vederlo alle prese con una console dove i tasti erano così pochi - solo la pulsantiera e quattro tasti contrassegnati da altrettante lettere più due tasti sul lato superiore - e non sempre indispensabili per via del touch screen era qualcosa di divertentissimo.
Jones non riusciva ad orientarsi, né a capirne fino in fondo il funzionamento. Qualche volta Arthur lo sentì addirittura inveire in un americano piuttosto volgare - che riuscì a comprendere nel complesso solo grazie ad alcune pronunce simili a quelle della sua madrelingua - contro l'apparecchio per la mancanza di alcuni tasti che, a quanto pareva, per lui erano fondamentali.
Di solito con America non accadeva, però quella era la classica sfuriata dei giocatori che venivano battuti dal gioco per inesperienza o mancanza di familiarità con il videogame, e per questo attribuivano ad esso l'intera colpa.
Era stato così che la casa dove Jones e Kirkland convivevano era stata invasa dalle invettive tutt'altro che flebili dell'ex colonia.
«E poi ha il coraggio di venire a lamentarsi che io mi arrabbio e sbraito per ogni minima cosa...!» constatò contrariato il britannico una sera, mentre sciacquava i piatti della cena che si era preoccupato Alfred di preparare, udendo i concitati e furiosi discorsi che quest’ultimo intavolava con la sua console.
Come se i suoi problemi di "adattamento" al nuovo modo di giocare non fossero già un bel grattacapo, c'era anche da tenere in considerazione il modo di interagire con il videogioco che Giappone aveva regalato ad America insieme all’apparecchio.
Da quel poco che aveva potuto capire, si trattava di un videogioco a tema sportivo, più precisamente calcio.
Da quel che aveva sentito - e se non ricordava male - il gioco si chiamava "Inazuma Eleven".
«Maledizione, mi hanno fatto un altro goal!» sbottò America indignato, raddrizzandosi sulla poltrona dov'era rannicchiato con il pigiama già addosso - una maglia a maniche lunghe bianca con un supereroe in calzamaglia disegnato sopra ed un paio di larghi pantaloni bianchi.
«Endou non ha altre mosse disponibili, come cavolo faccio a parare?!» disse lamentoso, senza rivolgersi a nessuno in particolare - o forse solo al suo DS.
Modificò e strinse la presa sullo stilo e si ributtò nel gioco.
Inghilterra, sdraiato su un fianco sul divano, sbuffò rumorosamente mentre cambiava canale alla tv: cominciava ad essere monotono e noioso sentirlo parlare da solo.
Fece per dirgli qualcosa, quando - in modo assolutamente non intenzionale - sintonizzò su un canale di cartoni, beccando proprio - il Fato doveva essergli avverso, oppure era lui ad essere particolarmente sfortunato - la trasposizione animata di quel maledetto gioco.
America alzò repentinamente lo sguardo dal piccolo schermo dell’apparecchio e fissò gli occhi su quello più grande della tv.
«Aaaah...!» esclamò, con un tono di voce in cui era talmente percepibile il suo entusiasmo da fare quasi paura.
Era inoltre ben comprensibile un implicito ordine di non cambiare per nessun motivo canale cui Arthur obbedì più che altro per vedere se così riusciva a zittirlo un po’.
Così dovette sorbirsi venti atroci minuti di assurdità calcistiche e non solo, ma trovate che addirittura sfidavano qualsivoglia legge della natura: calciatori che saltavano ad altezze vertiginose, colpi astrusi ed impossibili ed una resistenza fisica da parte del portiere - l’ovvio protagonista - che era tutto meno che credibile.
«Sinceramente, è inverosimile. Il calcio vero non si gioca così» commentò Kirkland una volta che l’episodio fu terminato, cambiando finalmente canale.
«Come se tu ne sapessi qualcosa di calcio!» controbatté America.
«Di certo più di te» asserì Arthur, che cominciava a scaldarsi.
«Ahah! Allora domani ti sfido in un’amichevole di calcio!» esclamò Alfred, fissandolo deciso.
«“Amichevole” un cavolo» avrebbe voluto ribattere il britannico, ma decise di tenere la considerazione per sé.
«Okay, accetto!» acconsentì a voce alta.
«Andare a chiedere aiuto alle Potenze dell’Asse... davvero sono caduto così in basso...?» si chiese Inghilterra, lanciando un sospiro di autocommiserazione, curvando le spalle con fare depresso.
Il biondo guardò contrariato la casa di Germania: di solito, sia Italia sia Giappone si fermavano da lui prima e dopo le esercitazioni, per cui aveva buone probabilità di trovarceli tutti.
Controvoglia e con un'espressione a metà tra il mesto e lo scoraggiato bussò.
Ad aprire venne proprio il meno adatto: Italia.
Da un'iniziale e tipica espressione svanita e spensierata, sul suo viso comparve una deplorevole e penosa smorfia di terrore.
«INGHILTERRAAA!» gridò, lacerando il quieto silenzio, poi gli sbatté vigorosamente la porta in faccia, facendo sobbalzare il britannico per la foga con cui aveva sbattuto il battente.
Sospirando una seconda volta, l’inglese riprovò: non poteva lasciar perdere. Ne andava del suo orgoglio. Se non avesse superato quell’ostacolo, non sarebbe più riuscito a guardare in faccia America.
Solo l’idea di subire un’onta simile lo riempiva di rabbia.
Stavolta ad aprirgli la porta fu Giappone.
«Ah, Inghilterra... allora è per questo che Italia è tornato dentro e si è attaccato a Germania piangendo...» disse il moro.
Arthur fissò il suolo, cercando il coraggio di manifestare le proprie intenzioni.
«Che cosa ci fai qui?» lo interrogò il giapponese, perplesso. Almeno lui non sembrava spaventato o incline a sbattergli la porta in faccia.
Kirkland dovette ingoiare amaramente la sua dignità e decidersi ad esprimere la sua richiesta: «Ho... bisogno del vostro aiuto».
Kiku lo guardò per qualche momento, poi lo invitò dentro, guidandolo fino alla stanza dove si trovavano i suoi due alleati.
A differenza di quel che aveva sempre pensato, la casa di Germania era arredata con uno stile semplice seppur discretamente sofisticato, che discordava con l'immagine di plebeo e rozzo che si era fatto di Ludwig nella mente.
Appena lo vide materializzarsi sulla porta, Feliciano tentò di fuggire correndo verso la finestra, ma non riuscì a divincolarsi dalla stoica presa del tedesco seduto su una poltrona, che l'aveva afferrato prontamente per un polso per impedirgli la fuga.
«Gli inglesi stanno arrivando!» gridò, quasi in preda a convulsioni.
«Veramente sono venuto da solo» lo corresse Inghilterra, spavaldo, trattenendosi a malapena dall’aggiungere qualche spiacevole commento tagliente nei confronti di Veneziano.
«E precisamente cosa sei venuto a fare?» indagò Germania, osservandolo serio.
Sembrava disposto al dialogo più di quanto Kirkland avesse previsto.
«Dice di aver bisogno di noi» riferì Honda, schietto.
«Allora, visto che sei solo, puoi anche sederti e parlare» lo invitò il tedesco, accennando con il capo al divano innanzi a sé «Italia smettila di frignare. Non ti farà niente!» redarguì il castano, tirandolo verso di sé con tale forza che l'italiano gli cadde seduto in grembo, una posizione in cui era più facile immobilizzarlo.
«Ti ascoltiamo» lo esortò pacatamente Giappone.
Arthur si accomodò sul divano molto compostamente, incrociando con fare piuttosto arrogante le braccia sul petto - era diventata un’abitudine ed era difficile rinunciarci così, di punto in bianco.
«America mi ha sfidato questo pomeriggio ad una partita di calcio ed io non ho nessun giocatore» disse semplicemente, di getto.
«Calcio...?» esclamò Veneziano, come se nel pronunciare quella parola Inghilterra si fosse trasformato da mostro cattivo in brava persona.
L'espressione sul viso di Germania la diceva lunga su quanta importanza desse a quella richiesta.
«Quindi vuoi che giochiamo con te?» chiese Kiku, per avere un'ulteriore conferma circa la situazione.
«Sì, vorrei che mi aiutaste a formare una squadra di undici giocatori» puntualizzò l'inglese, senza riuscire ad abbandonare l’espressione arrogante che era solito tenere quando si trovava con Ludwig.
«Che bello, giochiamo a calcio...!» esclamò Italia con la sua consueta aria svanita.
«Se la partita è oggi pomeriggio non abbiamo molto tempo per mettere insieme una squadra decente... oltretutto non abbiamo il tempo di coordinarci» osservò pragmaticamente Germania, come se stesse soppesando la validità o meno di una strategia di guerra.
«Però potrebbe risultare interessante...» ammise il tedesco, prima di pronunziarsi definitivamente: «Va bene. Per questa volta puoi contare su di noi, Inghilterra. È tregua».
Sollevando Italia con qualche difficoltà, Germania si mise in piedi a propria volta, quindi si rivolse ai suoi due alleati: «Contattate chi conoscete e chiedete in giro!».
«Yes sir!» esclamò Feliciano entusiasta, correndo verso la porta.
«Sì» si limitò a dire Kiku, seguendo l’altro.
Germania si allontanò in direzione di un tavolino posto tra due delle finestre, sul quale era appoggiato un telefono.
Sollevò la cornetta e se la portò all’orecchio, componendo un numero che Inghilterra non riuscì a vedere.
«Pronto? Sono io, Austria. Senti, hai da fare questo pomeriggio...?».
Per fortuna, nel pomeriggio la volta celeste si era coperta di una coltre di nubi: giocare una partita di calcio sotto un sole cocente sarebbe stato stremante per tutti.
Le due squadre si erano già disposte in campo ed i giocatori erano pronti.
Inghilterra si chiese come avessero fatto - visto che si erano riuniti solo un’ora prima - a riesumare qualcosa che potesse anche solo lontanamente somigliare ad una divisa di calcio.
L’unica consolazione era che, a quanto sembrava, anche dall’altra parte il problema “divisa” fosse stato risolto alla bell’e meglio: in ambedue le squadre i colori si somigliavano, ma le tonalità e lo stile erano differenti. C’era chi indossava canottiere, chi t-shirt, chi addirittura maglie a maniche lunghe. I pantaloncini, fortunatamente, erano tutti al ginocchio.
Per la squadra di America, il colore della maglia era il rosso acceso delle fiamme vive, abbinato a pantaloncini bianchi; per quella di Inghilterra, invece, l’abbinamento era azzurro per la parte superiore e bianco per quella inferiore.
Lo schieramento di Alfred consisteva in un 2-4-4: America e Francia in attacco, a centrocampo Canada, Ucraina, Cina e Sealand, in difesa Bielorussia, Lituania, Estonia, Lettonia e, a difesa della porta, Russia - che pareva essere più aggressivo del solito.
Lo schema di Arthur, invece, consisteva in un 3-4-3: il tridente d’attacco era composto da Germania, Ungheria e Prussia, a centrocampo Inghilterra, i due Vargas e Austria, in difesa Giappone, Grecia e Spagna e come portiere Svizzera.
Il calcio d’inizio sarebbe stato dato da America, che era impaziente di dimostrare a Inghilterra quanto si sbagliava: lui sapeva giocare a calcio, e gliel’avrebbe dimostrato battendolo.
Un fischio da parte di Seychelles - che si era rifiutata di giocare, preferendo vestire i panni dell’arbitro - e Alfred passò a Francis, correndo in avanti.
Prussia si catapultò letteralmente addosso al francese, riuscendo a strappargli con facilità estrema la palla, che passò subito al fratello più giovane con un passaggio alto.
Ungheria si proiettò in avanti mentre Germania intercettava il passaggio e passava all’attacco.
Per quanto ci si impegnassero, i giocatori di America poterono ben poco contro un tridente d’attaccanti feroci come Ludwig, Gilbert ed Elizabeta ed il primo fu un goal abbastanza facile da conquistare.
America digrignò i denti, lanciando un’occhiata all’ex madrepatria, che gli stava sorridendo con evidente soddisfazione e consapevolezza della propria superiorità.
Non poteva dargliela vinta così facilmente.
Quando Russia rimise in gioco il pallone, America lo intercettò e caricò verso la porta avversaria seguito da Francia.
Stavolta riuscirono a superare i tre attaccanti e ad arrivare allo schieramento successivo, che però sottovalutarono per la presenza combinata di Nord e Sud Italia - i quali avevano scelto di propria iniziativa di mettersi fianco a fianco - ma si accorsero subito d’aver commesso un errore: con un’azione combinata, Veneziano e Romano entrarono in scivolata e rubarono palla a Bonnefoy - che non riuscì a difenderla - poi il più giovane degli italiani la passò al tedesco.
Inghilterra li osservò, palesemente stupito, così come il resto della squadra: quei due insieme erano veramente bravi a giocare a calcio!
«Ce l’abbiamo fatta!» esultò Feliciano, abbracciando il più grande, che se lo scrollò di dosso con un seccato: «Guarda che non abbiamo mica segnato!».
Una volta che ebbero saggiato la bravura degli avversari, la squadra di Alfred parve cominciare a fare sul serio: riuscire a penetrare fino alla porta per la squadra di Kirkland si rivelò essere sempre più difficile ed estenuante, così come impedire allo schieramento di Jones di arrivare fino al loro portiere.
Alla fine, proprio un momento prima del fischio che segnava la fine del primo tempo, con uno spettacolare assist di America, Francia riuscì a segnare, riportando le squadre in pareggio.
Sul risultato di uno a uno i due schieramenti andarono a riposo.
«Dobbiamo farli a pezzi!» esclamò Inghilterra, sedendosi sulla panchina a riprender fiato: per cercare di fermare le molteplici incursioni dei due attaccanti aveva corso come un folle.
«Però sono forti» ammise Ungheria, lanciando un’occhiata di sbieco all’altra panchina.
«Voi due siete bravi, perlomeno a giocare a calcio» si stava intanto complimentando Germania con i due fratelli Vargas.
«Davvero?» chiese Veneziano, felice d’essere elogiato dal tedesco.
«Tsk! Non mi serve che me lo dica tu che sono bravo, bastardo mangiapatate! Lo so già!» ribatté bruscamente Romano, incrociando le braccia sul petto stizzito.
«Romano, sei stato fantastico!» s’intromise Spagna.
«Dici davvero...?» replicò l’altro, evidentemente compiaciuto nonostante la reazione meno esuberante rispetto al più piccolo.
«Dobbiamo segnare di nuovo, Ovest!» sbottò Prussia, posando un braccio attorno alle spalle del fratello.
Sembrava discretamente sicuro delle proprie possibilità.
«E tu, Austria, vedi di renderti un po’ più utile nel secondo tempo!» intimò a Roderich, che respirava a fatica, seduto al capo opposto della panchina rispetto ad Inghilterra. Sembrava esausto.
Era evidente che non era abituato a certi tipi di sforzo.
Ungheria gli si era avvicinata e gli aveva porto un asciugamano ed una bottiglietta d’acqua, che l’austriaco aveva accettato di buon grado, ringraziandola educatamente.
«Lo stesso vale per te. Non correre in giro come un idiota senza concludere niente» replicò con pacatezza e compostezza il musicista, apparendo così ancor più minaccioso.
«Che cos’hai dett...?!» fece per rispondere Gilbert, ma Ludwig lo fermò.
«Ehi, non è il momento di picchiarsi, altrimenti rimarremmo senza un giocatore» asserì, logico e tagliente, poi rivolto al fratello puntualizzò: «Questa è una tregua».
Prussia si calmò e si allontanò sbuffando.
Più in là, Giappone e Grecia si stavano riposando silenziosamente, seduti sul prato.
«America, cosa facciamo...?».
Canada si era avvicinato al fratello, osservando di sottecchi gli avversari con un po’ di timore.
«Vinciamo!» esclamò l’americano, risoluto «Bloccateli!» disse poi, rivolto al resto della squadra «Non fateli passare, per nessuna ragione. Non posso perdere!».
Con queste parole di non proprio incitamento, la squadra di America rientrò in campo assieme a quella di Inghilterra.
Nel secondo tempo, ambedue gli schieramenti si diedero un gran da fare ed il ritmo di gioco divenne sempre più incalzante e serrato ed i giocatori più agguerriti - a dispetto della partita amichevole - ma nessuno riuscì a segnare, da nessuna delle due parti.
America non riusciva a sopportare quella situazione di stallo.
«Devo vincere. Assolutamente...! Io sono l’eroe, e l’eroe non perde mai!» si disse, roso dalla rabbia.
Era così deciso a vincere che, senza pensarci, gridò a Ucraina, in quel momento impegnata a cercare di bloccare Ungheria: «Fammi un passaggio alto!».
La sorella di Russia, non capendo che cosa volesse fare ma fidandosi di lui comunque, eseguì: il pallone sorvolò una buona parte di campo a circa due metri e mezzo da terra.
Con quella traiettoria sarebbe finito presto alla squadra avversaria, se Alfred non fosse intervenuto.
Inghilterra lo osservò scioccato mentre si piegava sulle ginocchia e spiccava un potente salto, staccandosi con forza da terra.
Era impossibile che riuscisse ad intercettare il pallone ad una simile altezza, eppure, quello sconsiderato ci provò comunque ed in un modo che Arthur non avrebbe mai previsto: a metà del movimento, Alfred torse il busto girandosi per mettersi in posizione orizzontale e fece per avvitarsi su sé stesso.
Quell’azione per l’inglese - benché l’avesse vista solamente una volta - era fin troppo familiare.
Era la stessa mossa di quell’attaccante coi capelli biondi del videogioco che aveva visto in tv solo la sera prima.
Stava cercando di imitarlo?! Che si aspettasse addirittura la comparsa di un tornado infuocato...?
D’istinto, senza neppure pensarci, scattò in avanti tra i compagni di squadra urlando: «IDIOTA! CHE STAI...?!».
S’interruppe quando l’americano, dopo appena mezzo avvitamento, sferrò con tutte le sue forze un calcio verso il pallone, mancandolo d’una decina di centimetri, precipitando così a terra, vinto dall’ineluttabile forza di gravità.
Il pallone finì ai piedi di Austria, che lo fermò mentre tutti correvano attorno ad America, steso al suolo.
Il primo a soccorrerlo fu Arthur.
«America?» domandò.
Vedendo che il ragazzo si teneva un polpaccio, istintivamente fece per spostargli le mani, strappandogli un gemito di dolore.
«Ahiaaa... che male!» sibilò tra i denti l’americano.
Giappone si chinò accanto all’inglese e, con garbo, sollevò le mani di Jones dalla gamba, toccandola delicatamente.
«Credo che sia rotta...» constatò Kiku.
«Perché non ha funzionato...?» borbottò America, deluso «Nel videogioco funzionava...».
«Videogioco?» ripeté Francia, perplesso.
«Quale videogioco, aru?» chiese Cina.
A quel punto - ignorando palesemente la curiosità degli altri - Arthur esclamò con veemenza: «IDIOTA! Hai creduto veramente di poter copiare quella mossa?!».
Il silenzio di America e l’espressione che assunse gli risposero che sì, era assolutamente convinto che ce la potesse fare.
«Inghilterra...» s’intromise timidamente Giappone, posandogli una mano sulla spalla «Sarà meglio portarlo in ospedale».
«Sì, hai ragione» sospirò l’inglese, chinandosi e sollevandogli le spalle.
«Qualcuno mi aiuta a caricarlo in macchina?» domandò.
Con la forza congiunta sua, di Germania e Prussia, America fu caricato sui sedili posteriori della Rolls Royce di Inghilterra, che si mise alla guida senza nemmeno preoccuparsi di cambiarsi i vestiti, buttando la propria borsa con il cambio d’abito sul sedile del passeggero.
Se dovevano visitarlo, avrebbe avuto tutto il tempo per cambiarsi in seguito.
«Ah, Inghilterra» lo chiamò Ludwig, aprendogli lo sportello perché sentisse bene.
«La partita è tecnicamente finita, perciò anche la tregua» sentenziò, lasciando bene intendere le conseguenze di ciò.
Richiuse la portiera e se ne andò accompagnato dal fratello mentre il britannico metteva in moto.
«Guarda tu cosa mi tocca fare...» borbottò quest’ultimo, esasperato «Non sei abbastanza indipendente da andarci da solo all’ospedale?» gli rimproverò senza voltarsi.
Anche senza la possibilità di guardarlo in faccia, America percepì tutto il peso della sua rabbia e non solo quella.
«Ti sei preoccupato?» domandò, incuriosito: Inghilterra aveva smesso di preoccuparsi per lui quando si era dichiarato indipendente - e, se aveva continuato a farlo, si era ben curato di tenerglielo nascosto.
«Ti sei appena molto probabilmente rotto una gamba cercando di imitare uno stupido videogame. Secondo te?» esclamò l’altro con ironia pungente.
In quel momento Alfred si sentì vergognosamente in colpa per un motivo che nemmeno lui riusciva ad identificare con certezza assoluta.
«Mi dispiace» disse semplicemente.
«Ah, se ti dispiace adesso, sarai disperato sapendo che quell’aggeggio tu non lo vedrai più per un bel pezzo!» lo minacciò risoluto Arthur, col classico tono di un genitore che mette in castigo il figlio.
Avvertì una specie di fitta nostalgica nel fare quell’affermazione.
Si chiese se avesse mai veramente smesso di preoccuparsi per la colonia: in quel momento non sembrava proprio.
Cercò di scacciare quel pensiero e ci riuscì discretamente bene: la rabbia pensando a cos’avrebbe dovuto sopportare quando Alfred fosse tornato a casa con il gesso aveva preso il sopravvento.
«EEEEEEHH?!?!» fece America, sconcertato e affranto «Ma non è giusto!».
«E invece sì! Vedrai che la voglia di fare idiozie simili ti passerà presto! Certe volte mi piacerebbe veramente sapere cos’hai al posto del cervello...!».