Neuro...?!

Jan. 28th, 2011 04:00 pm
fiamma_drakon: (Gilbert_Nightray)
[personal profile] fiamma_drakon
Titolo: Neuro...?!
Rating: Verde
Genere: Comico, Fluff, Sentimentale
Personaggi: Neuro Nōgami, Yako Katsuragi
Wordcount: 3886 ([livejournal.com profile] fiumidiparole)
Note: Het, OOC volontario
«Sensei...».
Un brivido le corse rapido lungo la spina dorsale nell'esatto momento in cui sentì un artiglio pungolarle il petto proprio in corrispondenza del cuore. Altri quattro si aggiunsero ad esso una frazione di secondo dopo, seguiti da altri cinque unghioni, che andarono a posarsi sul suo torace, diametralmente opposti rispetto a dove si trovavano i precedenti.
«M-mi dispiace per il ritard...!».
Non riuscì a finire la frase, ma non per un'impossibilità materiale di farlo, quanto piuttosto per l'indicibile sorpresa: due lunghe braccia ricoperte di un familiarissimo - almeno a lei - ed elegantissimo tessuto blu le si erano appena appoggiate sopra le spalle e si erano avvinghiate dolcemente attorno al suo petto, congiungendosi poco sopra il suo seno.



«Ec... comi...!».
Yako, ancora boccheggiante, le gambe leggermente divaricate e tremanti, fissava l’interno del suo ufficio senza riuscire a riprendere fiato.
Come al solito Neuro le aveva mandato un messaggio sul cellulare, chiedendole di presentarsi in fretta. Lei non se l’era fatto ripetere due volte: aveva abbandonato in gran fretta ciò che stava facendo - ossia mangiare, come c’era da aspettarsi da lei - e si era precipitata.
Il problema, adesso che era lì, non era tanto il “perché fosse stata chiamata”, bensì il “perché diamine Neuro non c’era?”: la poltrona dietro alla scrivania dalla parte opposta alla porta non era occupata - come sempre - dal demone, ma completamente, irrimediabilmente vuota.
Yako si guardò intorno: nessuna traccia da nessuna parte. L’unica altra persona presente all’interno della stanza era Godai, addormentato al suo solito “posto di guardia” poco distante da lei. Se poi si voleva contare anche Akane nell’elenco, pur non essendo propriamente umana, allora erano tre in totale.
Ma Neuro continuava a mancare.
La ragazza fece qualche incerto passo all’interno della stanza, perplessa e incuriosita da quell’assenza tutt’altro che normale, finché...
«Sensei...».
Un brivido le corse rapido lungo la spina dorsale nell’esatto momento in cui sentì un artiglio pungolarle il petto proprio in corrispondenza del cuore. Altri quattro si aggiunsero ad esso una frazione di secondo dopo, seguiti da altri cinque unghioni, che andarono a posarsi sul suo torace, diametralmente opposti rispetto a dove si trovavano i precedenti.
«M-mi dispiace per il ritard...!».
Non riuscì a finire la frase, ma non per un’impossibilità materiale di farlo, quanto piuttosto per l’indicibile sorpresa: due lunghe braccia ricoperte di un familiarissimo - almeno a lei - ed elegantissimo tessuto blu le si erano appena appoggiate sopra le spalle e si erano avvinghiate dolcemente attorno al suo petto, congiungendosi poco sopra il suo seno.
I lunghi artigli argentei di quelle mani ultraterrene erano andati a finire ben più in basso, a solleticarle delicatamente il ventre, ricoperto dal maglioncino della sua divisa scolastica.
Sentì un mento poggiarsi morbidamente sulla sua testa, per poi scivolarle fin sulla spalla sinistra, mentre una guancia iniziava a strusciarsi contro la sua, come in cerca di attenzioni.
«Sensei...».
«N-Neuro...?!» domandò Yako, sgranando gli occhi, sottraendosi un poco a quel contatto del tutto inaspettato.
Pareva quasi che il demone stesse facendo le fusa - a causa di cosa, non avrebbe saputo né ipotizzarlo né dirlo con certezza: dopotutto, là dentro il detective, quello vero, era proprio lui.
«Che ti prende? È... successo qualcosa?» continuò a chiedere, iniziando a preoccuparsi: non era affatto da lui un comportamento simile.
Anzi, di solito era esattamente l’opposto.
Avvertì la sua presa farsi d’un tratto più salda.
«Sono felice che sia arrivata, sensei» disse, con quel candido tono che di solito usava per fingersi umano durante le indagini - e con cui amava tanto tirarla in ballo quando esponeva le sue deduzioni.
«Ehi, Godai» chiamò Yako, in preda a qualcosa di più della semplice preoccupazione a quel punto - qualcosa che somigliava tanto al panico vero e proprio. O Neuro era impazzito o era successo qualche cosa di particolarmente grave: non poteva essere casuale un comportamento simile.
E Godai era l’unico che era rimasto là con lui per tutto il tempo, per cui doveva sapere che cosa gli era capitato.
«Godai! Godai!» continuò a chiamare la Katsuragi, scuotendo il ragazzo per un braccio, cercando di svegliarlo senza muoversi troppo, visto che quegli artigli appoggiati sulla sua pancia non la tranquillizzavano per niente: un movimento sbagliato e sarebbe stata sbudellata senza tante cerimonie.
Finalmente, dopo alcuni minuti di ininterrotti scossoni, Godai si ridestò.
«Che c’è...?» biascicò, mentre sbatteva le palpebre per rimettere bene a fuoco il mondo.
La prima cosa che il suo sguardo incrociò fu un qualcosa di estremamente inusuale: Yako piegata sotto il peso e l’imponente stazza di Neuro, il cui viso era adagiato sulla spalla di lei e le lunghe braccia che la cingevano fino ad arrivare a sfiorarle con la punta delle dita - ora artigli - la pancia.
Quasi raccapricciante.
«C-che succede?!» sbottò Godai, improvvisamente ben sveglio.
«Vorrei saperlo anche io...» commentò depressa Yako, le spalle doloranti «Mi ha abbracciato appena arrivata e non si stacca... sai cosa può essergli successo?» proseguì.
Il biondo ci ragionò sopra un momento, poi la sua espressione si scurì e, in tono abbastanza sgarbato, rispose: «È strano da ieri sera, quando è tornato. Ha cominciato a fare l’idiota ed ha continuato per tutta la notte...».
E se lo ricordava bene, visto che ogni pochi minuti gli andava vicino e gli chiedeva quando sarebbe tornata Yako - col risultato che non aveva dormito poi molto.
«Ieri sera...?» ripeté la ragazza, riflettendoci su, riportando alla memoria gli eventi del giorno prima: lei e Neuro erano stati tutto il pomeriggio in giro a risolvere diversi casi che erano stati loro proposti subito dopo pranzo e che avevano allettato il demone - che si era ostinato a risolverli tutti in una volta sola.
In tutto erano stati tre - e tutti erano stati brillantemente risolti.
Quando, al calar del sole, avevano preso la via del ritorno, Neuro pareva abbastanza soddisfatto del pasto - contrariamente al solito.
Forse quel comportamento tanto anormale era un “effetto collaterale” dell’aver mangiato tanti misteri: solitamente non ne risolvevano più di uno al giorno.
In effetti, a guardarlo da una prospettiva diversa, l’atteggiamento di Neuro poteva somigliare in modo abbastanza singolare ed inquietante a quello di un ubriaco, anche se forse era solamente una sua impressione: non si lamentava di emicranie né era esausto o aveva la nausea - anzi, in realtà sembrava abbastanza in sé, anche se in un modo decisamente inconsueto.
«Potrebbe essere un’indigestione di misteri...?» asserì la ragazza, mentre con cautela si avvicinava al divano.
«Indigestione...?» ripeté Godai, inarcando sorpreso un sopracciglio: non avrebbe mai pensato che anche Neuro, solitamente sempre perfetto in tutto quel che faceva, potesse soccombere a cose banali come un’indigestione.
In quel momento non poté negare di provare un senso di trionfo: finalmente anche quello schiavista era stato sopraffatto da qualcosa!
Ne era estremamente felice.
«Probabile» disse lei, poi rivolta al demone proseguì: «Neuro potresti stenderti sul divano...?».
Per timore che si riprendesse all’improvviso e la malmenasse per l’aver provato ad ordinargli qualcosa glielo domandò con estremo garbo.
Lui, incredibilmente, obbedì senza fiatare - il che era dannatamente strano.
Liberarsi del suo peso dalle spalle - e soprattutto dei suoi artigli dal ventre - fu un sollievo non da poco per la Katsuragi, che rimase in piedi lì vicino, esaminandolo: il divanetto era troppo piccolo per ospitarlo tutto, infatti le gambe sporgevano da un lato dal ginocchio in giù, penzolando nell’aria, senza tuttavia intaccare nemmeno un po’ la sua innegabile, ultraterrena eleganza.
Per il resto stava sdraiato compostamente, le mani - adesso prive d’artigli - mollemente poggiate sullo stomaco ed intrecciate tra loro.
Il viso era quello che mostrava sempre in presenza di altri umani all’infuori di lei e Godai, con quei grandi, innocenti e teneri occhi verde acqua torbido spalancati e fissi sul suo viso come se fosse in attesa di qualcosa di particolare da parte sua.
I capelli stavano sparsi sul bracciolo del divano e formavano una raggiera d’oro sbiadito attorno ai suoi due curiosi ciuffi scuri.
Appariva umano e fragile, in tutto e per tutto: non c’era la minima traccia in lui di quell’essenza demoniaca che con lei prendeva solitamente il sopravvento.
Alla fine, Yako decise di sedersi accanto alle gambe del demone, studiando il suo viso con una leggera perplessità mista a disagio: come poteva fare per dirgli gentilmente che non era esattamente se stesso...?
«Neuro...?» chiamò dopo alcuni minuti, facendosi coraggio.
La sua voce suonava abbastanza insicura.
«Sì, sensei?» rispose l’altro, attento e curioso.
La ragazza raccolse il fiato e proseguì: «N-non ti senti un po’... strano? Cioè insomma... rispetto al solito...».
Neuro, per tutta risposta, sbatté perplesso quegli occhioni colmi di purezza e rispose: «No, sensei. Dovrei?».
La cosa peggiore di tutta quella scena non fu tanto l’atteggiamento con cui replicò, quanto piuttosto la sua voce ed il tono da cosa più ovvia del mondo che aveva usato.
Era orribilmente inquietante, molto più dell’assistere al suo uso dei più svariati e pericolosi - talvolta letali - strumenti demoniaci in suo possesso.
Sembrava essersi instupidito tutto d’un tratto.
«Non sei in te, idiota!» ripeté Godai in termini più spicci, avvicinandosi anche lui al divano.
L’azione successiva fu a dir poco fulminea: l’espressione serena e vagamente sciocca del demone fu rimpiazzata all’istante da quella di sempre, lievemente omicida. Si alzò e in un lampo il biondo si ritrovò a penzolare ad una ventina di centimetri da terra, la mano demoniaca di Neuro che lo stringeva alla gola.
Se avesse mosso di poco anche solo per errore quelle dita simili a lame letali, il giovane sarebbe finito sgozzato - e il demone pareva dannatamente propenso a farlo.
Allarmata, Yako si affrettò a cercare di fermarlo: «Neuro lascialo!».
«Devo proprio, sensei?» chiese quest’ultimo voltandosi verso di lei, gli occhi di nuovo innocenti ed umani.
«Sì! Mettilo giù... subito» asserì lei, la voce lievemente incrinata dall’incertezza, nonostante fosse palese lo sforzo di apparire decisa.
Le faceva ancora un certo effetto dargli degli ordini quando di solito era il contrario, ma doveva farlo: ne andava della vita del povero Godai.
Per la seconda volta nell’arco di meno di un’ora, Neuro le obbedì senza obiettare - cosa che sarebbe rimasta nei ricordi della studentessa per molti anni avvenire.
Il demone allentò la presa sul collo di Godai, poi ritrasse la mano e si volse verso di lei con fare fin troppo mansueto.
Il biondo ricadde pesantemente sul pavimento, in piedi per sua fortuna, tossicchiando ed imprecando a mezza voce.
Yako sospirò, esasperata dalla situazione, sollevata al contempo per essere riuscita ad evitare uno spargimento di sangue del tutto inutile.
«Siediti» esclamò, rivolta al demone, il quale ubbidì ancora una volta.
Dalla sua espressione pareva pendere letteralmente dalle sue labbra.
A quel punto si rivolse a Godai: «Come si fa a farlo tornare normale? Così è troppo strano e per di più pericoloso, perfino per un demone!».
Il suo interlocutore si prese del tempo prima di rispondere - anche perché la gola gli faceva male per l’aggressione appena subita.
Infine, replicò: «È un dannato demone. Qualsiasi cosa possa avere non ne sappiamo niente di come curarla e non si può trovare nulla in proposito da nessuna parte!».
«Quindi?»
«Quindi si deve aspettare che ritorni alla normalità per conto suo» sentenziò il biondo in tono quasi solenne, per quanto scorbutico fosse.
«C-come?!» esclamò Yako, scioccata, quasi indignata «Non possiamo lasciarlo in questo stato!»
«Quale stato, sensei?» s’intromise l’oggetto di tutte quelle discussioni, incuriosito.
La studentessa avrebbe preso volentieri a testate la parete per sfogare l’esasperazione, ma non ne aveva la forza: possibile che fosse realmente regredito cerebralmente fino a livelli tanto bassi...?
«Non si può lasciare così! E se arrivasse qualcuno? Se chiedessero il mio aiuto per un caso? Io non posso farcela da sola e certamente se Neuro, appena tornato normale, lo venisse a sapere, mi ammazzerebbe!» continuò, preoccupata.
Un qualcosa di appuntito le toccò la schiena, seguito immediatamente da un altro.
Yako rabbrividì quando capì che quelle... cose che le stavano lentamente risalendo lungo la spina dorsale altro non erano che due degli artigli di Neuro.
Poteva già immaginarselo, in quelle condizioni, sporgersi dal divano per far camminare due dita - o artigli, che forse calzava meglio - sulla sua schiena con l’espressione di uno spensierato ed innocente bambino stampata in faccia - e riusciva ad immaginarlo in quell’azione con una ricchezza di particolari unica nel suo genere senza neppure girarsi.
Il cellulare di Yako vibrò all’improvviso nella sua tasca, facendola sobbalzare per la sorpresa.
Lo estrasse e fissò lo schermo con apprensione: le era appena arrivato un messaggio.
Temeva che fosse accaduto qualcosa per cui si necessitava l’intervento della brillante mente di Neuro, attualmente ridotta ad un colabrodo per cause ancora sconosciute.
Con il cuore che le martellava in gola, la ragazza andò alla casella degli SMS ed aprì il messaggio.
Tirò immediatamente un enorme sospiro carico di sollievo: era soltanto la sua amica che le aveva scritto per ricordarle che...!
«Oh, no! Me ne ero completamente dimenticata!!!» esclamò d’un tratto, sbattendosi una mano in fronte con un certo vigore.
«Che ti succede?» le chiese Godai in tono tutto sommato sprezzante e vagamente incuriosito.
«Devo andare» tagliò corto la Katsuragi, facendo dietrofront ed avviandosi di nuovo verso la porta della stanza «Avevo promesso alla mia amica che l’avrei aiutata a cercare un regalo per suo p...».
«Non puoi andartene, sensei!».
Il peso di Neuro e la sua corporatura decisamente fuori norma le si riversarono addosso come un’onda di maremoto, sovrastandola e quasi stendendola a terra.
Le sue lunghissime braccia le circondarono il torace in un forte abbraccio nel quale carpì una dolce disperazione intrinseca, nonostante l’azione in sé, alla fine, fosse una sorta di vero e proprio stritolamento.
«Se deve lasciala andare!» sbottò il biondo burbero, cercando di strapparglielo di dosso - e nemmeno tanto gentilmente.
Fatica inutile: il demone non si mosse neppure di un centimetro, come se Godai semplicemente non ci fosse.
«Non vada via, sensei, la prego!» la supplicò Neuro, come se da ciò dipendesse la sua stessa vita.
Yako lo fissò, stupita: era riuscito ad intenerirla.
Con quel tono da bambino che vuole che la mamma rimanga con lui anziché andare a lavoro, Neuro le sembrava così dolce e indifeso - in quel momento più che mai - da farle venir voglia d’abbracciarlo e consolarlo, addirittura.
Il colpo di grazia le arrivò quando abbassò il viso ed incrociò i suoi occhioni corrugati nella più carina delle espressioni tristi che avesse mai visto.
Non poteva tralasciare il suo impegno con l’amica, visto che gliel’aveva promesso giorni prima, ma d’altra parte non poteva neppure lasciarlo da solo sapendo che, in quello stato, avrebbe anche potuto benissimo mettersi a piangere.
Rifletté un momento su quello spinoso problema che appariva senza risposta, infine optò per la soluzione migliore e peggiore contemporaneamente che era riuscita a trovare: «Staccati, Neuro. Ti porto con me».
Vedere quegli occhi di bambino illuminarsi di gioia improvvisamente fu un sollievo senza pari per lei, che le smosse anche qualcosa dentro: lo vedeva in una luce diversa, in quel momento.
Le sembrava, oltre che più umano, anche più... carino?
Sì, in un suo personalissimo modo riusciva a darle quell’impressione.
Senza che se ne accorgesse, la Katsuragi arrossì.
«Fa’ un po’ come ti pare» fu il pacato commento che ricevette da Godai, mentre quest’ultimo se ne tornava alla sua postazione.
Neuro - che le si era intanto tolto di dosso - pareva quasi sprizzare felicità da tutti i pori.
«Dove andiamo, sensei?» chiese, curioso.
«A cercare un regalo con la mia amica per suo padre» spiegò Yako in tono spiccio «Però devi comportarti bene. Niente poteri demoniaci di nessuna specie. E non far vedere neppure le mani, okay?» lo avvisò, col tono classico con cui una mamma si rivolge al figlio cattivo prima di uscire di casa.
Il demone annuì con vigore.
«Bene, allora andiamo» disse lei, precedendolo fuori.
 
Yako ed il demone raggiunsero la loro meta dopo un quarto d’ora circa.
Neuro, che le camminava accanto, sembrava perfettamente calato nella parte del bravo bambino.
«Ah, eccoti finalmente!».
Kanae, in piedi in mezzo al marciapiede, aspettava con le braccia incrociate sul petto.
«Scusa il ritardo, ho avuto... un contrattempo» si giustificò Yako, anche se l’attenzione dell’altra, in quel momento, era tutta dedicata a Neuro, che le stava guardando con un sorriso innocente che lo faceva sembrare un po’ ingenuo.
«Andiamo?» fece la Katsuragi, ansiosa di concludere l’impegno e tornare al sicuro all’ufficio quanto prima.
«Sì...» convenne Kanae, anche se pareva poco convinta.
S’incamminarono comunque, seguite dal demone, simile ad un’ombra.
«Ehi, Yako...» le sussurrò l’amica, piegandosi sul suo orecchio affinché il loro accompagnatore non potesse sentire «Perché ti sei portata dietro pure lui?».
«Be’, ecco...» esordì lei con voce incerta, non sapendo come spiegare la cosa. Di certo non poteva dirle la verità: “L’ho portato con me perché in realtà, sai, lui è un demone e oggi si sente inspiegabilmente male e se non l’avessi portato non mi avrebbe lasciata venire”.
Kanae avrebbe semplicemente chiamato il manicomio più vicino e l’avrebbe fatta portare via con tanto di camicia di forza.
«Non è che per caso vi siete fidanzati, eh...?» sussurrò l’amica in tono subdolo e vagamente malizioso, lanciandole l’occhiata tipica di chi sta prepotentemente insinuando qualcosa.
Yako avvampò di colpo, allontanando il viso dal suo.
«C-che cosa?! M-ma no!» esclamò a gran voce, in difficoltà.
«Cosa succede, sensei?» s’intromise Neuro, innocentemente, passando gli occhi dall’una all’altra.
«Ah, guarda!» fece improvvisamente la Katsuragi, fermandosi di colpo davanti ad un negozio d’abbigliamento maschile «Entriamo a vedere se troviamo qualcosa?» continuò, prendendo Kanae per un polso e trascinandosela appresso, mentre il demone le seguiva: non poteva permettersi che Neuro si facesse - soprattutto in quel momento - strani pensieri su loro due.
Insomma, lei era un’umana e lui un demone. Non c’era possibilità d’incontro, anche se, in verità, eccetto alcune peculiarità del suo carattere e l’età, Neuro non era un cattivo partito.
Girarono il negozio in lungo e largo senza trovare niente che attirasse le attenzioni di Kanae, perciò dopo sì e no una mezz’ora uscirono.
Successivamente entrarono in un impressionante numero di negozi d’abbigliamento maschile, gioiellerie e persino librerie, tanto che Yako si chiese più d’una volta se potesse esistere un regalo che le potesse andare a genio, poi, finalmente, trovarono il negozio giusto, dove Kanae comprò un orologio d’acciaio con il quadrante blu scuro che, a detta sua, era semplicemente perfetto per suo padre.
Neuro le aveva seguite da vicino per tutto il tempo e durante questo non aveva aperto bocca mai, nemmeno una volta, al punto che Yako si era praticamente dimenticata della sua presenza.
Il delicato tocco improvviso che percepì sulla sua spalla, tuttavia, gliela ricordò.
Si volse all’indirizzo del demone e sgranò appena gli occhi: era più pallido del normale ed aveva delle ombre leggermente più scure sotto le palpebre. Sembrava avesse perso gran parte della vitalità che lo caratterizzava.
«Neuro, che cos’hai?» domandò, preoccupata.
«Non mi sento tanto bene, sensei...» ammise lui, scuotendo appena il capo.
«Kanae, io torno a casa» annunciò bruscamente la Katsuragi con voce greve, fermandosi di botto, girandosi a guardare di nuovo l’amica.
Quest’ultima la imitò per riflesso con pochi secondi di ritardo.
«Perché? Non hai voglia di andare a mangiare qualcosa?» la tentò.
Per quanto in quel momento avesse fame e desiderasse mettere sotto i denti qualcosa il più in fretta possibile, si sentiva responsabile nei confronti di Neuro, che pareva peggiorare di momento in momento.
Adesso sembrava ancor più smunto, come se le energie gli venissero succhiate via dal corpo progressivamente.
A quel punto non era più possibile neppure pensare che il problema fosse legato in qualche modo ai misteri: era in lui che non andava qualcosa.
Un brivido attraversò il braccio della ragazza quando questa avvertì la mano del demone diventare più grande nella sua presa e le dita strette debolmente sul suo dorso affilarsi fino a procurarle un leggero dolore.
«S-si sta... trasformando?» esclamò tra sé, scioccata.
«Che cosa gli sta succedendo...?» domandò Kanae ad alta voce, sbigottita, guardando alle spalle di Yako nello stesso momento in cui quest’ultima si voltava nuovamente verso il demone. Solo allora notò che dal capo gli stavano spuntando le corna ritorte tipiche della sua forma demoniaca.
Doveva portarlo via di lì e subito, altrimenti altre persone oltre a lei si sarebbero accorte che non era un essere umano.
Era suo dovere, in quel frangente, proteggere sia lui che il suo segreto.
«Devo andare. Ci vediamo poi!» si affrettò a congedarsi Yako, evitando di rispondere alla domanda postale, facendo dietrofront e correndo via trascinandosi dietro Neuro, che sembrava faticare a tenere il suo passo.
«Neuro...?» chiamò lei, voltandosi a guardarlo.
«Sono stanco, sensei...» disse lui in tono contrito.
«Cerca almeno di fermare o rallentare la trasformazione...! Solo finché non siamo arrivati all’ufficio!» quasi lo implorò la ragazza.
Lui annuì debolmente, gli occhi carichi di tenera sofferenza.
Nonostante ciò, arrivarono all’ufficio che Neuro aveva già le mani completamente trasformate che a stento lei riusciva a stringere e le corna quasi totalmente esposte.
L’unica cosa che era ancora “normale” era il suo viso - anche se i tratti somatici si erano acuminati e le iridi cominciavano a brillare di una bella e macabra tonalità smeraldina.
Yako aprì la porta dell’ufficio con impeto, facendola sbattere con veemenza contro la parete.
Godai sobbalzò sul divano, dal quale stava seguendo un programma in tv, volgendosi di scatto verso l’uscio.
«Cosa succede?!» esclamò il biondo al vedere Neuro quasi completamente nella sua vera forma.
Tuttavia, in quel momento la Katsuragi non era in vena di chiacchiere.
«Godai togliti da lì...!» disse, avvicinandosi a passo rapido, tirandosi dietro Neuro.
«Sdraiati là» disse la ragazza al demone, il quale obbedì subito, lasciandosi cadere sul divano come se fosse esausto.
Godai si era alzato appena in tempo per non essere investito dalle sue gambe.
«Cosa ha fatto?!»
«Non lo so di preciso, ma credo che non sia né colpa mia né sua di questa situazione» Yako s’interruppe un attimo per riprender fiato «Credo che stia male».
«Era ovvio che stesse male anche ore fa!» contestò l’altro.
«Intendo di una qualche malattia... probabilmente i demoni ne hanno di particolari...» si spiegò meglio la ragazza, inginocchiandosi accanto al divano: Neuro pareva esanime e le faceva una gran pena in quello stato.
I suoi occhioni erano offuscati da un velo di stanchezza palpabile e la fissavano come se fosse l’unico debole raggio di sole che trapelava tra un banco di plumbee nubi cariche di tempesta.
«Sensei...» sussurrò, le palpebre a mezz’asta.
Le sue guance si erano arrossate, come se fosse febbricitante - e, in effetti, la sua pelle mandava un sentore di calore non indifferente che lei percepiva anche attraverso il maglioncino.
Allungò una mano a stringerle il braccio, sorridendole.
«... ti amo...».
Se Yako non avvampò istantaneamente ad una simile dichiarazione fu solo a causa dello shock iniziale, dovuto semplicemente al fatto che sapeva alla perfezione che Neuro, in quanto demone, non avrebbe mai potuto provare alcuna sorta di sentimenti come l’affetto - o, peggio, l’amore.
E poi perché non riusciva a credere che amasse - ammesso e non concesso che fosse un amore vero e non solamente indotto dalla malattia - proprio lei.
Sentì insinuarsi dentro di sé una strana sensazione che non riusciva ad identificare, un misto d’affetto, disagio e gioia, un qualcosa che non aveva mai provato prima d’allora.
Mentre si perdeva in secondi per lei lunghi quanto l’eternità non si accorse d’essere arrossita violentemente.
Più lo guardava, più sentiva di ricambiare - oddio, ma a cosa andava a pensare? - quel sentimento che Neuro aveva appena ammesso di provare per lei.
Quest’ultimo chiuse definitivamente gli occhi ed il suo respiro si fece più basso e regolare.
«Si è addormentato» comunicò Yako sottovoce a Godai, rialzandosi.
«Speriamo che si rimetta in fretta...» aggiunse tra sé e sé.
 
«Sedia, serva numero uno».
Yako si mise carponi, strisciando fin dietro la scrivania con un sospiro a metà tra esasperazione e rassegnazione, mentre il demone si accomodava sulla sua schiena senza tante cerimonie.
Aveva avuto una malattia ed una convalescenza dannatamente rapide: già quella notte le sue fattezze demoniache erano svanite e, assieme ad esse, anche quell’aspetto quasi umano ed esanime.
Lei, che aveva dormito lì vicino a lui per evitare che accadesse qualcosa semmai si fosse svegliato e non avesse trovato la sua sensei nei paraggi, era stata destata da uno strapazzamento immane alle cinque del mattino ad opera dello stesso, già sveglio e fresco come una rosa.
E qual era stata la prima cosa che le aveva detto?
«Sento l’odore di un mistero. Andiamo».
Nessun accenno a quanto accaduto il giorno prima - anzi, pareva aver rimosso qualsiasi ricordo inerente ad esso dalla memoria, anche se era più probabile che non ne conservasse semplicemente la reminiscenza.
Per cui non si ricordava neppure di quel “ti amo” che le aveva rivelato poco prima di cadere addormentato - e, di conseguenza, non aveva niente da rammaricarsi nel trattarla come uno zerbino o un elemento d’arredo come faceva di solito.
Yako inarcò faticosamente la schiena nel tentativo di non cedere sotto il peso non indifferente del demone.
«Ma perché è guarito così in fretta...?!»

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