Lost in the Woods
Jan. 26th, 2020 10:05 am![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
Titolo: Lost in the Woods
Rating: Arancione
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico, Sentimentale
Personaggi: Patria (OC!Tiefling Paladino), Tharazar (OC!Mezzorco Bardo)
Wordcount: 28'416 (wordcounter)
Timeline: Ambientata dopo questa.
Note: Dub-con, Het, Violence, Yaoi
«La prego di perdonare Pluma, signor musico. Quel che voleva dire era che Sua Maestà Lilah, Regina dei Pixie, desidera avervi come suo ospite a corte e di poter assistere ad una vostra esibizione, come quella di questa notte».
Tharazar sgranò gli occhi e aprì la bocca ma senza emettere alcun suono mentre le sue guance assumevano una preoccupante sfumatura rossa, piuttosto inusuale per lui.
Patria inarcò entrambe le sopracciglia con aria stupita e intrecciò le braccia sul petto.
«Ti sei esibito per loro, stanotte?» domandò in tono di finta incredulità «E non mi hai svegliato...».
«Non è così!» replicò fermo il suo compagno «Ti ho detto che avrei voluto suonare ancora un po’ durante la guardia! Non c’era nessuno!».
«Ormai le giornate durano pochissimo...».
Patria sospirò mentre ravvivava il piccolo falò circoscritto che aveva allestito al centro della piccola radura in cui lui e il suo compagno di viaggio avevano eletto a luogo per trascorrere quella notte. Sul fuoco aveva sistemato un piccolo pentolino in cui stavano bollendo svariate piante e radici insieme a sporadici pezzi di carne. L’odore di cibo aleggiava nell’aria già da un po’, preannunciando l’imminente cena.
Il Mezzorco con cui viaggiava era seduto su un sasso poco distante ed era intento a suonare una fisarmonica piuttosto piccola per le dimensioni delle sue mani. L’esibizione era niente male e lui pareva assorto e rilassato al tempo stesso, distratto da tutto ciò che gli accadeva attorno.
Patria lo osservò di sottecchi, in silenzio: da quando si erano lasciati alle spalle la locanda in cui avevano consumato il loro primo vero rapporto sessuale, Tharazar era diventato ancor più spavaldo nelle sue piccole stranezze. La sua già estremamente bassa soglia del pudore era scesa ulteriormente, tanto che il Tiefling si sorprendeva del fatto che ancora utilizzasse dei vestiti per andare in giro; in aggiunta a ciò, pareva molto meno restio a suonare in sua presenza, come se fare sesso avesse abbattuto un qualche muro invisibile che gli impediva di esibirsi mentre viaggiavano.
Al contrario delle sue discutibili abilità canore, la musica di Tharazar era piacevole ed era palese che fosse il frutto di un talento innato oltre che di anni e anni di pratica. Vedendolo suonare si aveva anche la sensazione che il Mezzorco riuscisse ad incanalare la stanchezza e il malcontento in maniera proficua. Pareva fosse per lui una sorta di valvola di sfogo, un modo piuttosto originale per uno della sua razza di rilassarsi.
Patria lo ascoltava tutte le sere, senza mai interromperlo finché non se ne presentasse il bisogno. Nel frattempo, i suoi pensieri ritornavano ossessivamente a ciò che era accaduto tra loro in locanda.
Ciò che in un primo momento gli era parso un notevole e inatteso sviluppo in positivo della loro relazione, col trascorrere dei giorni gli sembrava sempre più un increscioso errore. Il Tiefling avrebbe voluto affrontare la questione a viso aperto ma si vergognava di farlo, non sapendo quanto la cosa fosse importante per il suo compare. D'altro canto, l'apparente mancanza di interesse in materia da parte di quest'ultimo gli faceva presupporre che lui stesso non desse molto peso alla questione. Visto il suo passato come "Signore dell'Arena", probabilmente era abituato ad avere storie da una notte con tutte e tutti quelli che aveva d'intorno. Quel pensiero alimentava ulteriormente i suoi dubbi e lo rendeva ancor più titubante nel parlare dell'argomento.
La zuppa cominciò a bollire. Nello stesso istante, Tharazar concluse il brano che stava suonando all'improvviso ma con una chiusura che pareva molto naturale, come se avesse davvero finito il pezzo.
«È pronto, vero?» domandò, aprendo gli occhi e posandoli su Patria con espressione carica d'aspettativa.
«Sì, è pronto» sbuffò l'altro, togliendo il pentolino dal falò e apprestandosi a servire la cena in due piccole scodelle che si portava sempre appresso «Sta' attento che brucia ancora...».
Il Mezzorco accettò il piatto che gli veniva porto e, con la grazia di un signore, ne aspirò un sorso dal bordo della scodella, in attesa che il suo compagno gli allungasse anche un cucchiaio.
«Buona» commentò, leccandosi il labbro superiore «Almeno la carne gli dà un po' di sapore...».
«Sono contento che almeno per stasera tu sia soddisfatto» replicò pacatamente Patria, iniziando a mangiare a sua volta.
Sentiva che c'era qualcosa di sbagliato nel loro modo di rapportarsi in quel momento. Era come se si fosse venuto a creare un nuovo ostacolo tra di loro che impediva di avere la stessa piacevole intesa che si era instaurata per un breve periodo prima che si fermassero presso la locanda.
Tharazar era molto meno suscettibile e molto più equilibrato, eppure pareva diverso e Patria non se la sentiva di indagare sul motivo. Aveva paura di cosa potesse venire fuori da un simile confronto.
Non voleva sapere se era stato solo l'avventura di una notte di follia o se davvero il Mezzorco provava qualcosa per lui, semplicemente perché immaginava che le probabilità propendessero paurosamente per la prima opzione e lui non si sentiva pronto a soffrire, non per colpa di Tharazar, non dopo tutto il tempo che avevano trascorso insieme e dopo tutti i segreti che gli aveva confessato.
Si era aperto troppo con lui in quel periodo per poter accettare di essere niente più che uno strumento per appagare il suo bisogno di sesso.
«Chi fa il primo turno di guardia?» domandò, cercando di scacciare il tumulto di pensieri che gli affollava la mente.
«Lo faccio io» si offrì subito l'altro, deglutendo rumorosamente un gustoso bocconcino di carne «Voglio suonare ancora un po' e se lo faccio nel cuore della notte rischio di attirare l'attenzione di qualche bestia notturna...» spiegò subito dopo.
Era un ragionamento sensato, addirittura troppo per essere stato partorito dalla sua mente. Patria si complimentò con se stesso per essere riuscito ad inculcargli un po' di buon senso nonostante sembrasse un'impresa impossibile da realizzare.
«D'accordo, nessun problema» Patria annuì, per poi tornare a mangiare silenziosamente la sua porzione di zuppa.
Consumarono la cena in silenzio, quindi il Tiefling si posizionò sul terreno nella maniera più comoda che riuscì a trovare e, avvolto nella sua pesante tunica rinforzata di placche di metallo qua e là, cercò di addormentarsi.
Tharazar rimase immobile e taciturno per un po', seduto sul suo masso a contemplare le tenebre al di là dei cespugli e degli alberi che delimitavano la radura. Voleva che Patria si addormentasse prima di riprendere a suonare, dato che non voleva disturbare il suo sonno.
Il fatto che di recente avesse ripreso a dilettarsi con i suoi strumenti musicali non era imputabile tanto ad una vera nostalgia per quell'hobby appartenente al suo illustre passato quanto piuttosto alla necessità di tenere la mente impegnata in qualcosa che era per lui inequivocabilmente piacevole. Pur essendo i suoi strumenti una sorta di estensione naturale di se stesso e dunque non gli richiedessero un alto livello di concentrazione per essere utilizzati - a meno che non dovesse cercare di impressionare qualche spettatore - esibirsi assorbiva abbastanza energia da permettergli di distrarsi dalla consapevolezza di trovarsi in uno stato di precario equilibrio emotivo.
Non si aspettava che Patria tacesse così a lungo riguardo a ciò che era accaduto tra di loro in locanda, né tantomeno si aspettava che tornasse ad essere così freddo e scostante nei suoi riguardi. Era stato a dir poco fenomenale, attento e passionale. Nessuna delle sue precedenti concubine aveva ricevuto un trattamento del genere da lui durante la loro prima notte di sesso, eppure Patria non pareva esserne rimasto contento né pareva voler chiedere il bis.
«Forse si vergogna... del resto, sono un grande esperto, deve sentirsi in soggezione» si era detto tante volte, cercando di liquidare in breve il problema.
In realtà quella giustificazione non gli bastava. Temeva che ci fosse dell'altro dietro il nuovo atteggiamento del Tiefling e una parte di lui non voleva sapere di cosa si trattava. Era riuscito ad uscire da un lungo tunnel di notti passate a crogiolarsi nell'autocommiserazione e nella certezza che qualsiasi cosa facesse fosse sbagliata.
Patria era riuscito a insegnargli come sopravvivere nella foresta, a fargli capire che con un po' di pazienza poteva riuscire laddove la sua ignoranza del mondo lo ostacolava.
Quella notte nella locanda si era sentito padrone della situazione, aveva preso le redini ed aveva guidato Patria nel loro primo amplesso. Aveva sperato di poter fare la stessa cosa che Patria aveva fatto per lui, dato che era risultato palese che il suo compare soffrisse di una grave carenza di amor proprio.
Non sembrava aver ottenuto niente e non voleva rischiare di affrontare Patria a viso aperto sul tema dato che non voleva sentirsi confermare il suo fallimento.
Scosse il capo e si colpì le guance coi palmi aperti.
«Non pensarci. Non è così... è solo timido...» si disse con forza, cercando di convincersi della veridicità del pensiero.
Erano passati diversi minuti e Patria respirava regolarmente e a volume leggermente più alto del solito. Non era come se russasse; tuttavia, il Mezzorco aveva trascorso con lui notti a sufficienza da saperlo riconoscere come il segnale che stava dormendo.
Strinse la presa sulla sua fisarmonica, ma anziché riportarla alla bocca la ripose nello zaino, dal quale invece estrasse una custodia nera con la metà inferiore simile ad un otto panciuto e quella superiore allungata e più sottile. Era piuttosto ingombrante se paragonata allo strumento appena messo via. La superficie lucida denotava un'infinita cura nella conservazione, a dispetto delle circostanze in cui si trovava.
Tharazar accarezzò l'esterno e per un momento le sue labbra fremettero, come se stesse per piangere. L'aprì, rivelando un violino di legno scuro al suo interno. Il design raffinato e antico lasciavano presupporre che fosse un pezzo costoso e pregiato. Sopra le corde era appoggiato di traverso un piccolo archetto nero.
Il Mezzorco estrasse lo strumento e si alzò in piedi, lasciando sullo zaino la custodia vuota. Fece qualche passo allontanandosi da Patria e si mise in posizione con un movimento fluido ed elegante, un evidente riflesso divenuto spontaneo in anni di ripetizione.
Il fondo arrotondato della cassa scivolò subito nell'incavo tra spalla e collo, bloccandosi nella posizione più comoda per l'esecuzione.
Tharazar chiuse gli occhi e sollevò l'archetto. L'appoggiò sopra le corde, senza neanche guardarle, e cominciò a suonare.
Le note acute dello strumento si librarono nell'aria, abbracciandolo e calmandolo, spezzando il tetro silenzio notturno. Tutti i suoi pensieri e le sue preoccupazioni parvero svanire come per magia, spazzati via dalla melodia del suo violino.
Aveva iniziato solo di recente a suonarlo di nuovo, successivamente alla notte in locanda. Riusciva a placare la sua inquietudine come nient'altro al mondo. Desiderava davvero rivelare a Patria il suo amore per quello strumento all'apparenza così delicato e femminile; tuttavia, non riusciva a farlo. Aveva passato tutta la vita nascondendo a tutti la sua passione per il violino e smettere di farlo così bruscamente non era semplice. Nascondersi mentre lo suonava era un comportamento radicato in profondità in lui, per cui tutto ciò che sperava era di essere scoperto. Lo voleva e lo temeva.
Il brano iniziò lento, quasi timido, per poi acquistare il ritmo di una danza di coppia, morbida e seducente. L'archetto di Tharazar accarezzava le corde e le sue dita si spostavano sull'estremità delle corde rapide.
Il Mezzorco dopo un po' cominciò ad oscillare sul posto, spostando il peso da un piede all'altro secondo il ritmo scandito dalla sua stessa musica. Sembrava quasi che ballasse da solo, lui ed il suo violino, avvinti in un magico attimo di solitudine.
Benché Tharazar non riuscisse a udire nient'altro al di fuori della sua musica in quel momento, questa non era abbastanza alta da riuscire a penetrare il sottobosco e raggiungere l'udito dei predatori che si annidavano nelle tenebre distanti dall'accampamento; tuttavia, riuscì a catalizzare l'attenzione di qualcuno.
Se il Mezzorco fosse stato attento ai paraggi, sicuramente non avrebbe potuto non notare lo sfarfallio lucente che si librava a mezz'aria sopra i cespugli al limitare della radura. Le creaturine assistettero a lungo all'esibizione di Tharazar senza che lui si accorgesse del suo pubblico, rimanendo ferme dove si trovavano, senza avvicinarsi.
Il Mezzorco suonò ininterrottamente per un'intera ora, rapito dalla bellezza dei brani che eseguì in successione. Non sentiva il dolore delle braccia tenute sollevate troppo a lungo e nemmeno male al polso o al collo. Il suo corpo pareva immune a qualsiasi tipo di sensazione che non fosse la pace dei sensi.
Quando l'esecuzione terminò ed aprì gli occhi, gli spettatori se ne andarono, svelti e silenziosi come erano giunti, sfrecciando via tra gli alberi.
Tharazar si girò a guardare Patria, che ancora dormiva. I corti riccioli neri gli coprivano quasi del tutto il viso e le corna rosse e ritorte spiccavano alla flebile luce del falò. Le placche di metallo rilucevano di arancio e proiettavano i guizzi delle fiamme.
Il Mezzorco sospirò e andò a riporre il suo strumento, prima di tornare a sedersi sul suo masso, sul quale trascorse il resto del suo triste e solitario turno di guardia.
L'indomani mattina, Tharazar venne svegliato da scosse frettolose. Era ancora inebetito dal sonno e sul momento cercò di scrollarsi di dosso la mano di Patria per rimettersi a dormire.
«... lasciami dormire... ancora un pochino...» bofonchiò a mezza voce, girando la testa altrove.
«Tharazar! Svegliati, forza!» udì sibilare al suo compagno di viaggio, prima di subire un altro scuotimento feroce «Vogliono te!».
Il Mezzorco aggrottò le sopracciglia, confuso dalla sua ultima affermazione. Con gli occhi quasi del tutto chiusi tanto erano gonfi di sonno e i lunghi capelli neri spettinati, si mise seduto sul prato girandosi nella direzione da cui erano pervenute le scosse di Patria.
«… eh? Chi mi vuole…?» chiese, cercando di mettere a fuoco la scena circostante.
Vide il suo compagno di viaggio e vide anche che non era effettivamente da solo: vicino a lui c’erano… delle lucciole?
Si stropicciò gli occhi, perplesso, e stavolta riuscì a vedere distintamente che a mezz’aria si trovavano delle creaturine umanoidi dotate di ali, la fonte del luccichio che aveva erroneamente scambiato per quello di insetti. La cosa sorprendente era che fosse così visibile nonostante fosse già giorno.
Erano alte poche decine di centimetri e parevano vestite in maniera elegante e a tema boschivo.
«Chi sono questi…? Amici tuoi?» domandò d’istinto il Mezzorco, sbadigliando vistosamente.
Patria gli scoccò un’occhiataccia di sbieco.
«Sono Pixie, folletti della foresta» spiegò con tono spazientito.
Uno di loro, una femmina dai capelli rossi e ricci intrecciati di fiori gialli con indosso un vestitino rosa, svolazzò verso Tharazar e si fermò dinanzi al suo viso.
«La nostra regina richiede la tua presenza a palazzo, menestrello» esclamò in tono di sussiego.
Patria rise, anche se cercò di trattenersi più che poté.
L’espressione confusa e assonnata di Tharazar lasciò spazio ad un cipiglio dapprima scettico e poi irritato.
«Menestrello?!» ripeté, punto sul vivo dall’appellativo «Non sono un musicista qualunque! Io sono Tharazar il Magnifico, Signore dell’Arena di Neverwinter. Non accetto che mi si paragoni ad un buffone girovago!» sbottò, di colpo sveglio «E non accetto ordini da nessuno».
Un’altra Pixie, una femmina dai capelli biondi e il taglio corto e sbarazzino, volò vicino alla sua simile e si appoggiò alle sue spalle, abbracciandola per poi sporgersi a guardarla con un cipiglio di divertito rimprovero.
«Pluma non essere scortese!» la rimbrottò, accennando con la mano esile verso Tharazar «Il signor musico è una persona importante e Sua Maestà vuole assistere ad una sua esibizione».
La Pixie di nome Pluma sollevò il mento con aria snob e tacque, al che l’altra si fece avanti e aggiunse, rivolgendosi direttamente al Mezzorco: «La prego di perdonare Pluma, signor musico. Quel che voleva dire era che Sua Maestà Lilah, Regina dei Pixie, desidera avervi come suo ospite a corte e di poter assistere ad una vostra esibizione, come quella di questa notte».
Tharazar sgranò gli occhi e aprì la bocca ma senza emettere alcun suono mentre le sue guance assumevano una preoccupante sfumatura rossa, piuttosto inusuale per lui.
Patria inarcò entrambe le sopracciglia con aria stupita e intrecciò le braccia sul petto.
«Ti sei esibito per loro, stanotte?» domandò in tono di finta incredulità «E non mi hai svegliato...».
«Non è così!» replicò fermo il suo compagno «Ti ho detto che avrei voluto suonare ancora un po’ durante la guardia! Non c’era nessuno!».
«È stato fantastico! Sublime! Nessun viaggiatore ha mai suonato così bene e con tanta dedizione prima di lei, signor musico!» lo elogiò la Pixie bionda.
Patria lo aveva sentito suonare la fisarmonica. Riconosceva che era bravo ma non avrebbe mai osato giudicare le sue prestazioni con lo strumento “piene di dedizione”. Di una cosa però era certo: tutti quei complimenti non sarebbero passati inosservati all’attenzione del diretto interessato.
Vide infatti che alle parole della fatina, l’espressione imbarazzata e perplessa del Mezzorco cedette il posto al suo solito sorrisetto tronfio e arrogante, con cui aveva ormai fin troppa confidenza.
«Be’, in effetti… sono effettivamente bravo, è comprensibile che chiunque possa essere impaziente di assistere ad una delle mie performance» gongolò Tharazar, raddrizzando le ampie spalle muscolose «Avete detto… Regina?».
«Esattamente. Sua Maestà sarebbe orgogliosa e onorata di potervi avere a corte» rincarò la Pixie bionda, esibendosi in un sorriso raggiante..
Era fatta. La fata non ci aveva messo poi molto a giungere alla conclusione che per ottenere l’accondiscendenza del Mezzorco bisognasse lusingarlo. Patria stesso aveva messo in pratica la medesima strategia per riuscire ad ottenere dei risultati differenti da un infinito circolo vizioso di grattacapi.
Rimproverare e approcciare Tharazar in maniera dura e autoritaria era inutile. L’unico modo di renderlo docile e collaborativo era riempirlo di complimenti per qualsiasi comportamento “buono” e minimizzare i suoi errori, onde evitare ricadute di depressione.
Tharazar guardò Patria con un misto di determinazione e di arroganza prima di alzarsi lesto in piedi, scuotendosi la terra dalle braghe e dalla camicia.
«Dunque andiamo, no?» esortò in tono disinvolto, parlando direttamente al suo compagno di viaggio.
«Hai deciso tu per entrambi?» chiese quest’ultimo con un velo d’irritazione nel tono. Era evidente che gli desse fastidio il non essere preso in considerazione in merito a tale decisione.
«Non mi sembrava che tu fossi incline ad esprimere un parere contrario» fece presente il Mezzorco con una scrollata di spalle, minimizzando la cosa «... o mi sbaglio?».
Il Tiefling lo fissò con cipiglio cupo per qualche secondo; dopodiché si rivolse ai Pixie che erano rimasti in disparte, vicini a lui: «La corte della regina… dove si trova esattamente?».
A rispondergli fu un maschio dal corpicino esile e i capelli lunghi e castani.
«Il palazzo non si trova nella vostra dimensione. Vi condurremo noi lì» spiegò semplicemente, con tono pacato.
A giudicare dallo sguardo, Patria non pareva molto soddisfatto della risposta ricevuta.
«Intendevo... si trova in una città?» chiese, cercando di non dare troppo a vedere la sua impazienza.
«Il palazzo è isolato e separato dal vostro mondo. Solo tramite un portale che si trova qui nella foresta potrete raggiungerlo... e senza di noi non potrete aprirlo» esclamò lo stesso Pixie.
Probabilmente l'avere a che fare con persone che non afferravano i concetti era una maledizione destinata a perseguitare Patria fino alla fine dei suoi giorni. Non aveva la forza di controbattere: in fin dei conti, aveva ottenuto l'informazione che voleva, anche se non proprio nella maniera che si aspettava.
Il Tiefling assunse un'espressione sconfortata che durò solo pochi secondi prima di mutare in una di semplice rassegnazione.
«Va bene. D'accordo... andiamo» sospirò.
Tharazar sorrise trionfante e la Pixie bionda saltellò a mezz'aria, evidentemente altrettanto lieta della decisione.
«Allora seguiteci. Da questa parte!» disse, cominciando a svolazzare verso il margine della radura.
Il Mezzorco non si fece certamente supplicare: con falcata ampia e svelta si mise al seguito della fatina, senza perdere il suo sorriso di trionfo. Patria non lo sopportava proprio quando aveva quell'espressione in faccia.
Con molto meno entusiasmo, il Tiefling si apprestò a seguirli per non rimanere da solo in coda al gruppetto. Assieme a lui si mossero anche gli altri Pixie, affiancandolo.
Percorsero un buon tratto di foresta. Lungo la strada lo stomaco di Tharazar ebbe modo di protestare per la mancata colazione in maniera esaustiva. I continui brontolii fecero da sottofondo all'intera processione verso il luogo di contatto tra la dimensione "mortale" e quella del regno fatato.
La baldanza iniziale di Tharazar venne stroncata di netto dall'incessante borbottare della sua pancia vuota. Tentò di sopprimere il rumore coprendosi l'addome con le braccia; tuttavia, si rese ben presto conto che era del tutto inutile e lasciò perdere, limitandosi ad assumere un cipiglio fortemente imbarazzato.
Patria si accorse del cambio di atteggiamento del suo compagno senza alcuna difficoltà. In fin dei conti, era una scena cui aveva già assistito più e più volte nelle ultime settimane.
Nonostante le più recenti vicissitudini occorse tra di loro, il Tiefling non riuscì a rimanere indifferente dinanzi al disagio manifestato dal Mezzorco in quel frangente.
Gli si affiancò e a mezza voce commentò: «Anch’io muoio di fame e sarei contento di fermarmi a sgranocchiare qualcosa...».
Tharazar gli scoccò un’occhiata di traverso e accennò un sorriso, che stavolta non era del tipo arrogante e pieno di sé, bensì colmo di gratitudine. Non disse niente, si limitò solo a quello.
Dopo ciò, Patria notò un miglioramento nel suo contegno, che tornò ad essere un po’ più sicuro e spavaldo. I brontolii del suo stomaco continuavano imperterriti ma stavolta pareva che non gli importasse.
Dopo quasi un’ora di cammino arrivarono ai piedi di un immenso albero, che Patria riconobbe essere una quercia.
Tharazar si fermò accanto a lui, appuntandosi le mani sui fianchi e sollevando lo sguardo verso i rami, alti persino per la sua statura.
«Dobbiamo scalare l’albero?» chiese alle fatine, accennando con una mano verso la chioma della pianta «Si trova lassù il vostro palazzo?».
«Non siamo così volgari da costruire le nostre dimore tra le cime degli alberi, come molti di voi mortali ingenuamente credono» rispose Pluma in tono piuttosto acido e seccato, svolazzando verso un’apertura piuttosto ampia tra due gruppi di grosse radici. Ad un’analisi più attenta, in corrispondenza di quel punto il tronco appariva più liscio e piatto rispetto alla normale superficie cilindrica, persino - e Patria per un momento ipotizzò fosse soltanto una sua impressione - un poco infossato, come se un tempo ci fosse stato incassato qualcosa.
Il Mezzorco assunse un cipiglio corrucciato alla replica della Pixie, evidentemente punto sul vivo dal non proprio implicito insulto insito nell’affermazione. Intrecciò le braccia nerborute e grugnì sommessamente, rimanendo in attesa.
Il resto dei Pixie si unì a Pluma dinanzi alla zona bizzarra della quercia e cominciarono tutti insieme ad intonare una canzone in una lingua che né Patria né Tharazar avevano mai udito prima. Le parole erano musicali e fluide e venivano pronunciate con una cadenza morbida, facendole sembrare ancor più delicate e melodiose.
Tharazar arrossì constatando l’effettiva bravura nel canto di tutti loro e poi paragonandola con il suo pessimo e ridicolo tentativo. Sempre di più si pentiva di aver provato a cantare per la prima volta nella sua vita al di fuori delle confortevoli e sicure mura dei suoi alloggi presso l’Arena di Neverwinter.
Lanciò una breve occhiata a Patria e notò con suo sommo dispiacere la sua espressione quasi rapita dallo spettacolo dei Pixie canterini. Una fitta di gelosia gli trapassò il cuore al pensiero che non lo avrebbe mai guardato alla stessa maniera durante una simile esibizione.
Tornò a concentrarsi sulle fatine, cercando di seppellire il suo odio sempre più spinto per le sue corde vocali del tutto sbagliate. La canzone stava prendendo forza e il ritmo stava accelerando. Attorno ai Pixie iniziarono ad apparire delle luci rosate che presero a danzare nell’aria, formando un cerchio che si allargò sempre di più, allontanandosi da loro e avvicinandosi al tronco della quercia.
Patria ipotizzò si trattasse di un qualche rituale tipico della loro razza per giungere al palazzo, qualcosa di cui soltanto loro erano capaci. Subito dopo il suo cervello realizzò che senza di loro - o meglio, senza il loro consenso - non sarebbero stati in grado di tornare indietro.
«Forse avrei dovuto oppormi a tutto questo» commentò tra sé e sé, improvvisamente assalito da forti dubbi circa la loro deviazione dal viaggio; tuttavia, ormai era troppo tardi per recriminare.
Tutto quel che poteva fare era sperare che così come li stavano accogliendo li lasciassero anche ripartire.
Le luci rosa si allargarono ancora, disponendosi sul tronco a formare un’ellisse piuttosto grande considerata la minuta statura dei Pixie. Poi all’improvviso all’interno della figura il legno si dissolse, lasciando il posto ad un’apertura vuota e nera che pulsava di magia, una sorta di ingresso.
«Da questa parte, mortali» Pluma si voltò a guardare con aria altezzosa i due ospiti rimasti indietro prima di procedere attraverso il varco, senza attendere che altri si facessero avanti.
I Pixie restanti volsero gli sguardi verso i loro ospiti, al che questi ultimi si guardarono a loro volta.
«Be’, suppongo sia inutile temporeggiare» commentò Tharazar, avviandosi spavaldo al portale, che pareva un po’ troppo piccolo per la sua imponente stazza.
Vedendolo muoversi, Patria si riscosse dalla trance in cui era caduto durante il rituale e si affrettò a seguirlo.
Il Mezzorco si fermò dinanzi al varco e si piegò fin quasi a strisciare in ginocchio per riuscire ad infilarsi all’interno.
«Potevate farlo un po’ più alto...» brontolò a mezza voce quando finalmente riuscì ad entrare.
Patria ebbe più problemi con l’armatura che per la stazza, dato che piegarsi con il torso quasi del tutto immobilizzato in un caparace di metallo non era proprio il massimo; tuttavia, riuscì a sgusciare all’interno con molta meno difficoltà del suo compare.
Il Tiefling non aveva mai sperimentato un viaggio tramite portale, per cui si aspettava chissà quale scombussolamento fisico o mentale. Fu piacevolmente sorpreso di constatare che non c’era niente di particolare o più strano del semplice gesto di attraversare una porta. L’unica differenza fu che prima si trovava in una normale foresta e adesso attorno a lui si estendevano piante magiche. Riusciva a percepire il potere che le impregnava e che ne aveva alterato le caratteristiche fisiche come se fosse un’aura visibile e palpabile che le permeava esteriormente.
Patria osservò i tronchi sottili e rosati, circondati da una corolla di radici contorte simili a tentacoli che affondavano nel terreno solo per metà e sormontati da chiome talmente fitte di foglie dai colori innaturali da far scomparire del tutto i rami.
I tronchi erano radi a sufficienza da permettere di vedere in lontananza cosa ci fosse. Si riusciva a scorgere senza problemi una enorme radura illuminata di viola e d’azzurro, ma oltre a ciò niente.
Tharazar era andato avanti di qualche metro e stava osservando uno degli alberi più da vicino.
«Rosa? Perché proprio rosa...?» lo sentì borbottare Patria mentre lo raggiungeva.
«Sono piante infuse di magia. Immagino sia una scelta stilistica del detentore del reame...» intervenne il Tiefling con un sospiro rassegnato, apparendo alle spalle del Mezzorco, facendolo sobbalzare via per lo spavento.
«Pa-Patria! Mi hai fatto quasi morire d’infarto!» gemette il poveretto, portandosi sconvolto una mano sul petto mentre respirava affannosamente «Come hai fatto a raggiungermi così di soppiatto con quell’armatura pesante addosso?!» chiese poi in tono inquisitorio.
L’altro stava per ribattere, scocciato dal suo atteggiamento improvvisamente frivolo, ma si zittì vedendo i Pixie raggiungerli a loro volta.
«Prego, signori ospiti, l’ingresso a palazzo è da questa parte» disse la Pixie bionda, guidandoli.
Attraversarono il rado bosco fatato fino a giungere nella radura avvistata già a distanza da Patria. Arrivando al limitare della stessa, quest'ultimo - e con lui anche il suo accompagnatore - poté constatare che non si trattava tanto di una normale radura quanto piuttosto di un lago interamente abbracciato dalla vegetazione magica. Sul margine dello specchio d'acqua crescevano rigogliosi canneti e tra di essi, ad intervalli regolari, si ergevano enormi fiori dai petali violacei e grossi quanto foglie di palma. Al centro si trovava un singolo e grosso pistillo tondeggiante e rosa che si innalzava al di sopra del resto della pianta per irradiare una forte luce che rischiarava il cielo crepuscolare sopra di loro.
Molto probabilmente il tempo lì scorreva in maniera differente rispetto a quello della loro dimensione, altrimenti non avrebbe saputo spiegarsi come mai fosse già quasi notte se erano partiti in mattinata dal loro accampamento.
Dinanzi a loro si dispiegava un ponte in pietra, sottile e arcuato, che terminava su una piattaforma rotondeggiante che pareva letteralmente poggiata sull'acqua e alla quale giungevano altri tre ponti simili a quello. I due laterali conducevano ad altri punti di arrivo sulle sponde; quello dirimpetto al loro invece terminava in una terrazza che abbracciava la base del più colossale e maestoso albero di mangrovia che Patria avesse mai avuto occasione di vedere nella sua vita.
Le enormi radici percorrevano decine di metri prima di affondare nel lago e il tronco era talmente massiccio da essere stato utilizzato per creare quello che doveva essere il "famoso" palazzo della regina dei Pixie. Nel legno erano state intagliate molte aperture, arcuate e dotate di piccole logge, dislocate su ben tre differenti piani. Il quarto era separato dagli altri da una mensola in pietra - o almeno così pareva da quella distanza - sorretta da escrescenze luminose dell’albero stesso.
Attorno al margine della piattaforma su cui poggiava il piano terra si trovavano delle lanterne fatte esattamente come i pistilli dei fiori sulla riva ed erano già tutte accese, illuminando quasi a giorno la “facciata” del palazzo, al cui interno erano già accese altre luci.
Dall’estremità superiore del tronco partiva un fascio i rami che si apriva ad ombrello per terminare in una chioma di foglie violacee. Altri pistilli pendevano, a varie altezze, dalle fronde più basse.
«È enorme...» commentò Patria, avanzando fino al margine del lago, accecato dalla naturale bellezza di ciò che aveva dinanzi. Non aveva mai visto niente di così armonioso e bello in vita sua. Mai aveva pensato che la civiltà e la natura potessero coesistere in maniera tanto splendida e maestosa.
«Diamine, lo è davvero…!» concordò Tharazar, rimanendo indietro rispetto al suo compagno «… non è un po’ troppo grande per gente delle vostre dimensioni?» domandò poi a voce alta e senza il minimo riserbo, rivolgendosi alla loro scorta.
Pluma non lo degnò di nient’altro di uno sbuffo snob mentre si dirigeva a palazzo, sfarfallando sopra lo specchio d’acqua e rimanendo circa all’altezza del viso del Mezzorco per tutto il tempo.
«Signor musico, questo è il palazzo di Sua Maestà. Non può essere una costruzione che non sia all’altezza della sua persona!» rispose in maniera più garbata la Pixie bionda.
Patria captò un senso nascosto dietro le sue parole, ma non riuscì ad identificarlo del tutto, per cui tacque in merito. Piuttosto, commentò: «Se fosse stato grande quanto loro non credo saresti stato invitato...».
Tharazar colse l’ironia pungente nel suo tono di voce e gli scoccò un’occhiata di blando rimprovero a cui seguì una sommaria scrollata di spalle.
«Un normale palazzo non sarebbe all’altezza delle mie esibizioni!» asserì per tutta risposta «Possiamo andare? La mia arte freme nell’attesa di essere espressa».
La Pixie bionda saltellò attorno al Mezzorco e ridacchiò eccitata.
«Sì, sì, signor musico! Da questa parte...».
Si avviarono lungo il ponte. Soltanto Patria rimase indietro, gli occhi ridotti a due fessure nere come la notte e le labbra serrate in una smorfia di bieco risentimento. Ogni istante che passava lì si pentiva sempre di più di aver acconsentito ad accompagnare Tharazar. Il suo ego smisurato che di recente il Tiefling pareva essere riuscito a domare, adesso era tornato a soverchiare ogni altro lato della sua personalità, tutti migliori e soprattutto più sopportabili.
Come se ciò non fosse abbastanza a far sentire inutile Patria, il Mezzorco pareva talmente abbagliato dai complimenti e dalle moine da travisare completamente lui, quello che lo aveva accompagnato per non meno di un mese di viaggio nel bosco e che gli aveva insegnato a vivere e sopravvivere.
Guardando il suo compagno che si allontanava, Patria fu tentato di girare i tacchi e trovare la maniera di andarsene e lasciarlo al suo “glorioso destino” da musicista in quella dimensione parallela. A fermarlo fu una fitta di gelosia all’idea di rinunciare al Mezzorco e cederlo senza nemmeno uno sforzo a quelle fatine incontrate per caso.
Non sapeva se a Tharazar importava della loro relazione in senso romantico - e Patria arrossì appena nel definirla in quel modo - ma nonostante tutti i suoi dubbi in proposito, non poteva mollare adesso. Non voleva farlo.
Tharazar gli avrebbe dato una risposta. Doveva farlo e finché non lo avesse rifiutato non lo avrebbe lasciato andare per niente al mondo.
Rinnovato nelle sue convinzioni, il Tiefling si affrettò a raggiungere gli altri prima che si allontanassero troppo. Correndo sulle pietre del ponte, i suoi zoccoli producevano un rumore secco ed echeggiante che non poteva passare inosservato in alcun modo, ma in quel momento non gliene importava. In altre circostanze si sarebbe fermato o avrebbe cercato di camminare con passi più leggeri, ma non adesso, con Tharazar che veniva letteralmente sedotto dai complimenti dei Pixie.
Riuscì a raggiungerlo quando ormai erano sulla cresta del ponte e lesto si mise al suo fianco, la coda lunga e glabra che frustava nervosamente l’aria.
Continuava a non essere considerato, a giudicare da come l’altro stava ancora parlottando con la fatina bionda. Patria digrignò i denti, esibendo un breve scorcio della doppia fila armi affilate come rasoi che di solito cercava di nascondere dietro le labbra.
Gli dava fastidio essere ignorato in maniera così palese. Non riusciva a sopportarlo. Era più forte di lui, doveva fare qualcosa.
Prima che la sua mente riuscisse a fermarlo, il suo corpo agì, impulsivamente: Patria sollevò una mano e la portò dietro la schiena di Tharazar, verso il suo culo e ne palpó una chiappa.
Il Mezzorco percepì distintamente il tocco del Tiefling e la cosa lo colse talmente di sorpresa che volse lo sguardo a Patria, evidentemente confuso, e si arrestò di colpo dove si trovava, all’inizio della parte in discesa del ponte.
«Ah! Si è accorto!» gioì tra sé e sé Patria; tuttavia, nella sua euforia non registrò il fatto che l’altro si fosse fermato. Non aspettandosi una reazione così drastica, la mano che aveva saldamente stretto attorno alla sua natica lo trattenne dal proseguire. Peccato che avesse già messo avanti lo zoccolo e che la pietra fosse in discesa.
Il contraccolpo fece sì che lo zoccolo slittasse sul selciato e gli facesse perdere l’equilibrio. Cadde all’indietro, ma i riflessi di Tharazar furono così rapidi che riuscì a chinarsi ed afferrarlo prima che colpisse col fondoschiena il ponte.
Benché fosse appesantito dal metallo dell’armatura, il Mezzorco lo rimise in piedi con impressionante facilità, restando in piedi dirimpetto a lui. Le sue mani rimasero poggiate sui fianchi snelli di Patria mentre i loro sguardi si incrociavano.
Il cuore del Tiefling cominciò a martellare nel suo petto come se volesse uscire. Era come paralizzato, con ancora una mano attaccata al culo del Mezzorco.
«Bacialo! È il momento giusto! Dovrà dire qualcosa se lo fai, forza!» fu il pensiero che invase la mente di Patria pressoché subito.
Prima che il suo corpo potesse muoversi e le sue labbra annullare la breve distanza che le separavano da quelle di Tharazar, quest’ultimo parlò: «Questi incidenti non capitavano a me di solito...?».
Le sue parole, seppur pronunciate con tono suadente, giunsero a Patria come una secchiata d’acqua gelata. Qualsiasi tipo di pensiero o di predisposizione romantici nei suoi confronti finì nel dimenticatoio, soverchiati e rimpiazzati completamente da rabbia e risentimento.
Tharazar ebbe pure la faccia tosta di sorridergli con fare seducente, ma ormai il danno era fatto, pur non sembrandone consapevole. Il Tiefling serrò con forza le labbra e il suo sguardo cambiò drasticamente in un battito di ciglia.
Sollevò uno zoccolo e calpestò con violenza un piede al Mezzorco, strappandogli un grido di dolore. Gli lasciò la natica e riprese ad avanzare con cautela ma decisione.
«E allora continua a fare attenzione a dove metti i piedi!» esclamò a voce alta e irritata, quasi urlando, passando in testa al gruppetto.
Tharazar saltellò sul posto, mordendomi il labbro inferiore e sollevando lo stivale in modo da poter arrivare a toccarsi il piede dolorante. Per fortuna aveva abbastanza equilibrio in quel momento da non finire col culo per terra.
Osservò la figura di Patria che si allontanava attraverso un leggero velo di lacrime, che cercò di ricacciare virilmente indietro.
«Ma che ho detto di sbagliato?!» si chiese, stupito dalla sua reazione. Sarebbe dovuto arrossire e poi avrebbe dovuto abbracciarlo o addirittura baciarlo. Era un’occasione perfetta per farlo!
«Forse non se la sente di baciarmi con degli spettatori… è così timido...» pensò poco dopo, sospirando sonoramente.
Di nuovo percepì l’impellente bisogno di coccolare Patria, proprio come era accaduto alla locanda, ma al contrario di allora stavolta riuscì a trattenersi. Le condizioni non erano le più adatte per un simile sviluppo.
Visti i palesi problemi che il Tiefling manifestava di continuo nell’esternare i suoi sentimenti con lui, Tharazar si chiese se non avesse dovuto fare di nuovo lui la prima mossa. Forse in tal caso sarebbe riuscito a dargli una spinta nella giusta direzione.
«In fin dei conti, non è la prima volta che metto in soggezione qualcuno… anche se di solito sono membri del gentil sesso...» ponderò tra sé.
La Pixie bionda arrivò in volo verso di lui, posandosi sulla sua coscia piegata orizzontalmente in avanti, interrompendo il filo dei suoi pensieri. Dalla sua espressione pareva particolarmente preoccupata per lui.
«Signor musico, vuole che faccia scortare via il suo compagno?» chiese, cogliendo alla sprovvista il Mezzorco con un tono di voce piuttosto duro.
Il diretto interessato la guardò per un istante, muto e attonito, prima di rispondere con un frettoloso: «Nono! Ci mancherebbe, non farlo. Non è successo niente di così grave...».
Si ricompose alla svelta al meglio che poté prima di riprendere a camminare, cercando di ignorare il dolore e di non zoppicare, nemmeno velatamente.
Non voleva che Patria si perdesse la sua esibizione. Desiderava con tutto se stesso che fosse nel pubblico e che saziasse il suo sguardo con la sua impeccabile performance. Voleva che lo sentisse suonare e che si rendesse conto di quanto fosse realmente bravo.
Doveva vederlo suonare il suo violino, sentire di cosa erano capaci le sue mani. Era convinto che dopo il suo spettacolo si sarebbero riavvicinati e forse sarebbe addirittura riuscito a spingere Patria a rivelare apertamente i suoi sentimenti.
Arrivarono finalmente alla piattaforma principale, irradiata dalle luci dei “lampioni” floreali e da quelle provenienti dalle finestre e dalla porta del palazzo.
Non servì molto affinché i due nuovi arrivati si rendessero conto del fatto che non esistevano vetri a protezione dell’interno del palazzo. Ogni apertura nel tronco era vuota e - almeno a livello teorico - utilizzabile come ingresso. Le fatine li condussero a quella centrale, più ampia delle altre, tanto che persino Tharazar coi suoi due metri d’altezza riuscì ad attraversarla senza dover neppure abbassare il capo.
L’atrio era una sala enorme di forma circolare, con le pareti curve che terminavano in una cupola. Il legno - bianco e quasi confondibile con la pietra - era stato intagliato in un elegante motivo floreale in cui erano anche state incastonate numerose pietre preziose al posto dei petali disegnati. Al centro del soffitto era appeso un grande lampadario di cristallo con molteplici braccia foggiate a mo’ di steli. Le basi per le piccole sfere di luce magica erano fiori colorati e parevano acuire la già strabiliante capacità dei globi di sprigionare luce.
Lungo le pareti si trovavano statue di creature della foresta di svariate taglie. Una grandiosa scalinata conduceva ad un soppalco con ringhiera.
Una solitaria figura attendeva con i gomiti puntellati su di essa, snella ed eterea nella sua esotica bellezza. Si trattava di una donna longilinea, coi capelli di un biondo talmente chiaro da apparire quasi bianchi, lunghi fino alle caviglie e liscissimi. Aveva gli occhi a mandorla azzurri come il cielo delle limpide mattine invernali e il viso affusolato con il mento appuntito e gli zigomi alti, quasi nobili. Il tratto peculiare del suo volto era il fatto che gli occhi fossero sproporzionati rispetto al nasino all’insù e alle labbra sottili, talmente grandi da catalizzare totalmente l’attenzione quando i due nuovi arrivati li incrociarono.
Il suo incarnato era candido come la neve. Pur essendo snella, i fianchi e il seno parevano particolarmente accentuati nella sua figura. Indossava un lungo abito lilla con un corpetto ricamato in pizzo che metteva in risalto la sua vita stretta e la gonna a sirena ricoperta di brillantini. Le maniche erano semitrasparenti, cucite solo all’altezza delle ascelle al resto dell’abito e con le estremità talmente ampie da arrivare a sfiorare il pavimento, proprio come l’orlo della gonna.
La particolarità che colpì particolarmente i due ospiti fu che la sconosciuta era alta quasi quanto Patria, pur dando l’impressione di essere una Pixie a tutti gli effetti.
Inizialmente pareva annoiata; tuttavia, si raddrizzò immediatamente alla vista di Patria e Tharazar, e la sua espressione divenne carica di eccitazione in un lampo.
Unì le mani sottili con fare deliziato e si affrettò a precipitarsi giù dalle scale. I capelli svolazzavano come un mantello a mezz’aria mentre si muoveva. I suoi passi svelti sui gradini produssero il rumore tipico dei tacchi, inconfondibile alle orecchie del Mezzorco dato che ne aveva utilizzati anche lui in passato.
«Finalmente siete arrivato, signor musico!» esclamò con la sua soave voce femminile e delicata, simile ad una carezza invisibile «I miei sudditi avevano annunciato il vostro arrivo con tale entusiasmo…!».
Doveva essere la regina che li aveva invitati, non c’erano dubbi.
Tharazar mosse un passo verso di lei e fece per inchinarsi galantemente al suo cospetto ma la donna gli passò davanti senza degnarlo della benché minima attenzione, dirigendosi invece verso Patria.
Gli si fermò davanti e gli prese entrambe le mani tra le sue, guardandolo in viso con espressione carica di trepidazione.
Tharazar aggrottò le sopracciglia, offeso dall’essere stato ignorato in maniera tanto plateale. Che quei due si conoscessero già…?
Per la prima volta in vita sua, il Mezzorco si sentì trafiggere da un sentimento che era al tempo stesso di possessività nei confronti di Patria e di pura rabbia per lei.
La sua mente gli imponeva di correre a separarli e mettere in chiaro che c’era lui assieme al Tiefling in quel momento e che nessuna poteva mettergli i piedi in testa; tuttavia, il suo corpo rimaneva rigido nella sua postura da inchino.
Non doveva mancare di rispetto, altrimenti sarebbe andata in fumo la sua unica possibilità di potersi esibire per qualcuno di importante e forse riuscire a guadagnarsi di nuovo un posto nell’alta gerarchia sociale, ristabilendo la sua precedente condizione agiata.
Serrò la mandibola con forza, cercando di rimanere in silenzio.
«Non immaginavo che adesso servisse indossare un abbigliamento tanto resistente, signor musico! Nella dimensione mortale non apprezzano la buona musica?» esclamò la donna con aria perplessa.
Patria, inizialmente confuso dalle attenzioni della femmina, spalancò gli occhi realizzando il suo ingenuo errore. La loro scorta pareva essersi dileguata appena varcato l’ingresso - e lui se ne era accorto soltanto allora - per cui non c’era nessuno che potesse correggerla senza rischiare di sembrare scortese.
Nessuno eccetto lui… e Tharazar.
Il Tiefling ebbe soltanto un istante per lanciare un’occhiata allarmata al suo compagno prima che quest’ultimo si ergesse in tutta la sua notevole altezza con uno scatto colmo di stizza.
Era riuscito a contenere l'impulso di allontanare quella donna da Patria, con incredibile sforzo di autocontrollo, ma a quelle parole doveva reagire.
«Sono io il "signor musico" che aspettava!» esclamò irritato, sollevando il mento con un lampo di sfida negli occhi azzurri.
Patria poté giurare di vedere il suo labbro inferiore vibrare appena in un ringhio sommesso e a stento trattenuto. Era consapevole del suo egocentrismo e del suo narcisismo e sospettava che lo scambio di persone avrebbe potuto alterarlo, ma non pensava che avrebbe reagito in maniera tanto impulsiva e stupida.
Con la sua avventatezza rischiava di mettere entrambi nei guai.
La donna si volse a guardarlo con le sottili sopracciglia arcuate in un'espressione di ingenua sorpresa. Evidentemente non si aspettava che parlasse.
Prima che la situazione capitolasse del tutto - Tharazar aveva intrecciato le braccia sul petto e pareva aspettarsi delle scuse nell'immediato - Patria parlò: «Mi dispiace che ci sia stato un equivoco... io non so suonare. Né cantare. È lui che i... vostri sudditi... hanno scortato alla vostra presenza».
Sperava di essere riuscito a suonare abbastanza educato e convincente: a giudicare dal suo sguardo, pareva restia a reputare Tharazar in grado di suonare, per qualche motivo che a lui sfuggiva completamente.
La regina passò rapidamente lo sguardo tra i due maschi per qualche secondo, confusa, come se si aspettasse che da un momento all'altro uno di loro decretasse riuscito un qualche scherzo. Il suo atteggiamento indispose il Mezzorco a tal punto che emise un sordo ringhio con la gola che parve quasi riecheggiare nel silenzio che era calato sul terzetto.
Il Tiefling avrebbe desiderato essergli accanto per assestargli un'altra poderosa zoccolata sui piedi. Si stava comportando di nuovo come un ragazzino viziato e capriccioso. Aveva data per superata quella fase a seguito della dura esperienza nei boschi, ma evidentemente non era così. Avrebbero dovuto lavorarci ancora, se fossero usciti indenni dalla corte dei Pixie, obiettivo verso il quale il Mezzorco non stava contribuendo affatto.
Dopo quella che parve un'eternità, la regina lasciò andare le mani di Patria per andare incontro a Tharazar.
«Mi scuso per il fraintendimento, signor musico! È così... raro... che un talento come quello che mi è stato descritto sbocci tra quelli della sua razza...» esclamò la Pixie, chinando appena il capo dinanzi al diretto interessato.
Patria fremeva, ormai rimasto in disparte: era palese che, pur essendo la sovrana, non fosse avvezza a misurare le parole quando parlava. Di sicuro i suoi sudditi non recriminavano in sua presenza nemmeno dopo essere stati insultati; tuttavia, ciò non era applicabile ad ospiti provenienti "dall'esterno".
Doveva però ammettere che quello era l'insulto più vezzoso e cortese che avesse mai sentito pronunciare in vita sua.
Lesse l'indecisione negli occhi e nell'atteggiamento di Tharazar. Sembrava combattuto e al suo compagno non fu difficile immaginare il tipo di scontro interiore cui era sottoposto in quel momento. Sperava soltanto che vincesse il suo buonsenso, se ne aveva.
Ad alleggerire la tensione tra i due ci pensò lo stomaco del Mezzorco, che si produsse in un rumoroso brontolio che lo fece diventare paonazzo in viso.
Patria sospirò e si colpì il viso con il palmo della mano, esasperato: se ancora la regina non era del tutto convinta dei suoi pregiudizi nei confronti dei Mezzorchi, sicuramente la cosa avrebbe spazzato via ogni dubbio in merito.
Tharazar arretrò di mezzo passo, portandosi una mano all'addome per riflesso, quindi esclamò: «Volete che mi esibisca subito... sì?».
Dal tono pareva che la stesse supplicando di farlo suonare... e in effetti era proprio così. Incapace di trovare un valido argomento su cui vertere la discussione per distrarre la regina dall'imbarazzante brontolio del suo stomaco vuoto, Tharazar sperava di poterle dimostrare il suo valore senza che la sua attenzione indugiasse su questioni di minor conto.
La regina lo fissò in silenzio per qualche secondo - e il diretto interessato pregò che il suo stomaco tacesse per non peggiorare ancora la situazione - e infine si pronunciò: «Oh, sì signor musico. Si esibisca... oh, ma non qui!».
La Pixie saltellò al fianco del Mezzorco e si aggrappò senza alcun riserbo al suo braccio, attirandolo verso di sé per avere una presa migliore, quindi si guardò attorno come se si aspettasse di trovare qualcuno che però non c'era.
«Pluma? Pluma! Dove sei finita?!» chiamò in tono contrariato «Vieni subito qui!».
Dalla sommità delle scale giunse in volo l'antipatica fatina che li aveva accompagnati fin lì. A giudicare dall'occhiata astiosa che rivolse al braccio del Mezzorco intrappolato tra gli arti snelli della sovrana, non pareva molto contenta di come si era sviluppata la situazione.
«Sì, Vostra Altezza...?» chiese con voce fastidiosamente carezzevole. Si sentiva quanto finto fosse il suo comportamento servizievole, anche se non si poteva sapere se era solo una cosa temporanea per la presenza di ospiti o se fosse sempre tale.
«Chiama a raccolta gli altri cortigiani, che si radunino tutti nella sala da pranzo! Il signor musico si esibirà a breve» comunicò la sovrana, emozionata lei stessa dalla notizia che aveva appena dato.
«Subito Maestà» annuì la suddita, facendo per svolazzare via.
«E... Pluma?» la bloccò ancora la regina, lanciando un'occhiata a Tharazar rapida e divertita «Dai l'ordine che la cucina prepari un buon pasto per i nostri ospiti... il signor musico è affamato».
Patria vide chiaramente le guance del Mezzorco diventare di un grigio così scuro da sembrare quasi nere mentre arrossiva, all'apice dell'imbarazzo. Pluma gli rivolse a sua volta uno sguardo, anche se nel suo si leggeva sarcasmo e scherno allo stato più puro.
«Come desiderate» disse quest'ultima, prima di inchinarsi profondamente e poi volare via al piano superiore.
La regina sospiro, estasiata, stringendosi appena al massiccio braccio muscoloso di Tharazar. A Patria parve per un istante che stesse quasi palpandogli l'avambraccio, valutando la sua fisicità.
«Possiamo andare, signor musico. Da questa parte».
Così dicendo guidò la coppia di ospiti su per i gradini. Il Tiefling seguiva in silenzio, osservando i due davanti a lui con una punta di divertimento: il suo compagno non pareva molto a proprio agio in quel frangente, nonostante le attenzioni fossero tutte per lui.
Pur non essendo Patria di indole malevola né incline ai dispetti, si sentiva gratificato dalla scena ed era curioso di vedere lo svilupparsi degli eventi.
Se da parte del Tiefling c'era del genuino divertimento, da parte del Mezzorco c'era prevalentemente ansia da prestazione, con incredibile sorpresa del diretto interessato stesso.
Non si era mai sentito tanto agitato prima di una esibizione, nemmeno quando attendeva il suo turno di uscire in arena, a Neverwinter. Non riusciva a spiegarsi l'improvviso desiderio di essere da tutt'altra parte, in mezzo al bosco dei comuni mortali in compagnia di Patria, troppo impegnati nel viaggio e nel non finire invischiati in paludi malsane e tra i rampicanti velenosi per consentirgli di esibirsi.
«Stai reagendo in maniera esagerata» si disse, cercando di allontanare l'inquietudine «Ti sei esibito in posti grandi il doppio di questo e sei stato fantastico! Andrà alla grande, la regina impazzirà per te! Avrai la corte intera ai tuoi piedi!».
«Signor musico, non vi sentite bene? State tremando...».
Il commento della regina penetrò oltre il guscio che Tharazar aveva inconsapevolmente eretto a sua stessa protezione, estraniandosi del tutto dalla realtà che lo circondava. Si riscosse come da un sonno durato troppo poco e abbassò lo sguardo sulla femmina appesa al suo braccio, che lo guardava con espressione preoccupata.
Patria taceva ma seguiva la vicenda, improvvisamente allerta. Non era normale che il suo compagno tremasse in quel modo, né che apparisse così visibilmente agitato.
Si sentì di colpo inutile, non potendogli stare al fianco in quel momento; tuttavia, era pronto ad intervenire a sostegno del Mezzorco se lo avesse reputato indispensabile.
«Per gli Dei, quanto mi ha cambiato conoscerlo...!» sospirò, rassegnato all'idea di non essere più in grado di ignorare i suoi problemi.
Tharazar cominciò a balbettare senza riuscire a comporre una parola di senso compiuto per diversi secondi. Gli occorse un poco prima di poter dire: «E-ehm... può chiamarmi Tharazar... e darmi del "tu"».
Era palese che la risposta fosse incongruente con la domanda che gli era stata posta. Non serviva un genio per capirlo e persino uno sconosciuto di passaggio si sarebbe reso conto della cosa. Patria aggrottò le sopracciglia, insospettito dallo strano atteggiamento. Doveva esserci qualcosa che gli ronzava nella testa, ma allo stato attuale non era in grado di indovinare di cosa si trattasse.
Inspiegabilmente, fu il solo a manifestare perplessità e interesse per la bizzarra circostanza: la regina rimase a fissare il suo accompagnatore per qualche secondo ancora, prima di scoppiare a ridere in maniera leziosa.
«Va bene, Tharazar» disse, continuando a camminare, stringendosi ancora un poco al suo braccio.
Attraversarono un lungo corridoio illuminato a giorno da altre lampade a tema floreale, stavolta disposte sulle pareti ed intervallate da quadri che ritraevano paesaggi boschivi in varie ore del giorno.
Giunsero infine in una ampia sala con un lungo tavolo posizionato al centro, con tre candelabri dorati sopra di esso e circondato da un'infinità di sedie dallo schienale alto, anch'esse dorate. Un'altra porta a doppio battente si apriva nella parete alla sinistra rispetto a quella da cui entrarono. Un lampadario gigante - molto simile a quello nell'atrio - pendeva dal soffitto, ed era già ovviamente acceso. Per il resto la stanza era del tutto vuota.
«Quanto incredibile spreco di spazio...» fu il primo pensiero di Patria quando vide il posto.
La regina si staccò finalmente dal braccio del Mezzorco per correre verso il tavolo. Andò a sedersi su una delle sedie a metà del lato più lungo e rivolse un'espressione di trepida aspettativa al suo ospite.
«I miei sudditi hanno intessuto lodi per ore riguardo la tua musica, Tharazar. Ti prego, suona» lo esortò.
Come in risposta ad un segnale tacitamente convenuto, la porta che fino ad allora era rimasta chiusa si aprì e la sala si riempì di Pixie, che andarono ad allinearsi ordinatamente alle spalle della loro sovrana. Piccoli come erano, nessuno di loro era in grado di occupare le sedie vuote del tavolo, per cui rimasero a mezz'aria, in attesa. Lo sfarfallare sommesso delle loro alette riempì l'altrimenti vuoto silenzio che era calato sulla sala.
Tharazar era ancora fermo pochi passi oltre la soglia da cui era entrato, immobile. L'improvvisa manifestazione di una platea così grande e fornita lo aveva destabilizzato in maniera del tutto nuova per lui.
«Forza! Che aspetti? Suona!» gridava la sua coscienza, eppure non riusciva a muoversi da dove si trovava. Era come paralizzato.
In fin dei conti era una regina, e quello era un palazzo reale, che per di più si trovava in un reame a sé stante. Poteva la sua musica essere davvero apprezzata...?
Vedendolo in chiara difficoltà, Patria agì d'impulso: gli si fece dappresso alle spalle e gli diede una leggera gomitata nel fianco. Non sapeva bene nemmeno lui che cosa gli stesse succedendo, ma non lo avrebbe lasciato da solo a fare la figura dell'inetto.
Non quando sapeva che era in grado di affrontare egregiamente la situazione.
«Be', che aspetti? Vogliono sentirti suonare» gli sussurrò all'orecchio, incitandolo a farsi avanti «Fagli vedere di cosa è capace Tharazar il Magnifico, Signore dell'Arena di Neverwinter...!».
Sentirsi chiamare con il suo titolo completo scosse il Mezzorco dalla trance in cui era caduto.
Patria aveva ragione. La sua arte non aveva niente di cui vergognarsi al cospetto dei Pixie. Sarebbero stati loro ad inchinarsi dinanzi alla sua bravura.
L'adrenalina degli istanti che precedevano gli scontri in arena tornò ad invaderlo, dandogli un assaggio nostalgico del suo glorioso passato. Con le spalle diritte e l'espressione fiera, Tharazar guadagnò il centro della metà di sala rimasta vuota, evidentemente per fargli da palcoscenico.
Dinanzi alla sua reazione positiva, Patria annuì soddisfatto e si fece da parte, muovendosi vicino la parete per aggiungersi al nutrito gruppo di spettatori in tacita attesa.
Era orgoglioso di essergli stato d'aiuto, sebbene trovasse bizzarro il suo comportamento e intuisse che c'era bisogno di lavorare più in profondità per eradicare il problema. Lo avrebbe fatto in un altro momento, quando Tharazar fosse stato libero.
Quest'ultimo si mise in posizione e squadrò il suo pubblico. Sembravano tutti ansiosi di sentirlo suonare e lui fremeva d'impazienza.
Visto che doveva essere uno spettacolo magistrale, accarezzò l'idea di utilizzare il suo violino. La pratica fatta nelle ultime notti solitarie lo rendeva abbastanza confidente nelle sue capacità; inoltre, quello era il suo strumento preferito, nonché quello con cui si era esercitato maggiormente in passato.
Si era quasi convinto ad estrarlo quando il suo sguardo cadde su Patria, e il suo desiderio si sbriciolò come un castello di sabbia sotto le onde del mare. Gli tornarono in mente i suoi dubbi in merito alla sua passione segreta per quello strumento, il tormento della sua adolescenza riguardo la poca virilità del violino. A quei pensieri si aggiunsero frammenti dell'ormai lontana sera in cui lui e Patria si erano conosciuti, quando sotto l'attacco di un branco di lupi aveva cercato di ispirare il suo compagno cantando. Ricordò la sua pietosa performance, le sue maledette corde vocali che vibrando intonavano una nenia con una voce da donna che continuava a perseguitarlo. Patria stesso l'aveva deriso per quello, apertamente e senza vergogna.
«E se facesse lo stesso vedendomi impugnare il violino...?».
La domanda affiorò spontanea e ineluttabile nella sua mente e la mancanza di una risposta certa e rassicurante lo spinse inesorabilmente ad estrarre dal suo zaino l'ormai familiare e poco appariscente fisarmonica.
Stringendola tra le mani non avvertì la sensazione di libertà che percepiva mentre prendeva tra le dita il suo archetto. Quando l'avvicinò alle labbra non percepì la stessa gioia che udiva nelle tremule note d'apertura dei suoi brani da violino.
Sul suo petto gravava il fardello del segreto che si imponeva di trasportare. Suonava, eppure sentiva che la musica non aveva la stessa magnifica intensità dei pezzi che eseguiva quando era da solo e si concedeva di esibirsi con il suo strumento.
Era come se la sua mente, la sua coscienza, stessero assistendo al suo stesso spettacolo separate dal suo corpo.
La melodia era bella, gli accordi perfetti, il ritmo corretto. Eppure percepiva distintamente l'abissale differenza tra quella performance e ciò che riusciva a realizzare quando si esibiva per se stesso. Vedeva in modo chiaro come i suoi movimenti fossero rigidi e studiati per dare l'impressione di qualcuno che stava eseguendo un brano con passione.
Patria lo aveva già visto e sentito esibirsi con la fisarmonica. Lo strumento in sé non dava grandi aspettative: lui stesso lo aveva sottovalutato. A giudicare dalle espressioni stupite e deluse dei Pixie, anche loro non nutrivano grandi speranze per uno spettacolo fatto con uno strumento così piccolo e insignificante.
Proprio come era accaduto con lui, Tharazar riuscì a sorprenderli con la sua abilità. Patria vide il cambiamento nel pubblico man mano che la musica incalzava e il ritmo cresceva. A suo parere era un'abilità rara quella di essere in grado di suonare così egregiamente qualcosa di tanto banale come una fisarmonica, a maggior ragione avendo lo "svantaggio" di uno strumento non proporzionato alla propria stazza.
Le grosse dita del Mezzorco si muovevano agili sull'oggetto e la sua notevole capienza polmonare gli consentiva di eseguire lunghi spezzoni di musica senza doversi interrompere.
Ogni volta che Patria lo sentiva suonare gli sembrava più bravo della volta precedente, anche se non glielo aveva mai detto per non fargli montare troppo la testa.
«Forse per oggi potrei fare un'eccezione...» ponderò tra sé, immaginando che dei complimenti fossero ben graditi, specialmente dopo la sua piccola paralisi subito prima di cominciare.
Al termine dell'esibizione, Tharazar inspirò a fondo e rivolse un'occhiata al suo pubblico.
«È andata...!» commentò tra sé e sé mentre sorrideva, per poi profondersi in un inchino.
Nella sala esplose una pioggia di applausi e benché l'artista non fosse del tutto soddisfatto della sua performance, l'ovazione generale contribuì a migliorargli sensibilmente l'umore. Vide che anche Patria prese parte alla cosa e ciò gli fece particolarmente piacere, tanto da strappargli un ulteriore sorriso, più sincero del precedente.
Dopo quasi un minuto intero di caos, la regina si alzò in piedi e tutti tacquero di colpo. Pareva raggiante in viso e quando parlò la sua voce suonò più acuta di un paio di note.
«Caro Tharazar! I complimenti e la descrizione della tua musica fatta dai miei sudditi la scorsa notte impallidisce dinanzi a questa esibizione superba! Ti prego di rimanere qui come mio graditissimo ospite per i giorni a venire... insieme alla tua scorta, ovviamente!» esclamò, e senza aspettare risposta aggiunse «Desiderio che tu ti esibisca ancora alla festa che si terrà qui questa notte. Tutti i Pixie del reame devono sentire la tua splendida musica!».
Patria sgranò gli occhi alla sua richiesta e guardò verso Tharazar. Non immaginava che l'esibizione potesse andare così bene da doversi trattenere lì ancora, per dei giorni oltretutto. Aveva confidato in qualcosa di molto più rapido.
Vide l'espressione sul viso del suo compagno di viaggio, un misto tra stupore, orgoglio e arroganza, e seppe già che tipo di risposta aspettarsi da lui.
«Sono onorato di potermi esibire ancora per voi» disse il Mezzorco, esattamente come Patria aveva previsto.
La regina batté le mani, eccitata e soddisfatta.
«Perfetto... perfetto! Assolutamente perfetto!» esclamò con voce ancora più acuta «Che i camerieri portino il cibo! Tharazar deve essere in forze per... questa sera».
La breve pausa che precedette le ultime parole della regina suonarono in qualche modo sospette alle orecchie di Patria, come se ci fosse qualcosa di nascosto nel loro significato.
Non ebbe molto tempo per rifletterci sopra: dopo pochi secondi vide arrivare verso di lui il Mezzorco, sorridente e soddisfatto. Pareva più rilassato e tranquillo rispetto a prima.
«Sei stato bravo» si complimentò il Tiefling brevemente, accennando un sorriso incoraggiante. Non era molto bravo con le parole e non avrebbe saputo da che parte iniziare per fargli degli elogi elaborati e prolissi come quelli della regina.
Tharazar sorrise ancor di più e gli batté una pacca sulla spalla.
«Anche stavolta vitto e alloggio li offro io» commentò l'altro in tono allegro «Andiamo a sederci?».
Patria si irrigidì leggermente ma annuì, seguendolo presso il tavolo mentre i cortigiani si dileguavano dalla sala alla stessa velocità con cui erano sciamati all'interno.
Non voleva rovinargli il momento dicendogli che non voleva rimanere lì troppo a lungo, che per lui "i giorni a venire" erano un lasso di tempo esagerato da trascorrere in quel reame parallelo al loro.
«Potrò parlargliene più tardi, immagino...» si disse, per cercare di placare almeno temporaneamente la sua crescente inquietudine «Almeno ogni tanto ci pensi tu a provvedere» esclamò invece a voce alta, accomodandosi al suo fianco.
Non passò molto tempo prima che le porte della sala da pranzo si aprissero di nuovo, stavolta per far entrare file di carrelli d'oro e d'argento di dimensioni adeguate a quelle della regina e dei suoi ospiti, recanti delle cloche e spinti da schiere di piccoli Pixie in uniforme da camerieri.
Era incredibile la forza fisica di cui erano dotati quegli esseri minuscoli per essere in grado di far muovere qualcosa di così più grande paragonato a loro.
Una volta fatti entrare tutti i carrelli - che erano piuttosto numerosi - i Pixie si divisero in gruppetti per sollevare le varie cloche da sotto il vassoio e spostarle sul tavolo. Doveva essere un lavoro routinario data la precisione e la rapidità con cui riuscirono ad organizzare la tavola, occupando la maggior parte dello spazio a disposizione senza che niente andasse sovrapponendosi o urtandosi. Era una sorta di danza ipnotica e Tharazar e Patria si persero ad osservare i piccoli camerieri che li servivano silenziosamente.
La regina pareva abituata allo spettacolo e non li degnò di alcuna attenzione, rimanendo concentrata a guardare il suo ospite musicista con espressione intenta, soppesando con cura ogni centimetro del suo corpo.
Quando tutto fu predisposto, i Pixie si redistribuirono sopra ad ogni cloche e ne afferrarono l’impugnatura rotonda, rimanendo immobili in posizione, pronti a tirare. Trascorsero così alcuni secondi. Tharazar moriva dalla voglia di sapere cosa ci fosse da mangiare e non pareva incline a voler attendere ancora. In quel momento di quiete assoluta, i suoi occhi cominciarono a muoversi freneticamente da una cloche all’altra, nella speranza che una qualsiasi si alzasse.
Patria notò l’impazienza del compagno ma rimase fermo e silenzioso, pensando che fosse una qualche usanza della padrona di casa.
Quest’ultima all’improvviso sollevò un braccio e, come un unico essere composito, la squadra di camerieri alzò le cloche.
Se lo stomaco di Tharazar avesse potuto parlare, probabilmente in quel preciso istante si sarebbe messo a cantare: le pietanze che erano state posizionate di fronte a lui e al suo compagno avevano un aspetto e un profumo così invitanti che non riusciva a credere che fossero reali.
Patria vide il suo viso illuminarsi di colpo e la sua espressione caricarsi di incredulità. La cosa gli diede non poco fastidio considerato che quando era lui ad occuparsi del cibo non guardava i pasti nello stesso modo.
C’era carne, pesce e verdure, cotte e tagliate per tutti i gusti. Patria non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva visto tante svariate pietanze riunite insieme.
«Spero il pasto sia di vostro gradimento» disse la regina, iniziando a servirsi da una zuppiera di insalata «Buon appetito!».
«Se… vuoi non ho… nessun problema ad assicurarmi che le tue porzioni non siano avvelenate...» commentò Tharazar, sporgendosi verso l’orecchio del partner perché solo lui cogliesse le sue parole.
Il diretto interessato gli scoccò un’occhiataccia e lo respinse con una spallata.
«Taci e mangia!» sibilò, cominciando a riempirsi il piatto, visibilmente a disagio.
Era abituato a guardarsi bene dal mangiare cibi preparati da altri. Nella sua infanzia aveva subito più di un tentativo di avvelenamento in quel modo e adesso tendeva a non fidarsi, preferendo prepararsi da solo di che mangiare.
In quella particolare circostanza, benché con uno sforzo notevole, Patria decise di cercare di ignorare le sue paure soltanto per non dare a Tharazar la soddisfazione di sentirsi indispensabile per lui.
Dinanzi alla sua risposta piccata, il Mezzorco lo guardò con cipiglio stranito prima di dedicare tutta la sua attenzione a riempirsi il piatto e lo stomaco.
Reduce da un periodo piuttosto lungo in cui aveva dovuto sopperire alla fame con ciò che il bosco metteva a disposizione a Patria, trovarsi di fronte ad un così vasto assortimento di carne fu come entrare in paradiso. Il suo lato più orchesco era al settimo cielo.
In men che non si dica il suo piatto straripava di porzioni divelte dai vari vassoi e quel che non riusciva ad infilare col resto lo mangiava direttamente dalla fonte, salvo poi realizzare che era più pratico occuparsi di ciò che aveva accumulato nel piatto anziché sporgersi verso i vari vassoi e mangiare tenendo i bocconi infilzati a mezz’aria.
Pur strappando grossi morsi qua e là e svuotando rapidamente le brocche di acqua e di vino che vennero posizionate in un secondo momento, Tharazar mantenne un certo decoro nel comportamento. Cercava di schizzare il meno possibile, utilizzava le posate per tagliare ogni cosa - eccetto i pezzi di volatili, che maneggiava senza utensili - e masticava rigorosamente a bocca chiusa.
La regina sbocconcellava con delicatezza le verdure e, in paragone con il suo ospite musicista, sembrava quasi che non mangiasse affatto.
Patria dal canto suo stava affrontando il pasto con una notevole dose di apprensione. Non voleva risultare offensivo per la regina e aveva effettivamente appetito; tuttavia, il fatto di non voler chiedere a Tharazar di fargli da assaggiatore ufficiale lo stava mandando in paranoia. Ogni boccone che inghiottiva temeva che potesse essere l’ultimo della sua vita e questa ansia si rifletteva chiaramente nel suo atteggiamento nervoso e nei movimenti bruschi.
Ciononostante, era determinato a mangiare da solo, anche a costo di farsi venire una crisi di nervi.
Il pranzo fu piuttosto lungo considerato il numero di portate presenti a tavola. Patria e la regina terminarono per primi, lasciando a Tharazar tutto il tempo che gli occorreva per rifocillarsi.
Quando il Mezzorco si reputò sazio, si abbandonò contro lo schienale con espressione soddisfatta e si portò alla bocca il pugno chiuso in tempo per soffocare un rutto.
«Presumo che vogliate riposarvi adesso… in vista della festa di questa sera» esclamò la Pixie, alzandosi in piedi e rivolgendo un armonioso sorriso al suo musicista «Vi accompagnerò di persona presso le vostre stanze. Dovrebbero essere pronte adesso».
I suoi ospiti si alzarono in piedi assieme; tuttavia, mentre Patria stava per allontanarsi dalla sedia vide il suo compagno barcollare pericolosamente verso di lui e d’istinto si protese a sorreggerlo.
«Ehi, tutto bene? Mangiato troppo?» domandò il Tiefling con una punta di sarcasmo nella voce.
Tharazar sgusciò dalle sue mani e gli rivolse un’occhiata di traverso, girandosi appena nella sua direzione.
«Mi sono solo… alzato troppo in fretta» borbottò a mezza voce, strascicando un po’ le parole.
Non pareva ubriaco, per cui il suo partner giunse alla conclusione che fosse solamente assonnato per il lauto pranzo.
Lo lasciò avanzare per primo, in maniera tale da poterlo afferrare nel caso in cui la sonnolenza lo facesse capitombolare a terra.
Vennero guidati fuori dalla sala da pranzo, di nuovo lungo il corridoio che avevano percorso prima. Arrivati alla cima delle scale dell’atrio, proseguirono nella direzione opposta, attraverso un corridoio ancora inesplorato. Giunti in fondo, si arrampicarono su per una stretta scala a chiocciola che costrinse Tharazar a piegarsi per non sbattere la testa.
Si trovarono lungo un altro corridoio, sul quale si affacciavano numerose porte chiuse. Patria si domandò quanto ancora avrebbero dovuto camminare prima di giungere a destinazione. Cominciava a sentire i postumi del pranzo persino lui; inoltre, il suo compagno Mezzorco pareva sul punto di crollare addormentato sul pavimento.
La regina svoltò oltre il primo angolo e poi si fermò di fronte a due porte, l’una dirimpetto all’altra.
«Queste sono le vostre stanze» annunciò, guardandoli entrambi, uno per volta «Spero saranno di vostro gradimento. Tharazar… questa è la tua» soggiunse, indicando la porta alla sua destra, il cui legno era colorato di rosa pastello.
L’altra camera aveva il battente azzurro chiaro.
«Due… stanze separate?» fu il primo pensiero che Patria riuscì a formulare.
Se qualcuno gli avesse detto alcune settimane addietro che gli sarebbe mancato dormire insieme a Tharazar, probabilmente gli avrebbe riso in faccia. Quando dormiva era rumoroso e spesso si agitava nel sonno, tanto che in più di un’occasione aveva rischiato di finire addosso al falò; tuttavia, Patria era arrivato ad un livello di familiarità con i suoi atteggiamenti ed il suo russare che fino ad allora non aveva ancora pienamente realizzato.
Pensare di dover soggiornare lontano da lui lo mise in crisi quasi allo stesso livello del dover mangiare cibo che non aveva modo di controllare, se non addirittura peggiore.
«Riposate, vi aspetta una festa entusiasmante questa sera» comunicò loro la Pixie, prima di allontanarsi verso la fine del corridoio.
Quand’ebbe svoltato l’angolo, Patria si volse verso il suo compagno con espressione quasi supplichevole, deciso a chiedergli se potevano ignorare una delle due camere per stare insieme. Si sentiva stupido e a disagio nell’essere quello dei due ad esporre il problema, però era disposto a “sacrificarsi” per non dover rimanere da solo in quel palazzo sfarzoso e così evidentemente fuori della sua portata.
«Vuoi davvero dorm…?» esordì con voce piuttosto bassa, imbarazzatissimo, ma si interruppe di colpo vedendo che il Mezzorco non gli stava prestando la minima attenzione. Lo guardò aprire la porta, varcarla e poi girarsi verso di lui ed esclamare un semplice: «A stasera. Mettiti l’armatura buona!».
E ciò detto richiuse il battente, lasciando il Tiefling a fissare il punto in cui fino ad un momento prima c’era la sua faccia con espressione che era al tempo stesso atterrita, delusa e tradita. Non gli importava niente di stare lontani…? Per lui era tutto assolutamente normale?
«… le settimane di viaggio insieme… e la notte alla locanda… per lui non significano davvero niente…?».
Patria sgranò gli occhi sentendo la rabbia montare dentro di lui con tale impeto da rischiare di soverchiare la sua lucidità. Serrò i pugni e arretrò di scatto dalla porta di Tharazar, andando a finire contro quella della sua camera. Di colpo il suo viso esprimeva l’angoscia ed il crescente panico di qualcuno che aveva appena visto un mostro famelico e letale da vicino.
La sua armatura sbatté con un clangore metallico contro il legno e le sue labbra si distorsero in una specie di ghigno perverso per un istante mentre protendeva una mano aperta e con le dita piegate ad uncino verso la stanza di Tharazar.
Scosse violentemente il capo e la sua faccia tornò ad esprimere sano terrore. Chiuse di nuovo la mano e la picchiò contro il proprio petto rinforzato, quindi si girò freneticamente a cercare la maniglia alle sue spalle. Aprì la porta, non prima di averci dato una poderosa spallata, ed entrò.
Dopo qualche istante si udì risuonare lo scatto della serratura… e una serie di gemiti e ringhi di frustrazione fortemente ovattati.
A dispetto della sonnolenza e della pesantezza che percepiva in virtù del pasto decisamente abbondante, quando Tharazar ebbe chiuso la porta alle proprie spalle, si volse a dare un’occhiata generale alla stanza ed emise un cupo ringhio gutturale mentre lanciava lo zaino sul materasso in preda ad un raptus di frustrazione.
La stanza che gli era stata assegnata era molto spaziosa, con un bel tappeto peloso color rosa pastello ad occupare tutta la zona centrale del pavimento e un bel letto con il telaio in metallo dorato sormontato da un vaporoso baldacchino di tulle rosa e bianco, decisamente scenico ma poco funzionale come tenda. Dirimpetto al fondo del letto c’era un comò in legno dorato affiancato da un lato da un bell’armadio capiente fatto dello stesso materiale e dall’altro da uno specchio intero, più largo ed alto di Tharazar, con la cornice fatta di legno intagliato in fiori e tralci di rampicanti. Dal lato opposto della stanza c’era la porta che dava sul bagno, attualmente socchiusa.
Lo zaino attraversò l’aria tracciando un arco e poi atterrò esattamente nel centro del letto. La custodia del violino sbatté con le altre cose che teneva lì dentro, ma il Mezzorco non si preoccupò di andare a controllare. Si sbottonò il farsetto e la camicia con un moto di stizza, rivelando il torace muscoloso e i fianchi stretti mentre marciava a passo svelto verso lo specchio.
Guardò il suo riflesso, beandosi della perfezione del suo corpo a dir poco statuario, delle sue proporzioni splendide per un esemplare della sua razza e degli occhi azzurri, cristallini come l’acqua che sgorgava pura dalle sorgenti montane. Non aveva niente da invidiare a nessuno esteticamente parlando, e le sue doti come musicista lo mettevano su un piedistallo di vetro, elevandolo al di sopra di tutti gli altri… eppure a lui non bastava. Sentiva chiaramente di non essere se stesso, di non riuscire ad esprimere il suo vero potenziale, reprimendo le sue capacità a causa delle sue paranoie.
Fremente di rabbia per la sua codardia, tirò un pugno contro il muro, che vibrò solido all’impatto con le sue nocche. Il dolore si propagò sordo lungo i suoi muscoli ma Tharazar non ritrasse la mano e non si leccò le ferite come un cucciolo spaventato. Rimase immobile a guardare il riflesso della sua frustrazione nello specchio con la mandibola che vibrava mentre combatteva l’impulso di tenere chiusa la bocca.
Fu come ingaggiare guerra contro se stesso: ogni fibra del suo corpo lottava perché tacesse, ma lui non voleva farlo. Voleva riuscire a fronteggiare le sue paranoie e il suo tormento interiore, in modo da poter poi mostrare a Patria il vero se stesso senza vergognarsi.
Con uno sforzo immenso riuscì ad accennare un esordio di canzone, ma pareva che le sue corde vocali si stessero rifiutando di funzionare come di dovere.
«Andiamo! Ho già cantato una volta! Con Patria!» esclamò, raddrizzandosi di colpo e scoccando un’occhiata carica di odio al suo riflesso «Non mi sono mai esercitato, ma so di esserne capace!».
Si piazzò al centro dello specchio, gonfiò il petto e senza staccare gli occhi da quelli dell’altro sé si costrinse a cantare. La voce usciva spezzata e rauca dalla sua bocca, un misto tra la sua voce normale e quella che purtroppo ormai sapeva essere la sua tonalità da cantante. La sua paura di accettare che quella fosse davvero la sua voce gli impediva di esprimere il suo pieno “potenziale”, di cantare come avrebbe voluto.
Provò più e più volte, concentrandosi sul suo riflesso, sforzandosi di pensare che era da solo nella stanza e che nessuno, nemmeno Patria che era relativamente vicino, lo avrebbe sentito. Le sue corde vocali parevano remare di loro spontanea volontà contro la sua risoluzione a sentirsi cantare di nuovo a pieno regime. Ogni intonazione pareva la parodia distorta della canzone originale e per ognuno di quei fallimenti pietosi Tharazar continuava a prendere a pugni la parete. Forse se si fosse fatto male a sufficienza tutti quegli insormontabili muri di paure che aveva eretto nel suo inconscio sarebbero crollati come il suo corpo.
La cosa per lui era uno sforzo fisico tangibile, paragonabile ad una maratona attraverso il continente, eppure era risoluto nel voler abbattere ogni resistenza che gli impediva di accettare il suo lato meno virile. Era convinto che se ce l’avesse fatta a prendere consapevolezza e rassegnarsi allo stato della sua voce effeminata, suonare il violino di fronte alla Regina, alla corte e persino a Patria non sarebbe stato più così traumatico e terrificante come prima.
Dopo quasi un’ora di tentativi vani, ricoperto di sudore e tremante per l’impegno psico-fisico profuso, finalmente Tharazar riuscì a cantare. Dapprima esitando, poi con sempre più vigore mentre la consapevolezza di essere arrivato al traguardo tanto desiderato si faceva strada nel suo inconscio.
Arrivò a toccare note tanto acute che nessun uomo avrebbe mai potuto eguagliarlo, e all’euforia che accompagnò il suo trionfo assoluto e inconfutabile andò a sostituirsi una rabbia nera come non ne aveva mai provato il pari prima.
Si era arrabbiato con il suo “addestratore” - l’unica figura vagamente paterna che aveva mai conosciuto nella sua vita - quando a Neverwinter aveva scoperto che lo stava abbandonando per Rhazul, e si era arrabbiato quando per colpa di quello stesso Orco aveva dovuto abbandonare la sua vita agiata e confortevole pur di non abbassare la testa e rinunciare al suo titolo senza combattere. Aveva odiato Rhazul per averlo costretto a passare lunghissimi giorni camminando e interminabili notti al freddo, senza sapere quando sarebbe riuscito ad avere di nuovo un tetto sulla testa e del cibo caldo.
Eppure niente di tutto ciò era paragonabile a quello che stava provando in quel momento. Era arrabbiato e carico di odio, sì, ma non contro altri, bensì verso se stesso. Era assurdo e illogico considerando quanto normalmente avesse un’opinione alta nei suoi confronti. Si considerava al di sopra di tutti gli altri, più bello e più bravo; ciononostante, adesso provava solamente frustrazione guardandosi nello specchio.
Con le mani tremanti, una delle quali con le nocche sbucciate, ghermì la cornice fiorita e si piegò in avanti, fin quasi a toccare la superficie di vetro con la punta delle zanne. Il suo fiato condensava su di essa, creando un alone opaco che nascondeva la metà inferiore della sua faccia.
Il Mezzorco continuò a cantare, la voce spezzata mentre le lacrime cominciavano a pungere ai lati dei suoi occhi. Desiderava frantumare lo specchio con una testata ma il suo narcisismo si frapponeva eroicamente, impedendogli di rovinare il suo splendido viso.
La sua canzone salì di tono, tanto da arrivare ad avere i polmoni in fiamme mentre realizzava che in quel preciso momento tutto ciò che importava era sentirsi. Doveva udire la sua voce femminile in tutta la sua potenza. Fino a che non avesse più avuto fiato in gola, lui avrebbe continuato a cantare. Se tutto il castello lo avesse udito…
«… non ha importanza».
E di colpo tacque, sgranando gli occhi e boccheggiando, accasciandosi in ginocchio di fronte allo specchio, rimirando la stessa catatonica sorpresa che chiunque entrando avrebbe letto nel suo viso.
Non aveva importanza. Non importava se a sentirlo erano la regina dei Pixie, Rhazul, gli Dei… o persino Patria. Niente sarebbe cambiato. La sua voce sarebbe rimasta comunque quella, immutabile, per sempre.
E come lei sarebbero rimasti il suo amore e il suo talento per il violino.
Alla furia e all’odio si sostituì una strana sensazione di quiete precaria. Sentiva i suoi stessi nervi cadere in pezzi dopo quella prova dolorosa, eppure si sentiva anche insolitamente soddisfatto di se stesso. Non era lo stesso compiacimento di quando si complimentava con se stesso per la sua bellezza o per la sua bravura. Era… orgoglioso di sé e di ciò che era riuscito a fare.
Lasciò andare la presa sulla cornice dello specchio e accarezzò il profilo della sua mascella con il dorso della mano sana.
«Suonerò il violino questa sera… e sarà glorioso. Tutti sentiranno di cosa sono davvero capace… anche Patria» esclamò deciso ma con voce sommessa e provata «Quello che dirà dopo… potrà accettarmi con le mie… note femminili… oppure no. Io però avrò fatto la mia parte…».
Si rialzò, rinvigorito dalla sua stessa determinazione, e sogghignando trionfante si avviò verso il bagno. Doveva prepararsi al meglio per la sua grande rivelazione al pubblico.
Intanto che Tharazar affrontava i suoi demoni interiori, anche Patria nella stanza vicina era impegnato nella sua guerra personale con demoni che purtroppo erano molto più concreti di quanto fosse desideroso di ammettere.
Appena varcata la soglia della sua camera e richiusa la porta, il Tiefling si era gettato a terra, raggomitolandosi su se stesso mentre la sua rabbia combatteva per avere la meglio sul suo raziocinio. Patria era consapevole della sua instabilità emotiva quando si trattava di sentimenti potenti e primordiali come l'ira o la pulsione sessuale. La sua perenne repressione di entrambi era riuscita alla perfezione fino a che non era incappato in Tharazar. Quel Mezzorco da solo e senza alcun apparente sforzo era riuscito a violare il muro di apatia che aveva eretto a sua personale protezione nel tentativo di confinare la sua parte più oscura e selvaggia.
Patria ansimava e sbavava mentre lottava per tenere a bada l'impulso di sfondare a pugni la porta del suo compagno di viaggio e vendicarsi della sua apparente incuranza.
«Non ti merita. Guardati come ti ha ridotto... un pupazzetto che non è più in grado di stare da solo...» la voce sibilante nella sua testa riusciva ad essere davvero suadente quando riusciva a farsi breccia nella sua coscienza «Vendicati. Fallo soffrire! Dimostragli chi di voi due detiene il potere...!».
Una risata malvagia tintinnò nelle orecchie del Tiefling, assordandolo. Lui gridò, trascinandosi carponi verso le ante a specchio del grande armadio situato di fianco al letto a baldacchino che troneggiava in mezzo alla parete opposta a quella da cui era entrato.
Sentiva l'influsso della sua parte demoniaca premere per ottenere il controllo sui suoi movimenti, spingerlo nella direzione opposta, verso l'uscita. Lottava per ogni centimetro di pavimento su cui si trascinava, lento e inesorabile.
«Mai! Non... ha fatto niente per meritarsi il tuo odio!» ringhiò Patria, continuando a guadagnare terreno.
«Il mio odio? Il NOSTRO odio!» la voce nella sua testa rise di nuovo, stavolta in maniera più subdola e malvagia «La tua ira mi alimenta! Il tuo odio mi consente di continuare ad esistere dentro di te! Tu vuoi vendicarti di lui, non puoi mentirmi!».
Patria sapeva perfettamente che aveva ragione, così come sapeva anche che se avesse ceduto alle tenebre annidate nel suo animo avrebbe perso la grazia degli Antichi della Natura cui aveva consacrato la sua esistenza. La foresta lo aveva protetto dagli altri bambini che lo bistrattavano e gli aveva permesso di sopravvivere alla distruzione del suo villaggio; quando l'ora era giunta, aveva deciso di schierarsi al fianco della Natura per proteggere la vita e scacciare le forze del caos e del male, anche quello che covava silenzioso dentro il suo corpo ibrido.
«Io... non cederò... alle tue immonde tentazioni...» mormorò, allungando una mano per aggrapparsi alle coperte e rialzarsi.
Non andò lontano, riuscendo solamente a mettersi in ginocchio dinanzi allo specchio. Vide con orrore la smorfia di dolore sul suo viso e i suoi occhi, che normalmente erano due pozzi neri come la pece, racchiudere due iridi simili a tizzoni ardenti. Un terzo occhio, del tutto rosso e dalla pupilla verticale, campeggiava al centro della sua fronte.
Poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui quell'occhio era comparso a testimonianza della sua nera discendenza. La prima volta che aveva ceduto ai suoi sussurri nefasti era ancora un bambino e le conseguenze erano state piuttosto contenute, seppur importanti. Aveva picchiato uno dei bulli che lo denigravano sempre e in un raptus d'ira gli aveva morso un braccio, rischiando di strapparglielo.
Nonostante Tharazar gli avesse già fatto perdere il suo prezioso controllo due volte in passato, quella era la prima volta che le sue emozioni negative raggiungevano una profondità tale da indurre il suo demone interiore a manifestarsi fisicamente.
Benché il terrore che riuscisse a prevalere fosse più concreto del solito, il Tiefling si costrinse a chiudere gli occhi - quelli naturali, di cui era ancora padrone - e a rallentare il respiro.
La voce nella sua testa ruggì, evidentemente scontenta per il suo atteggiamento.
«Smettila di comportarti da codardo! Abbraccia il potere della tua ascendenza infernale! Insieme a me potresti ottenere tutto ciò che più desideri, persino quel tuo sciocco e patetico Mezzorco cadrebbe ai tuoi piedi!» tentò di nuovo di convincerlo, ma Patria riuscì a percepire con una certa soddisfazione che adesso la voce suonava meno sicura e allettante. Pareva stare tentando il tutto per tutto per salvarsi, fatto che diede al Tiefling la certezza di essere ancora in grado di controllarsi.
Cominciò ad intonare una litania in una lingua antica e sconosciuta ai più, focalizzando i suoi pensieri sulla foresta magica che aveva visto arrivando nel reame dei Pixie. Pur essendo uno spettacolo drasticamente differente da quelli cui era abituato, era comunque una visione molto rasserenante. La concentrazione della preghiera riuscì a permettergli di purificare il ricordo da tutte le emozioni che aveva provato, lasciando solo un profondo senso di pace.
«Non riuscirai mai a liberarti... io sono una parte di te...».
Le parole sfumarono in una promessa agghiacciante e Patria ignorò. Rimase assorto nella sua meditazione per una buona mezz'ora prima di aprire di nuovo gli occhi sullo specchio dinanzi a sé.
Aveva il volto madido di sudore e i riccioli neri appiccicati alle corna e alle guance; tuttavia, i suoi occhi erano di nuovo normali e quello che si era aperto nel centro della sua fronte solo un ricordo.
Adesso era di nuovo tranquillo e soprattutto nel pieno possesso del suo corpo. Non desiderava più massacrare Tharazar, anche se continuava a sentire un sordo dolore al petto per la sua mancanza.
«Davvero sono diventato dipendente dalla sua vicinanza...?» si chiese triste, alzandosi in piedi. Le sue gambe tremavano appena, intorpidite dal lungo periodo trascorso in ginocchio. Dovette sedersi sul bordo del letto per consentire al sangue di riprendere a circolare normalmente, e nel frattempo i suoi pensieri continuavano a ritornare su Tharazar.
Per quanto si ostinasse a non volerlo ammettere ad alta voce, lui gli piaceva. La questione stava cominciando a diventare troppo grande perché continuasse a tacere, e la sua reazione alla loro separazione - seppur temporanea - lo dimostrava ampiamente.
«Devo dirglielo» si risolse con un sospiro «Non posso continuare ad aspettare che sia lui a farsi avanti. Sta diventando troppo pericoloso... e non voglio che si faccia male nessuno».
Si alzò dal letto, tornando a posizionarsi di fronte allo specchio.
«Mettiti l’armatura buona!».
Le ultima parole del Mezzorco gli riecheggiarono nella mente senza alcuna apparente ragione, eppure furono decisive nel dargli lo spunto per mettere in atto la sua decisione.
«Glielo dirò questa sera» decretò. Non aveva un'armatura buona da poter tirare fuori appositamente per l'occasione, però aveva ancora tempo per lavarsi e tirare a lucido la sua attuale armatura. Sicuramente le sue piastre una volta pulite avrebbero fatto la loro figura.
Rassicurato dalla sua decisione, il Tiefling si spogliò prima di dirigersi lesto in bagno, come se temesse di essere visto nudo da qualcuno.
Il bagno gli occupò una buona oretta. Non era mai stato un fanatico della pulizia personale e non capiva come Tharazar potesse perdere tanto tempo a lavarsi anche nella foresta, quando l’opportunità di insozzarsi era dietro ogni albero.
L’occasione però era speciale e Patria voleva presentarsi al meglio, per cui era disposto a soprassedere alle sue preferenze personali. Si lavò con cura, assicurandosi di raggiungere anche quelle zone meno accessibili che solitamente ignorava, quindi uscì dal bagno e si accomodò sul tappeto avvolto in un ampio asciugamano ad occuparsi della sua armatura.
Lo sporco incrostato sulle sue piastre fu più difficile da togliere di quello che aveva addosso, ma l’olio di gomito riuscì a farlo trionfare anche contro le macchie più ostinate. Aveva a malapena finito di lucidare gli spallacci quando udì una serie di colpetti battuti sulla sua porta.
Alzò di scatto la testa e fissò terrorizzato il battente, temendo che si trattasse di Tharazar.
«Cosa ci fa già qui?!» si chiese in preda a crescente panico. Non era ancora pronto a dichiararsi. Aveva i capelli umidi e arruffati e l’armatura sporca, per non parlare della sua assoluta mancanza di preparazione ad un discorso così importante.
«Che faccio?! Che faccio?!».
Si alzò in piedi e si avvolse meglio nell’asciugamano, andando verso la porta. Sentiva il cuore martellargli in gola per l’agitazione mentre afferrava la maniglia sforzandosi di sembrare normale. Non voleva rovinare tutto prima ancora di cominciare a rendersi ridicolo dinanzi al suo Mezzorco.
«Hai bisogno di qualcos...?» esordì aprendo la porta, convinto che dall'altra parte avrebbe trovato Tharazar.
Lasciò in sospeso la frase quando si rese conto che a "disturbarlo" non era stato il suo compagno di viaggio, bensì una Pixie a lui ben nota, la stessa piccola snob che li aveva trovati nel bosco assieme al suo gruppetto di ricerca e che aveva "insultato" Tharazar.
Il Tiefling setacciò rapidamente i ricordi in cerca del nome della creaturina, rimanendo a fissarla per qualche secondo con espressione perplessa.
«Pluma...?» disse infine, corrugando le sottili sopracciglia, sperando di non aver sbagliato nome.
La Pixie sollevò il nasino affilato con aria altezzosa e scocciata insieme.
«P-posso fare qualcosa per te?» si decise a domandare Patria, messo a disagio dal suo atteggiamento.
«In realtà sì, guerriero» esclamò finalmente Pluma, continuando a sfarfallare all'altezza degli occhi del suo interlocutore «Ma gradirei non parlarne sulla porta. Oh, questa l'educazione che insegnano a voi mortali...? Davvero deludente!».
«A-ah no, certo» Patria si affrettò a farsi da parte per lasciarla entrare «Scusami, non mi aspettavo nessuna visita prima della festa di questa sera...» soggiunse, osservando la Pixie che volava oltre la soglia in direzione del letto.
«Oh, di certo non da me!» Pluma pareva offesa, anche se il Tiefling non riusciva bene a capirne la ragione. Sicuramente non aveva fatto granché per mascherare il suo disprezzo nei loro confronti, per cui era ovvio che una sua visita fosse una sorpresa.
La fatina andò ad accomodarsi sul bordo del comodino e attese che l'ospite della camera si fosse avvicinato a lei prima di parlare. Patria si sedette sul bordo del letto, avendo cura di tenere fermamente chiuso il suo asciugamano per non mostrare il suo corpo nudo.
«Di cosa hai bisogno?».
«Io di niente, specialmente da un mortale» sputò Pluma subito, poi si morse il labbro inferiore, come per cercare di trattenersi dall'aggiungere altro veleno.
Dopo aver inspirato a fondo per un momento riprese a parlare in tono più pomposo e pacato: «Sua Maestà ha intuito il tuo legame con Madre Natura, per questo mi ha mandata a chiederti aiuto».
L'espressione di Patria si fece improvvisamente più cupa: quando era arrivato a parte la natura magica della foresta non aveva percepito nessun problema. Che si fosse sbagliato...?
«Due settimane fa la foresta ha iniziato a "ribellarsi" ai poteri di Sua Maestà, come se rispondesse a qualche altro padrone... il che è una cosa assurda dato che è stata la Regina Lilah a plasmarla ed è un affronto alla sua sovranità che non possiamo tollerare!».
«Ed io come potrei intervenire in tutto questo?» domandò il Tiefling, improvvisamente interessato: non gli interessavano per niente gli agi di un castello e della civiltà quando aveva l'occasione di trascorrere del tempo in mezzo alla Natura selvaggia.
«Dal modo in cui opera, la Regina presume si tratti di qualche demonio della selva» Pluma assunse un'espressione disgustata «Qualsiasi creatura sia, devi distruggerla prima che tenti di assaltare direttamente il castello».
«Avete almeno un riferimento da cui possa partire con le ricerche?» chiese Patria, sempre più convinto che uscire dal palazzo fosse la decisione più salutare e giusta per lui.
«I nostri gruppi di esploratori sono scomparsi tutti nei pressi dell'estremità nord della foresta, oltre il castello. La zona di trova a mezza giornata di viaggio da qui».
Era ancora piuttosto lontano; tuttavia, il Tiefling non voleva intervenire quando ormai fosse stato troppo tardi per salvare altri Pixie innocenti.
«Accetto l'incarico» decretò senza esitazione.
Pluma si alzò in volo, battendo le mani minuscole.
«Perfetto! La Regina ha predisposto per te delle provviste dai cuochi. Appena sei pronto, puoi andare in sala da pranzo a ritirarle» lo informò la sua interlocutrice, al che l'altro le rivolse un'occhiata incredula mentre una voragine gli si apriva nel petto.
«E... e la festa di stasera?» osò chiedere, seppur con un notevole senso di colpa: in fin dei conti, era tra i suoi doveri di paladino votato al giuramento degli Antichi della Natura intervenire a contrastare le forze del male. Il suo dovere non prevedeva alcun tipo di intrallazzo, anche se l'idea di assentarsi all'evento e rimandare ulteriormente la sua confessione non gli piaceva affatto.
L'occhiata che la Pixie gli rivolse bastò a farlo sentire ancora peggio.
«Questa dovrebbe essere una priorità per un paladino degli Antichi!» esclamò oltraggiata «Devo forse riferire alla Regina che ci sono questioni di più impellente urgenza che vi premono...?».
«No, no! Nient'affatto!» Patria si affrettò a rimediare alla sua gaffe «Dite pure alla Regina che non appena sarò pronto partirò per la foresta» esclamò, balzando in piedi.
In fin dei conti, si trattava di una missione relativamente semplice. La sua dichiarazione a Tharazar aveva aspettato per tanto tempo che per un altro giorno, probabilmente non sarebbe accaduto niente. E in tal modo avrebbe anche avuto occasione di pensare a come dirglielo.
Pluma sorrise soddisfatta e si congedò dal Tiefling mentre quest'ultimo tornava in bagno in tutta fretta per sistemarsi e partire.
«Non mi ricordavo che questo completo fosse così stretto...!».
Tharazar, pulito e asciutto, era in piedi dinanzi allo specchio intento ad ultimare il suo look per la serata. Dopo il bagno si era strigliato a dovere la chioma nera e si era cimentato nella creazione di una corposa treccia la cui attaccatura - situata sulla nuca - si trovava nascosta nel folto della sua chioma e che adesso riposava sulla sua spalla. Era la prima volta in vita sua che tentava di rendersi più presentabile pettinando i capelli, e doveva ammettere che il risultato aveva ampiamente superato le sue aspettative.
Al momento era alle prese con il panciotto di un completo decisamente elegante e attillato che aveva recuperato dalle sue stanze a Neverwinter prima della fuga. Erano gli abiti più raffinati di cui disponeva, che aveva utilizzato esclusivamente da solo, per dare una sorta di verosimiglianza alle sue solitarie esibizioni col violino. I pantaloni erano bianchi e riempiti del tutto dalle sue cosce toniche e muscolose. La metà inferiore finiva in alti stivali neri di pelle decorati con ghirigori dorati sul polpaccio. La cintura era abbastanza sottile e anonima ed era coperta dalle estremità a punta del farsetto che il Mezzorco stava finendo di chiudere con non poco sforzo. Ad opporre resistenza erano in particolare i due bottoni centrali sul suo addome.
«Dannazione chiuditi! Ci sono sempre... entrato...!» sibilò a denti stretti, le guance paonazze mentre cercava di trattenere il respiro per tentare di chiudere meglio l'indumento.
Mentre si lavava si era accorto che i suoi addominali un tempo perfettamente scolpiti adesso parevano stare perdendo tonicità, disperdendosi in un sottile strato di grasso. Da quando si era lasciato alle spalle Neverwinter aveva perso l'abitudine di allenarsi e si era lasciato andare ai piaceri carnali - il cibo sopra a tutto il resto - ogni volta che gli si era presentata l'occasione, senza il minimo riserbo.
Non si era mai posto il problema che mangiando senza fare costante allenamento il suo bel fisico statuario si sarebbe rovinato, almeno non fino a quel momento; tuttavia, benché la consapevolezza di aver messo su un po' di pancetta lo mettesse a disagio, non si sentiva per niente in colpa per aver ceduto a peccati di gola più spesso di quanto fosse lecito.
Con immenso imbarazzo, iniziò a tirare con più forza i due lembi del farsetto mentre cercava di "tirare indietro" la sua nuova pancetta. La trovata parve funzionare, perché i bottoni finalmente scivolarono nelle rispettive asole.
Tharazar smise di trattenere il fiato e piuttosto gonfiò il petto mentre si sistemava il volant bianco che decorava il colletto della sua camicia.
«Visto...? Stessa linea di sempre...» sospirò con un sogghigno soddisfatto che svanì subito quando udì distintamente il rumore delle cuciture del farsetto che cominciavano a cedergli sui fianchi «... ma forse è meglio non tentare la sorte stasera!» soggiunse, affrettandosi a malincuore a togliere il capo d'abbigliamento. I bottoni centrali rischiarono di schizzargli via dalle dita quando tornò ad armeggiarci, segno che se non fosse intervenuto in prevenzione probabilmente si sarebbe ritrovato ad esibire un gilet che si strappava cercando di contenerlo anziché un brano di violino. Non appena l'ebbe tolto sentì il suo fisico distendersi, tornando ad occupare il suo normale quantitativo di spazio.
Sbuffò irritato, scoccando un'occhiataccia al capo d'abbigliamento. Forse al tempo avrebbe dovuto decidersi a prendere qualcosa che gli stesse un poco più largo, in modo da poterlo indossare più a lungo.
«A ben pensarci, questo ce l'ho da quando ero adolescente. È ovvio che cominci a non starmi più...» esclamò a mo' di giustificazione, poggiando sulla sedia vicina il pezzo inutilizzabile.
Dallo sportello più lungo e stretto dell'armadio - in cui aveva sistemato i suoi abiti per evitare che si rovinassero ulteriormente stando piegati nello zaino o appoggiati in giro - estrasse una stampella su cui aveva posizionato un tight nero con la spilla d'oro rappresentante una chiave di violino appuntata sul risvolto sinistro. La coda posteriore era lunga e ampia, scalata dalle estremità verso il centro, che presentava una punta.
Tharazar la prese tra le mani e la guardò con espressione dolce, come se fosse il ricordo più caro che aveva, prima di procedere ad indossarla. A differenza del farsetto, che chiaramente era stato cucito per adattarsi al suo torace massiccio senza lasciargli molto spazio extra per stare anche solo minimamente comodo, il suo tight era stato pensato per lasciargli più margine di movimento. Del resto, le sue braccia muscolose dovevano potersi muovere agevolmente, dato che doveva impugnare e suonare il violino con indosso quell'indumento.
Con suo enorme sollievo, non solo gli arti continuavano a stare comodamente all'interno delle maniche, ma i bottoni sull'addome si chiusero senza alcuna fatica e senza costringerlo all'apnea.
Senza il gilet argentato che faceva bella mostra di sé tra il tight e la camicia il suo look perdeva un po' della sua raffinatezza, ma nel complesso dava ancora un'impressione di nobiltà e aristocrazia che per l'occasione andava più che bene.
Una volta terminata la vestizione, controllò di non essersi spettinato troppo nel mentre e poi andò a prendere la custodia con il violino, che nel pomeriggio aveva tolto dallo zaino e adagiato sul letto. Non gli serviva altro per la festa.
Accarezzò la superficie liscia e solida della borsa e respirò a fondo.
«Ce la posso fare!» si disse convinto, lanciando un'occhiata fugace alla finestra. I tratti di cielo che si riuscivano a scorgere attraverso i rami degli alberi erano di varie sfumature di viola e blu. Non essendo la stessa realtà in cui aveva da sempre vissuto, in cui il passare del tempo era scandito dal viaggio del sole nella volta celeste, solo la colorazione scura poteva suggerirgli che la sera era imminente.
Quella e i frequenti brontolii del suo stomaco affamato.
«Tch! Sta' zitto... non rovinerai il mio spettacolo...» borbottò, abbassando lo sguardo sul suo addome mentre si portava una mano a coprirlo.
Sperava solo di avere la possibilità di mettere qualcosa sotto i denti prima di esibirsi, giusto per frenare quell'imbarazzante richiesta di nutrimento da parte del suo corpo.
In quel momento udì picchiettare sulla porta della sua stanza e poco dopo una trillante vocina esclamò: «Signor musico! La stanno aspettando tutti!».
Tharazar riconobbe la voce come quella della graziosa Pixie bionda che lo aveva accompagnato fin là. Si prese un secondo per placare l'improvvisa ansia da prestazione pensando a Patria e prese il suo strumento, andando svelto verso la porta.
«Fate largo a Tharazar il Magnifico!».
Le enormi pareti nude della sala da pranzo erano state decorate con festoni a tema floreale. Dal soffitto piovevano glitter rosati senza tregua, probabilmente per effetto di qualche illusione. Diversi tavoli erano stati portati nella sala, disposti a ferro di cavallo lungo le pareti e ricoperti di vassoi pieni di cibo a misura di Tharazar.
Gli invitati erano centinaia, forse di più, ed erano tutti minuscoli. Come potessero servirsi da simili portate era un mistero, ma al Mezzorco non interessava.
Quando venne annunciato il suo ingresso in sala, uno scroscio di applausi minuti lo accolse. Tharazar sorrise alla sua platea cercando di rilassarsi il più possibile, anche se il continuo borbottio sordo del suo stomaco lo tormentava.
I suoi occhi azzurri sondarono la sala in cerca dell'unica figura alta quanto lui - o quasi - che si aspettava di trovare e con suo sommo dispiacere non ne risultò traccia. Patria non c'era.
Sentì la delusione ghermirgli il cuore e rischiare di soverchiarlo.
«Non gli piace fino a questo punto sentirmi suonare...?» fu la domanda che gli sorse spontanea in mente e che subito tentò di scacciare.
«No. Sicuramente verrà. Sarà... solamente in ritardo...» cercò di rassicurarsi, continuando a guardarsi attorno, stavolta con una punta di disperazione.
«Tharazar! Finalmente sei arrivato!».
Il Mezzorco vide Lilah correre verso di lui. Indossava un vestito lungo di tessuto viola semitrasparente e cosparso di glitter con la gonna dritta composta da drappi dello stesso materiale sovrapposti a formare delle balze asimmetriche. Era privo di lacci e di maniche, permettendo così a Tharazar di ammirare la linea delicata del suo collo e il décolleté.
I suoi lunghi capelli erano intrecciati in una elaborata treccia che era stata avvolta per metà attorno al suo capo a formare un raffinato chignon. L'altra parte pendeva libera sulla sua spalla, arrivandole fino al seno.
Era uno spettacolo di rara ed effimera bellezza, poco ma certo.
«Buonasera» salutò il Mezzorco, curiosamente in soggezione dinanzi alla bellezza della Pixie «Quando... potrò esibirmi?» aggiunse.
Se si fosse allontanato da lei forse avrebbe smesso di sentirsi inadeguato alla situazione. Non era una sensazione che era avvezzo a provare e non gli piaceva per niente.
La Regina si mise al suo fianco e inaspettatamente si aggrappò al suo braccio, tenendolo stretto sui suoi seni.
«Non vedo l'ora che tu inizi a suonare! Ti accompagno alla tua postazione» disse emozionata, accennando con la mano esile all'unica parete rimasta libera, al cui centro era stato posizionato un piccolo piedistallo.
Il Mezzorco non poté rifiutarsi di essere scortato da lei, specialmente considerato che la pressione delicata dei suoi seni contro il suo gomito stava facendo affluire il sangue in un punto diverso dalla sua testa.
«Mmmh... che fisico atletico...» sentì commentare a Lilah, mentre le sue dita palpavano deliberatamente il suo braccio «Devi esserti allenato molto...».
«Ero un gladiatore» rivelò senza pensare Tharazar, cercando di recuperare un po' della sua consueta spavalderia con il gentil sesso «Ho lottato contro un'infinità di nemici agguerriti, uscendone sempre vincitore» si pavoneggiò.
Gli occhi di Lilah parvero brillare alla notizia.
«Davvero? Immagino quale meraviglioso spettacolo sia vederti duellare...!» sospirò, stringendosi ancora un po' al suo braccio «Se sei bravo a combattere anche solo la metà di quanto lo sei a suonare, vorrei davvero poter assistere».
Arrivarono a fiancheggiare il tavolo del rinfresco e lo stomaco di Tharazar riprese a protestare distintamente quando le sue narici intercettarono l'aroma di cibo. Il diretto interessato rallentò il passo di colpo, scoccando occhiate desiderose ai vassoi pieni di carne.
Lilah gli tolse l'imbarazzo del dover porre qualsiasi quesito: «Che sciocca... perdonami, non ti ho chiesto se tu volessi mangiare qualcosa prima di esibirti per me...».
Le guance del Mezzorco assunsero una forte sfumatura rossastra mentre replicava: «Non è faccenda di cui voi dobbiate occuparvi...».
Le sue parole vennero accolte e ignorate: la Regina si fermò insieme a lui, prese un piattino e lo riempì di bocconcini di carne cotti e infilzati su uno spiedo di metallo che pareva più un'arma impropria che un attrezzo da cucina, quindi si volse verso il suo ospite e gli porse il piatto.
«Non vorrei mai che patissi la fame per esibirti...» disse.
Tharazar accettò la portata e ripresero a camminare verso il capo opposto della sala. In pochi minuti gli spiedi furono ripuliti e - almeno per il momento - lo stomaco del bardo fu messo a tacere.
Vedendo il piedistallo ormai prossimo, Tharazar si decise a porre la domanda di cui più gli interessava la risposta: «Sapete per caso dove si trova il mio compagno? Non lo vedo qui...».
«Temo sia colpa mia» ammise Lilah con tono infantile e colpevole «Ho chiesto al tuo amico di indagare su alcuni spiacevoli eventi verificatisi nella foresta nei giorni scorsi... mi era parso di capire che si trovasse particolarmente in sintonia con la natura...».
La notizia colse il Mezzorco del tutto impreparato. Immaginava che fosse ancora chiuso nella sua stanza a sistemarsi, probabilmente cercando la maniera migliore di apparire in pubblico. Di certo non si aspettava di essere lasciato indietro mentre lui andava a fare l'eroe nella foresta.
«Non ha pensato che potessi dargli una mano?! Siamo una squadra!» si inalberò interiormente «Oh, non... lo sapevo. Tornerà in tempo...?» chiese speranzoso a voce alta.
«Purtroppo no. La foresta è grande e la zona degli incidenti si trova a mezza giornata di cammino da qui...» Lilah gli rivolse un'occhiata curiosa «Mi dispiace... era così importante che fosse presente?».
Non lo avrebbe né visto né sentito suonare il violino. La cosa colpì Tharazar molto più intensamente di quanto potesse prevedere. Non aveva pensato nemmeno per un attimo che qualcosa potesse frapporsi tra loro in quel frangente, eppure pareva che qualcosa intervenisse sempre ad intralciare i suoi piani anche quando a farlo non erano le sue paranoie. Era frustrante.
Si costrinse a sorridere alla Regina, mascherando il suo malcontento.
«Presumo sia un incarico importante se è partito con così poco preavviso. Per la mia esibizione... potrà assistere in altre occasioni» esclamò, sforzandosi di suonare il meno apatico possibile.
Dinanzi al lezioso sorriso di Lilah, Tharazar si staccò da lei e salì sul suo piedistallo. Il suo entusiasmo all'idea di mostrare a tutti la sua bravura con il violino era stato smorzato nettamente sapendo che Patria non sarebbe stato presente; tuttavia, non appena estrasse lo strumento, fu pervaso da un bizzarro ed inusuale senso di pace.
Era l'ora. Il suo spettacolo più grande non avrebbe atteso nessuno. Sentiva il suo corpo fremere per l'emozione.
Posizionò il violino sulla spalla ed impugnò l'archetto. Gonfiò il petto e trattenne per un secondo il fiato.
Suonò la prima nota... e il resto fu come lanciarsi in un abisso e scoprire di saper volare.
Era ormai notte inoltrata e Patria continuava a camminare. La sua Scurovisione gli consentiva di continuare ad avere chiara visuale di dove metteva i piedi; inoltre, il suo bagno pomeridiano gli aveva consentito di riposarsi abbastanza affinché non sentisse ancora la necessità di dormire.
Non aveva modo di sapere quanto tempo fosse passato davvero da quando era partito dal castello. Poteva solamente presupporre che fosse quasi giunto a destinazione dato che ormai era buio.
La consapevolezza di non poter tornare in tempo per partecipare alla festa e assistere all'esibizione di Tharazar lo aveva messo nell'ordine di idee di sbrigare la questione il più in fretta possibile, obiettivo per il quale aveva camminato rapidamente attraverso il bosco fermandosi solo per le cose strettamente indispensabili.
A dispetto dei suoi zoccoli, il terreno occasionalmente accidentato non era riuscito a rallentarlo poi molto. Aveva rischiato di farsi male in più di un'occasione, inciampando e scivolando; tuttavia, nemmeno le ferite avrebbero potuto smorzare il suo desiderio di ricongiungersi con Tharazar.
Man mano che si inoltrava nel fitto della foresta, allontanandosi dal castello, aveva notato la vegetazione crescere più rigogliosa e selvaggia. Probabilmente la Regina non si preoccupava di controllare lo sviluppo delle piante più lontane dal suo castello. Patria non si sarebbe sorpreso di trovare i corpi dei Pixie dispersi in mezzo a rovi e rampicanti: quella parte di bosco era veramente impervia e per infiltrarsi all'interno aveva dovuto fare ricorso alle sue peculiari abilità di comunione con la Natura.
E intanto il suo cervello era lontano da quel luogo, proiettato verso il futuro, alla ricerca della maniera giusta di dichiarare i propri sentimenti a Tharazar.
Si immaginava dirimpetto a lui, con la sua armatura pulita e splendente e i capelli più pettinati del normale, che gli rivelava il suo affetto con tutta la sincerità di cui disponeva.
Patria arrossì immaginandosi nel dire a quell'egocentrico e narcisista che lo amava e scosse il capo.
«Non posso confessarglielo in maniera così diretta! Si monterebbe subito la testa!» commentò mentre si accucciava per passare in mezzo ad un enorme cespuglio di rovi. Nella parte bassa si trovava una specie di cunicolo che probabilmente veniva utilizzato dalla fauna come passaggio. Pur essendo più largo di un comune animale, il Tiefling riuscì a strisciarvi dentro, proteggendosi la schiena con lo scudo.
Alcuni rametti affilati gli graffiarono il viso, ma il dolore non fu tale da attirare la sua attenzione, tutta rivolta a "questioni" ben più urgenti.
«Dovrei soltanto dirgli che "mi piace"...? Sarebbe meno imbarazzante, senza dubbio... ma non so se lo capirebbe davvero...» continuò a ponderare «Oh, andiamo! Se devi dargli la soddisfazione di sapere che è importante per te, almeno sii esplicito!».
Provò a figurarsi mentre gli parlava in maniera davvero esplicita e nella consueta gestualità di scuotere il capo per allontanare l'imbarazzante pensiero rimase con un corno impigliato tra i rami.
«Ah, grandioso...!» sibilò, cercando di alzare un braccio per infilare la mano tra i rovi. Dopo un po' di movimenti e diversi graffi sul guanto, riuscì a liberarsi e proseguire.
Il cunicolo cominciò ad allargarsi dopo poco e poi Patria si ritrovò dall'altra parte del cespuglio, in quella che pareva una radura.
Mura di rovi la avvolgevano, nascondendola da sguardi esterni. Patria impugnò istintivamente martello e scudo, guardandosi attorno con cautela: doveva essere il luogo in cui l'ospite indesiderato della Regina viveva. Fece alcuni passi all'interno, cercando di essere silenzioso per captare ogni rumore che potesse indicargli dove si trovava il nemico. Procedendo, vide che al centro del prato si trovavano i resti spenti di un piccolo falò e all'intorno quelli che avevano tutta l'aria di essere resti di cibo e un giaciglio di arbusti.
«Un accampamento...?».
La cosa lo lasciò alquanto confuso: se davvero si trattava di un demonio della selva come gli aveva detto Pluma, non poteva essere lui ad aver allestito una cosa del genere. I demoni erano caos puro e semplice e il loro unico divertimento era diffondere violenza e confusione. Lo sapeva... per esperienza diretta.
Nessuna di quelle creature immonde possedeva un intelletto abbastanza sviluppato per comportarsi in maniera tanto "civile".
«E così Lilah ha deciso che se non avrà il mio cazzo... possiederà il mio cadavere».
Patria rabbrividì udendo una voce inequivocabilmente maschile riecheggiare nella radura ma provenire... da dietro di lui.
Immediatamente si volse, mettendo avanti lo scudo nella speranza di parare qualsiasi attacco il suo nemico avesse in serbo per lui. Udì un suono di flauto e dal terreno sotto i suoi zoccoli proruppero tralicci che si avvinghiarono attorno al suo corpo, immobilizzandolo sul posto.
Patria ringhiò un'imprecazione tra i denti e cercò di divincolarsi senza successo.
«Vediamo un po' chi è il fortunato sciocco scelto da Lilah...».
Una luce brillò nelle tenebre, costringendo il Tiefling a chiudere gli occhi per non venire accecato. Aveva viaggiato al buio per così tante ore che non doveva riabituarsi. Aprì appena le palpebre ed intravide una figura cornuta.
«Non è... possibile...» sentì dire al suo aguzzino «Ha mandato un altro Satiro a finirmi...?».
«Non sono un Satiro! Sono un Tiefling!» sbottò Patria indignato. Odiava i suoi tratti demoniaci ma non per questo avrebbe permesso a qualcuno di dargli del caprone fatato.
«Meglio così... mi dispiace ucciderti, ma preferisco non fare fuori un altro membro della mia razza per colpa di Lilah...».
Nella confusione che regnava nella sua mente e nell'agitazione del momento, Patria riuscì a trovare la lucidità per dire: «Sei tu che hai sconfinato nei possedimenti della Regina!».
Non sentì arrivare né magie né colpi letali, al che osò aprire finalmente gli occhi, del tutto. Davanti a lui si trovava una specie di sua versione della foresta: un uomo con la metà inferiore del corpo caprina - e del tutto nuda - ed un paio di corna simili alle sue - ritorte ai lati del cranio - ma molto più grandi. A differenza di Patria, la sua pelle era rosata e gli occhi normali, con pupille e iridi ben distinguibili tra di loro.
I due rimasero a guardarsi per qualche secondo, poi il Satiro si avvicinò a scrutare il suo prigioniero più da vicino, quindi disse: «... tu non sai niente».
«Di cosa?!» esclamò Patria di rimando, cominciando ad irritarsi. La mancanza di risposte e l'assurdità intrinseca di tutta quella situazione lo stavano facendo arrabbiare.
Aveva pensato di andare a sterminare demoni e invece si era trovato di fronte un avversario intelligente che lo aveva addirittura intrappolato. Aveva sperato che fosse un lavoro semplice in modo che potesse tornare in fretta da Tharazar e ora era in precario equilibrio tra la sopravvivenza e la morte.
«Puoi smetterla di parlare per mezze parole?!» gridò Patria furioso «Io dovevo allontanare un demonio che aveva trovato il modo di arrivare qua! Tu evidentemente non lo sei, quindi non ho nessun motivo di farti del male!».
«Tsk! Evidentemente sapeva che ti saresti rifiutato se avessi saputo che sono una creatura del bosco...» il Satiro scosse la testa «Ma perché ti ha allontanato dal castello, mi chiedo? Sei un uomo, sei ancora giovane e affascinante...».
«Non mi interessano i tuoi complimenti. Ho lasciato il palazzo in fretta e furia temendo che ci fosse un reale pericolo per la foresta! Me ne sono andato abbandonando il mio compagno di viaggio prima della sua esibizione... per niente!» continuò a sbraitare Patria, lottando ancora contro i viticci.
Vide l'espressione del Satiro rabbuiarsi di colpo.
«Esibizione? Il tuo compagno suona?» domandò. Dal tono di voce pareva allarmato.
«Sì! E io dovevo essere presente... se non fosse stato per questa pagliacciata inutile! Non ti farò alcun male... ma liberami!» esclamò ancora Patria.
Non sperava neanche un po' che le sue proteste sortissero qualche effetto nel suo interlocutore, eppure sentì la stretta dei viticci allentarsi e poi svanire del tutto. Incredulo e libero, Patria guardò il Satiro che gli si avvicinava.
«Devi tornare indietro. Subito!» lo avvertì lui, cupo in viso.
«Cosa? P-perché?» il Tiefling si sentiva a disagio per il suo atteggiamento improvvisamente serio.
«Lilah ti ha allontanato per avere per sé il tuo amico... e se non ti sbrighi a tornare, probabilmente lo perderai» lo avvisò il Satiro.
Patria deglutì a vuoto, guardandolo fisso in volto. Sperava che i suoi lineamenti tradissero un qualche scherzo da Satiro di pessimo gusto.
Non era possibile che la Regina avesse tramato contro di lui, spingendolo fin là solamente per avere Tharazar.
Eppure le parole dello sconosciuto riuscirono a far breccia nel suo cervello con facilità, mettendo ordine laddove fino ad allora era regnato solamente il caos.
La Regina aveva mostrato interesse esclusivamente per Tharazar e per la sua bravura negli strumenti musicali. Li aveva messi in camere separate.
Non aveva immaginato che fosse una scelta voluta e con uno scopo preciso, ma adesso non riusciva a pensare che non fosse così.
E quello strano equivoco non appena arrivati...
«La Regina mi aveva scambiato per il musicista all'inizio...» Patria sgranò gli occhi, guardando il suo interlocutore come se lo stesse vedendo per la prima volta in una luce del tutto nuova «... aveva pensato che lo fossi... perché somiglio a voi...» boccheggiò.
Il suo cuore sprofondò in un abisso di terrore. Aveva abbandonato Tharazar alla mercé di quella Pixie senza sapere in che mani lo stava mettendo.
«Devi sbrigarti! Corri! Prima che lo renda suo!» esclamò il Satiro, scuotendolo per le spalle «Voi mortali siete suscettibili al suo fascino fatato...».
Prima che se ne rendesse conto, Patria si lanciò a terra verso il buco da cui era arrivato. Si appiattì più che poté e cominciò a strisciare tra i rovi, annaspando nel tentativo di raggiungere il lato opposto il più in fretta possibile.
Le strie di sangue sulla sua faccia raddoppiarono, e benché stavolta fossero dolorose abbastanza perché si accorgesse della loro presenza, le ignorò. Doveva tornare indietro. Doveva trovare Tharazar e portarlo via dal castello, prima che fosse troppo tardi.
Non appena fu oltre il cespuglio di rovi, scattò in piedi e cominciò a correre alla massima velocità consentitagli dagli zoccoli, dall'armatura pesante e dal terreno accidentato.
L'esibizione era stata un successo. Tharazar non poteva essere più soddisfatto di sé stesso. Aveva suonato il violino per un'intera ora, senza mai fermarsi, passando fluidamente da un brano all'altro. Il suo pubblico aveva applaudito e lo aveva osannato.
Era stato bellissimo sentirsi di nuovo come al termine dei combattimenti in arena, quando dagli spalti l'unico grido che saliva dalla folla era un'eco stonata del suo nome.
Finito lo spettacolo, era sceso dal piedistallo con le braccia piacevolmente indolenzite. Aveva avuto solo il tempo di riporre il suo amato strumento prima che la Regina lo sequestrasse e lo accompagnasse al tavolo del rinfresco. Lì il Mezzorco aveva avuto modo di rinfrancarsi fisicamente dalla prestazione, mangiando e bevendo a sazietà.
Lilah continuava a versargli vino e piazzargli in mano piatti pieni di cibo che lui non si sentiva di rifiutare.
Tra l'entusiasmo per la prova e l'orgoglio personale per tutti i complimenti che la Regina e i suoi ospiti continuavano a regalargli a profusione, era talmente pieno di energie che non avvertì minimamente la sonnolenza data dal pasto insolitamente abbondante né tantomeno le prime avvisaglie di una sbronza.
Bevve tanto di quel vino che ad un certo punto dovette chiedere dove si trovasse il bagno più prossimo. Purtroppo per lui, venne a sapere che il più vicino si trovava nella sua camera da letto, per cui decise che era se doveva andare fin lassù per dar sollievo alla sua vescica, la cosa più logica da fare era congedarsi dalla festa in via definitiva.
Prese il suo strumento, salutò gli invitati e la Regina ed abbandonò la sala da pranzo. Si arrampicò su per le scale, seguendo la stessa strada che Sua Maestà gli aveva mostrato nel pomeriggio.
Esitò un istante una volta giunto in corridoio, fermandosi tra le porte della camera sua e di Patria. Il bisogno di orinare era impellente ma ad esso subentrò l'urgenza di sapere se per caso il suo compagno fosse rientrato mentre era via.
Si accostò all'uscio e bussò, piuttosto forte anche se non con violenza.
«Patria? Sei tornato?» chiese, la voce esitante ma con tono alto, appoggiando un orecchio contro il battente. Dall'altra parte non giunse alcun rumore.
Il Mezzorco rimase a fissare con cipiglio deluso la porta chiusa ancora per qualche secondo, prima di voltarsi ed aprire con urgenza la propria camera da letto, spalancandola con una spallata. Sfrecciò al buio attraverso la stanza fino al bagno. Si slacciò con movimenti frenetici la cintura e calò le braghe, ritrovandosi per le mani un'erezione di tutto rispetto.
Imprecò tra i denti e si piegò sopra la tazza, appoggiandosi con un braccio alla parete e indirizzando con l'altra mano la punta del suo pene per evitare di sporcarsi i pantaloni buoni.
Un lungo sospiro di sollievo gli sfuggì mentre svuotava finalmente la vescica, rumorosamente.
«Dovrò occuparmi del problema se voglio andare a dormire...» commentò con un mezzo sorriso mentre terminava, osservando compiaciuto la sua erezione.
L'impellente bisogno di orinare aveva coperto il bisogno di attenzioni del suo pene; tuttavia, ora che era da solo, non c'era nessun motivo per cui rimandare la cosa. Come tutto il resto, era anche quello un normale bisogno fisiologico cui doveva assolvere.
«Se vuoi... ti do una mano io...».
Tharazar rabbrividì udendo l'ormai familiare voce della Regina provenire dalla porta del bagno, che nella fretta aveva lasciato aperta.
Sollevò gli occhi dal suo pene e nell'oscurità scorse la figura della Pixie che si avvicinava a lui, lentamente e con la mano protesa all'altezza del suo inguine.
«R-Regina...? Che ci fa qui?! Come è entr...!» Tharazar sobbalzò e si zittì di colpo sentendo la sua mano esile stringersi appena sotto il glande, iniziando a muoversi avanti e indietro.
Dall'interpellata giunse una risatina leziosa.
«Tharazar... a questo punto puoi chiamarmi pure Lilah...» mormorò con voce suadente, afferrando il Mezzorco per un polso e tirandolo a sé, verso la porta «Perché non andiamo a letto? Sono ansiosa di testare le tue... altre doti...».
Per la prima volta in tutta la sua vita, Tharazar non sapeva cosa rispondere ad una donna chiaramente invaghita di lui.
«I-io...» bofonchiò confuso, uscendo con lei dal bagno «È-è... una dote... molto grossa...» aggiunse dopo un poco.
Vide Lilah sorridere con l'aria di chi la sapeva lunga.
«Ne sarò all'altezza, vedrai...».
Era sorto il sole da alcune ore quando Patria arrivò in riva al lago su cui si ergeva il castello. Le ore gli erano parse interminabili mentre spronava il suo fisico a violare i suoi stessi limiti nella speranza di giungere a destinazione quanto prima. Mai come allora desiderava poter avere un momento per togliersi di dosso la sua pesante armatura di piastre; tuttavia, non aveva tempo per simili frivolezze.
Doveva raggiungere il castello e controllare che Tharazar stesse bene senza attirare l'attenzione dei Pixie di guardia. Piccoli come erano, dalla sua posizione non riusciva neppure a vederli, ma era certo che si trovavano in perlustrazione: aveva visto quanto erano devoti alla loro sovrana, per cui l'ipotesi che lasciassero senza protezione il castello era inconcepibile.
Mantenendosi acquattato tra i cespugli di piante sulla riva del lago, Patria lo aggirò fino a giungere sul fianco del palazzo, dove presumeva con una stima molto approssimativa che si trovassero le finestre della stanza del Mezzorco.
Contro ogni logica, il Tiefling si tuffò in acqua completamente vestito e cominciò a nuotare faticosamente verso le radici dell'enorme mangrovia che costituiva il castello. Era avvezzo a trasportare indumenti pesanti; tuttavia, la stanchezza per la notte insonne e il frenetico viaggio di ritorno, uniti al fatto che la tunica fradicia aggiungeva un notevole peso al metallo lo portarono ben presto a pentirsi della sua scelta.
Spronato dalla mera forza di volontà e dal sentore che il suo compagno si trovasse in pericolo a dispetto delle apparenze, nuotò attraverso la superficie del lago, giungendo esausto ad aggrapparsi ad una delle radici. Si issò su di essa e rimase lì in precario equilibrio per qualche secondo, boccheggiando e sputando acqua tenendo le orecchie tese in cerca di rumori che gli annunciassero che era stato scoperto.
Non udì niente a parte il martellare folle del suo cuore nel petto, per cui procedette con la prossima parte del piano di incursione: dalla borsa che portava a tracolla estrasse un paio di coltelli che erano evidentemente stati pensati e progettati per tagliare la carne in una cucina. Li fece ruotare silenziosamente nelle mani, verificando che la sua abilità con utensili più piccoli di martello e scudo fosse ancora presente, quindi li impugnò con la lama rivolta verso l'esterno.
Con un colpo secco, ne infilzò uno nella corteccia poco più in alto della sua testa, usandolo per puntellarsi e sollevarsi per incastrare anche l'altro. Con lentezza e fatica esasperanti, Patria iniziò a scalare la radice, constatando ben presto quanto il suo equipaggiamento fosse poco adatto a simili imprese e i suoi zoccoli facili a slittare su superfici troppo verticali.
Più di una volta fu tentato di lasciarsi cadere ed entrare dall'ingresso principale ma ogni volta pensava a come avrebbe potuto ritorcerglisi contro la situazione: se davvero il Satiro aveva ragione, molto probabilmente la Regina sarebbe stata informata del suo ritorno e lei stessa - o le sue guardie - gli avrebbero nascosto lo stato di Tharazar. L'unica maniera sensata per scoprire la verità su cosa stava accadendo era cercare di entrare di soppiatto. Se il piano non avesse funzionato... be', non era detto che dovesse metterci più di un giorno a tornare indietro e nessuno poteva sapere quello che era o non era accaduto nella foresta. Se avesse detto di essersi già occupato con successo del demonio della selva, nessuno avrebbe potuto accusarlo di stare mentendo senza ammettere di averlo pedinato.
Ci mise parecchio tempo prima di riuscire ad allungare la mano e aggrapparsi alla cima della piattaforma. Era stremato e le braccia gli dolevano per aver dovuto sostenere quasi da sole il peso del suo corpo e della sua armatura; ciononostante, fece attenzione a che non ci fosse nessuno in vista prima di issarsi sulla terrazza.
Quando si fu rimesso in piedi si mosse lesto per ripararsi lungo il fianco del castello, laddove la prima luce del giorno ancora non era riuscita a giungere. Si appiattì lungo la parete e rimase silente ad ascoltare di nuovo se c'erano dei rumori di allarme, ma per la seconda volta tutto tacque.
A quel punto, Patria riprese a scalare, armato di pazienza e determinazione. I colpi erano più deboli, per timore che dall'interno qualcuno riuscisse a sentirli - anche se data la grandezza dell'albero immaginava che la corteccia fosse troppo spessa perché qualcuno lo udisse - ma era meglio non correre inutili rischi.
Le loro camere si trovavano al secondo piano e quella di Tharazar in particolare pareva essere situata più verso la parte esterna del palazzo, specialmente considerato che nella sua mancavano del tutto le finestre. Pregava che lo fosse davvero e che i suoi calcoli non fossero stati troppo grezzi e frettolosi, altrimenti rischiava di aver fatto tanta fatica per niente.
Quando riuscì a raggiungere il secondo piano, si affacciò a sbirciare dalla finestra più vicina e all'interno scorse il corridoio da cui la Regina li aveva condotti alle loro camere. Se non altro aveva indovinato il lato corretto del castello da scalare.
Appellandosi a tutta la sua forza fisica residua, cominciò a puntellarsi coi coltelli per scorrere lateralmente, spostandosi da una finestra all'altra nella speranza di giungere quanto prima a quella di Tharazar.
Diversi tentativi andarono a vuoto, rendendolo sempre più nervoso e impaziente. Non poteva permettersi di perdere altro tempo se voleva trovare la maniera di portare via da lì il suo compagno.
Sempre più irritato per la sua inconcludenza, Patria si sporse oltre l'ennesimo davanzale e lì rimase, pietrificato: con la sua Scurovisione poté facilmente distinguere un baldacchino di tulle alzato e sotto ad esso una figura femminile a dimensione umana del tutto nuda che si muoveva sopra qualcuno che attualmente stava disteso supino sotto di lei. Non gli ci volle molto a capire che si trattava della Regina.
Le sue braccia tremarono, e stavolta non per lo sforzo: era certo che la Pixie avrebbe detto che la sua stanza si trovava vicino alle loro se fosse davvero stato così. Serrò le labbra fino a ridurle in una linea sottilissima e nonostante il suo inconscio lo implorasse di non indagare oltre, si issò un poco più su. Intravide così sul materasso il suo accompagnatore: chioma folta e nera, spalle massicce e gambe lunghe e muscolose... troppo per qualsiasi essere fatato in tutta quella dimensione. Soltanto una persona rispondeva a quella precisa descrizione fisica.
La mandibola del Tiefling cadde e i suoi occhi si fecero vitrei e privi di espressione mentre qualcosa nel suo inconscio si spezzava, causandogli un atroce dolore non solamente emotivo ma anche fisico.
«Uccidilo!».
La voce sibilante esplose in un boato di rabbia nella testa di Patria ma prima che riuscisse a soverchiarlo, riuscì a riprendere il controllo di sé abbastanza da puntellare gli zoccoli contro il muro e darsi una poderosa spinta all'indietro, lasciando la presa sui coltelli.
Come un peso morto fendette l'aria, esausto e privo di qualsiasi voglia di continuare a combattere. Chiuse gli occhi e attese, quasi sperando nella colluttazione con il solido legno della terrazza principale. Ad accoglierlo furono invece le gelide acque del lago.
L'impatto con la superficie fu talmente forte da spezzargli il fiato e il peso dell'armatura fece il resto, trascinandolo verso il fondo. Stordito e sull'orlo dell'incoscienza, non riusciva a non pensare a ciò che aveva visto.
Si sentiva uno stupido e un ingenuo. L’avvertimento del Satiro l’aveva spaventato al punto tale da farlo tornare di corsa per salvare la vita di Tharazar, che immaginava in pericolo mortale; invece l’unica cosa che il Mezzorco rischiava era di divertirsi troppo scopando con la Regina dei Pixie. Era bastato che si allontanasse per una notte perché lui si sentisse autorizzato a sollazzarsi con un'altra persona.
«Stupido che non sei altro! Tu non gli hai detto niente...!».
La voce della ragione sorse dai recessi del suo inconscio, cercando di trovare una giustificazione che lo mantenesse lucido e padrone di sé.
«Non fare l'idiota! C'era anche lui quella notte, alla locanda. Ti ha provocato... e tu ci sei cascato. E ora ti ha tradito» la voce sibilante emerse a contrastare l'altra, riuscendo a ricacciarla indietro con incredibile facilità «E tu vorresti perdonarlo ancora? E ancora... e ancora? Lui non si merita la tua fiducia! Non si merita NIENTE!».
Patria aprì di colpo gli occhi, i polmoni in fiamme per la mancanza di aria. Annaspò cercando di rimettersi in posizione verticale e cominciò a spingersi con le braccia verso la superficie sempre più lontana.
Non poteva morire così. Non voleva.
«Non per colpa sua».
Nuotò verso la riva e quando emerse sputando acqua, si trascinò rantolando nel canneto. Il fuoco che aveva percepito nei polmoni e che credeva fosse l'estremo tentativo del suo corpo di imporgli la sopravvivenza in realtà era un calore che ardeva nel suo petto e che crebbe a dismisura in breve tempo, assieme alla familiare sensazione della rabbia cieca e insaziabile che montava dall'interno per soverchiarlo.
Patria era sull'orlo di perdere il controllo e ne era consapevole, eppure nonostante l'ira crescente e il dolore che provava pensando a Tharazar, sapeva di doversene andare per proteggerlo. Con fatica si alzò dal fango e scappò verso la foresta, arrancando e incespicando.
«Uccidi il traditore!»
«Massacralo!»
«Accetta il mio potere!».
La voce continuava a bombardare il cervello di Patria, che stava ancora tentando di opporre una strenua resistenza per il dominio del suo stesso corpo. Il suo cuore era in pezzi, eppure non desiderava ancora volgersi contro Tharazar.
«Tutto questo non sarebbe successo se mi fossi deciso a parlare prima!» gridò ad un certo punto, voltandosi indietro e guardando verso le cime degli alberi, come se stesse parlando con qualcuno di concreto tanto quanto lui.
Le lacrime gli bruciavano gli occhi.
«La colpa è sua! Il sesso quella notte l'avete fatto in due!» la risposta della voce riecheggiò nella mente del Tiefling con tale forza da spingerlo all'indietro, facendolo inciampare e cadere tra le enormi radici nodose di una specie di quercia contorta.
«Ancora cerchi di proteggere quel verme...? Lui sapeva che tra voi qualcosa era cambiato... e lo sai anche tu. Mentire è inutile. Tharazar deve pagare per il suo tradimento!».
Patria si rannicchiò tra le radici, le lacrime ormai incontenibili.
Era vero. La voce aveva ragione. Anche se aveva cercato di fingere di non vederlo, Tharazar aveva cambiato atteggiamento nei suoi confronti da quella notte. Era qualcosa di più profondo della semplice mancanza di pudore, era come se sapesse che adesso il loro legame era più forte. Non poteva essere una coincidenza; eppure non aveva mai accennato alla cosa.
Il Tiefling si prese la testa tra le mani, digrignando i denti per il dolore.
«Sai che è così. Negarlo è inutile! Lascia che la rabbia penetri... lasciami il controllo!».
«Mai! Tu lo ucciderai!» lo accusò apertamente l'altro.
«... ma tu vuoi esattamente la stessa cosa».
Patria alzò di scatto il capo e fissò il vuoto davanti a sé con espressione terrorizzata. Era vero. La voce aveva ragione ancora una volta. Il suo cuore in frantumi esigeva un prezzo dal suo aguzzino... un prezzo che lui non voleva chiedere.
Che non riusciva a chiedere.
Tharazar era stato la causa di tutto... e la sua fine sarebbe stata la soluzione. Sentiva che era così. Doveva esserlo. Non poteva vivere con quel dolore lancinante che gli gravava sul petto e la consapevolezza di non essere abbastanza neanche per colui che salvato da se stesso e con cui aveva condiviso tutto.
Tremando, il Tiefling chiuse gli occhi e aprì le labbra a comporre un'unica parola: «Vendicami».
Dopo un secondo, la sua bocca si distorse in un ghigno depravato e con una voce ultraterrena ed echeggiante rispose: «Vendicati».
Ancora scosse. Tharazar non ne poteva più. Aveva sonno e il vino che aveva bevuto alla festa nel corso nella notte aveva fatto effetto, regalandogli tutti i sintomi di un post-sbornia senza aver di fatto affrontato le conseguenze immediate.
Con un notevole sforzo di volontà vinse la stanchezza ed aprì gli occhi, ritrovandosi ad osservare il viso di Lilah e la sua espressione beata mentre si godeva la sua erezione mattutina.
In un caso differente si sarebbe potuto sorprendere della libido della sua partner, se non fosse stata la quarta volta che dopo essersi addormentato si risvegliava trovandola ad impalarsi allegramente sul suo cazzo duro. Avevano passato la notte a fare sesso e almeno durante la mattina aveva sperato di poter dormire e riposarsi, ma Lilah non pareva volerlo lasciare in pace.
«Esile come è, speravo si stancasse prima...» gemette tra sé e sé, chiudendo di nuovo gli occhi nel tentativo di riprendere sonno. Sapeva che con un’erezione in corso era difficile che succedesse, ma confidava che la sua mancanza di energia per occuparsene lo aiutasse ad ignorarla, come era successo per i suoi tre passati pisolini.
La sua libido era scemata nella notte e adesso il suo corpo era alla mercé delle stimolazioni fisiche che riceveva dall'esterno, senza che lui vi prendesse attivamente parte. Tutto ciò che poteva fare era sperare di arrivare al punto in cui il suo pene fosse stato talmente usurato da non riuscire più a sollevarsi, togliendo a Lilah ogni motivo per continuare a tornare a cavalcarlo.
Per l'ennesima volta percepì la sua vagina contrarsi mentre la Pixie gemeva con voce acuta, soddisfatta per l'orgasmo.
«Oh, Tharazar...! È fantastico!» sospirò una volta terminato il momento di estasi, piegando il viso per intercettare lo sguardo sfinito del Mezzorco, il quale si affrettò a distoglierlo.
«Cosa c'è? Non ti è piaciuto?» Lilah si chinò a prendergli il mento per costringerlo al contatto visivo «Vedrai che il prossimo sarà ancora migliore».
Tharazar sentì un nodo formarglisi alla bocca dello stomaco alle sue parole. Non poteva stare dicendo sul serio. Non poteva volerne ancora così, senza neanche una breve pausa.
«Non... vorresti dormire un po'...?» propose lui con voce impastata, sforzandosi di suonare persuasivo senza troppo successo.
«Dormire?! Non mi divertivo così tanto da mesi!» esclamò Lilah, sollevando il bacino dal suo quel tanto necessario a far uscire da dentro di sé il suo pene ormai ridimensionato e flaccido «Come pensi che possa dormire avendo un amante così dotato nel mio letto?!».
«Veramente... sarebbe il mio letto...» commentò con un sospiro rassegnato ed esausto il Mezzorco, troppo provato dal sesso perché potesse continuare a sottostare alla sua autorità in silenzio.
Sarà anche stata la Regina dei Pixie, la proprietaria del castello e una grande fan della sua musica, ma fino a prova contraria il cazzo era attaccato al suo corpo e dunque ne era lui il proprietario. Nessuno poteva dirgli come e quanto usarlo.
Nonostante la sonnolenza vide distintamente l'espressione beata della sovrana distorcersi repentina in una smorfia di rabbia infantile e si chiese se non avesse sbagliato del tutto a ribellarsi a lei.
La vide raddrizzarsi su di lui come a voler apparire più intimidatoria; tuttavia, qualsiasi cosa stesse per dire venne preceduta dal rumore della porta che veniva spalancata con violenza. Il colpo fu talmente forte da stordire per un momento il Mezzorco.
«Vostra Maestà! Siamo in pericolo!» gridò la vocetta di Pluma subito dopo, colma di panico.
Dalla sua posizione Tharazar non poteva vederla, ma riuscì a sentirla chiara e forte tanto quanto la Regina. Quest'ultima si volse con uno scatto selvaggio e abbaiò: «Pluma! Nessuno può interrompermi durante il sesso!».
«M-ma Maestà la foresta...».
«Non c'è nessun reale pericolo nel bosco!».
«La foresta è in fiamme!» Pluma pareva mortificata per il rimprovero subito, ma la notizia che recava sembrava spaventarla più della sua sovrana.
«Che cosa?!» chiese Lilah, improvvisamente più calma.
Sia lei sia Tharazar volsero nello stesso momento lo sguardo verso la finestra: buona parte dello sconfinato paesaggio boschivo era coperta alla vista da una spessa coltre di fumo nero che si ergeva in lontananza - probabilmente il motivo per cui non se ne erano accorti anche se non c'era alcun vetro a separare l'interno dall'esterno del palazzo.
«Come è possibile?!» la Regina sembrava aver ricevuto una doccia fredda. Fremeva sopra il suo amante, e stavolta non per il piacere.
In quel momento a Tharazar non interessava minimamente la sua reazione: a dispetto della sbornia, il suo cervello si era ridestato di colpo ricordandogli che la foresta in quel momento non era vuota...
Con uno scatto che gli fece girare la testa, si mise seduto sul letto mandando gambe all'aria la Regina, che rotolò verso il fondo del materasso con un gridolino.
«C'è Patria là dentro!» esclamò costernato.
Il panico lo investì con la forza di un gigante. Benché il suo compagno fosse perfettamente in grado di badare a sé stesso, non poteva rischiare di trovarlo carbonizzato in mezzo agli alberi. Doveva accertarsi che stesse bene.
«Chi...? F-fermo!» Lilah si raddrizzò in tempo per vedere il suo amante alzarsi e barcollare verso l'armadio, in cui la sera avanti aveva riposto i suoi vestiti "da viaggio" «Dove stai andando?!».
Tharazar ignorò le sue domande e le vertigini che lo aggredirono con tale forza da costringerlo in ginocchio sul pavimento. La nausea gli attanagliò le viscere e senza neanche cercare di nasconderlo diede violentemente di stomaco sul tappeto. Lo spettacolo disgustò Pluma al punto da farla svolazzare via. Lilah distolse semplicemente lo sguardo.
Svuotato lo stomaco, il Mezzorco si sentì molto meglio. Riuscì a rimettersi in piedi e ad arrivare all'armadio con passo più fermo ed un mal di testa decisamente più contenuto. Lesto estrasse i vestiti e con movimenti frenetici iniziò a indossarli.
«Dove credi di andare? Non ti ho autorizzato a lasciarmi!» la Regina lo raggiunse alle spalle e lo afferrò per un braccio mentre si infilava in tutta fretta la camicia.
Era certa che fosse ancora manipolabile e che fosse stata di polso duro avrebbe potuto tenerlo ancora al guinzaglio per un po'. Le moine erano utili solo per attrarre gli uomini.
Il Mezzorco diede un forte strattone all'arto, liberandosi dalla sua presa prima di rivolgerle l'occhiata più rabbiosa e sexy che avesse mai visto.
«Vado a salvare il mio compagno! E non ho chiesto il tuo permesso per farlo» dichiarò fermo Tharazar, irritato oltremodo dal suo nuovo atteggiamento.
«I-io sono la tua Regina! Come osi parlarmi così, musico?!» esclamò Lilah oltraggiata, sollevando la mano per dargli uno schiaffo, ma il colpo venne bloccato a metà e non giunse mai.
«Tharazar il Magnifico non sta alle regole di nessuno» scandì con tono sprezzante il Mezzorco «Specialmente di qualcuno che si cura soltanto del proprio piacere e non del partner. Le principesse viziate non ottengono ciò che vogliono coi capricci!».
Ciò detto la lasciò andare. Il gesto fu delicato, a differenza delle sue parole.
«Ora se vuoi scusarmi, devo andare a cercare Patria» disse, prendendo i suoi effetti personali dal fondo dell'armadio e dirigendosi in tutta fretta verso la porta mentre finiva di sistemarsi la camicia nelle braghe.
Alle sue spalle, Lilah vibrava letteralmente, paonazza in viso per l'indignazione.
«THARAZAAAR!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola, la voce tanto acuta da poter frantumare il vetro.
Il diretto interessato per tutta risposta si chiuse la porta alle spalle sbattendola forte prima di cominciare a correre verso l'uscita dal castello.
Il mal di testa non prometteva niente di buono; tuttavia, la sonnolenza e la stanchezza parevano essere state spazzate via del tutto dal pensiero che Patria potesse trovarsi in letale pericolo. Sapeva che era colpa di Lilah se il suo compagno si trovava nella foresta in quel momento anziché al sicuro tra le mura del castello, eppure una parte di lui era convinta che fosse anche colpa sua.
La sera avanti, quando la Regina gli aveva comunicato che Patria non sarebbe arrivato alla festa perché lo aveva spedito nella foresta ad occuparsi di chissà quale problema, lui non aveva fatto niente. Era rimasto lì a suonare, divertirsi, bere e mangiare. Si era sentito tradito da lui per non averlo informato della partenza ma da parte sua non si era minimamente adoperato per cercare di seguirlo. Magari aveva avuto bisogno di lui, forse si era trovato alle strette o in balia di branchi di bestie fatate... e lui non era al suo fianco ad aiutarlo.
Aveva pensato solo a se stesso, alla sua esibizione e al suo tornaconto personale.
«Forse sarebbe già tornato se avessi scelto di partire dietro di lui. Forse ora saremmo insieme, al sicuro» il pensiero si presentò prepotente nella sua mente e il senso di colpa crebbe a dismisura.
«Idiota egoista!» sibilò rivolto a se stesso mentre caricava l'ingresso, bloccato da una sottile ma intricata rete di rampicanti.
Le piante assorbirono l'impatto, al che il Mezzorco ringhiò frustrato, ripetendo l'assalto. Era muscoloso ma non era abbastanza pesante da riuscire a sfondare la barriera con facilità.
«Apriti dannazione! Devo andare!» sbraitò in preda all'ira «Patria ha bisogno di me!».
Afferrò con violenza due rami e tirò, accompagnando il gesto con il più mascolino e rozzo latrato orchesco della sua vita. Divelse i rami centrali, creando un'apertura non molto grande in cui si infilò di getto anche se a fatica, graffiandosi nei resti dei tralci.
Una volta all’esterno, corse. Non era abituato a farlo nonostante la sua prestante forma fisica, per cui finì a corto di fiato prima ancora di essere riuscito ad arrivare a terra. La fatica e i polmoni in fiamme per lo scarso apporto di ossigeno non lo rallentarono minimamente.
Doveva raggiungere Patria, ovunque si trovasse. Era bizzarro per lui preoccuparsi così tanto per qualcuno che non era lui stesso, eppure non riusciva a fare altrimenti. Non si sarebbe dato pace finché non avesse accettato che il suo compagno era salvo.
Una volta giunto a riva, il Mezzorco si infilò lesto tra le fronde, aprendosi la strada con le braccia laddove rami e foglie troppo ingombranti gli sbarravano il passaggio.
Tutta la sua concentrazione era rivolta - almeno per il momento - sul mantenere rapido il passo e inoltrarsi più che poteva nel fitto del bosco, muovendosi nella direzione da cui vedeva alzarsi la colonna di fumo nero e dunque dove presumeva si trovasse la fonte.
Conoscendo Patria e il suo legame con la Natura, se c'era un posto in cui era probabile che lo trovasse, quello era all'origine dell'incendio, intento a trovare la maniera migliore per spegnerlo.
Man mano che si allontanava dal castello Tharazar iniziò a sentire il peso della sua notte insonne gravargli addosso con sempre maggior forza. Le gambe gli dolevano sempre di più e il mal di testa lo tormentava, benché cercasse di concentrarsi sul suo obiettivo e di ignorare i sentori di malessere fisico.
A dispetto della sua preoccupazione e del suo sforzo mantenere il passo veloce durante la corsa, il suo corpo iniziò a dare i primi segni di cedimento. Si ritrovò costretto a dover rallentare per non collassare boccheggiando a terra e a dover prestare il doppio dell'attenzione per non inciampare nelle radici che crescevano rigogliose e selvagge, dipanandosi ovunque sul terreno.
Giunse dopo un lasso di tempo non meglio noto in vicinanza dell'incendio. L'aria era calda e una coltre di fumo nero copriva le cime degli alberi, rendendo nebbiosa la zona. Riuscire a vedere a più di un metro dal suo naso divenne praticamente impossibile, per cui iniziò a procedere con maggiore cautela, sperando di trovare il suo compagno il più presto possibile.
«Patria!» chiamò a voce alta, cercando di rimanere piegato per non arrivare a respirare l'aria contaminata da polveri nere e sottili «Patria sono io!».
Continuò ad andare avanti, raggiungendo un grosso albero dalle radici nodose che crescevano fuori dal terreno, creando una sorta di labirinto che poteva fungere da ottimo nascondiglio.
«Patria! So che sei qui!» chiamò ancora, avvicinandosi ulteriormente all'albero in questione, guardandosi attorno con angoscia sempre maggiore. Se non lo avesse trovato lì, come avrebbe potuto rintracciarlo nel resto della foresta? Quel posto era immenso!
Caso volle che i suoi occhi intercettassero un profilo umanoide in piedi su una delle radici più grosse. Patria indossava sempre un'armatura di piastre che mascherava del tutto il suo fisico; tuttavia, sotto ad essa portava una lunga tunica, per coprire le gambe caprine. Fu proprio la sagoma della "gonna" che Tharazar riuscì ad intravedere attraverso la coltre fuligginosa, e il suo cuore accelerò il battito mentre tentava di raggiungerlo, in preda all'euforia. Si tolse lo zaino e lo lasciò a terra prima di avvicinarsi ulteriormente all'albero. Non voleva rischiare che i suoi effetti personali finissero divorati dalle fiamme nel caso in cui l'incendio si fosse esteso troppo.
«Patria!» esclamò grato «Andiamo. Cosa aspetti? Qui è pericoloso, non possiamo restare ancora!».
L'altro non gli rispose. Balzò giù dal suo trespolo e poi si avvicinò lentamente, emergendo dalla fuliggine con passo stranamente calmo considerata la situazione.
«Patria!» insistette il Mezzorco con impazienza. Stava iniziando a fare troppo caldo e l'aria ad essere sempre meno respirabile. Non avevano tempo per trattenersi ancora.
«Tharazar...!».
L'interpellato si bloccò sul posto udendo la voce echeggiante e ultraterrena del suo compagno rispondergli. Come se ciò non fosse sufficiente, guardandolo in faccia vide i suoi occhi aprirsi ed emanare un bagliore infernale difficile da non captare. Inoltre, al centro della sua fronte era aperto un altro occhio che il Mezzorco prima non aveva mai visto, la cui iride verticale puntava dritta su di lui.
Il suo cuore mancò un battito mentre la bocca del Tiefling si apriva in un ghigno inquietante, rivelando la doppia fila di denti aguzzi cui ormai si era abituato.
«Tu... non sei Patria» riuscì a dire Tharazar. Si scoprì a tremare sul posto, scosso da brividi di terrore allo stato puro.
Senza aggiungere altro, la creatura si mosse con velocità fulminea e il Mezzorco si ritrovò ghermito alla gola dalla solida presa dell'altro, che lo sollevò da terra senza alcuna apparente fatica.
«Non del tutto. Patria è solo... una parte della nostra personalità» dichiarò il Tiefling, continuando a ghignare malignamente verso la sua vittima, la quale si aggrappò con entrambe le mani al suo polso cercando di non morire soffocato nella sua presa.
«Tu... cosa gli hai... fatto?» ansimò Tharazar, scalciando per tentare di raggiungere il terreno.
I suoi inutili tentativi di tornare coi piedi per terra vennero annullati dal suo stesso aguzzino, che approfittò della presa per abbatterlo nella polvere. Il colpo fu talmente violento che Tharazar annaspò in cerca di aria per qualche secondo. Subito dopo, il Patria malvagio era chino su di lui e lo studiava con espressione divertita.
«Io...? Assolutamente niente» rispose con tono grottescamente innocente «Tu? Gli hai spezzato il cuore» soggiunse, sollevandolo e scaraventandolo contro le radici.
Il Mezzorco si rimise con fatica in piedi, ma quando alzò la testa Patria era già lì. Con una zoccolata nello stomaco, lo spinse in un incavo tra le radici.
L'imponente stazza di Tharazar gli impediva di entrare del tutto nella nicchia, per cui finì accasciato su un fianco contro l'estremità cieca.
«Dovrei ringraziarti per questo. Se tu non lo avessi tradito con quella puttana fatata, io sarei ancora intrappolato nel fondo della sua coscienza» esclamò sogghignando il Tiefling, incombendo sull'altro minacciosamente. Gli appoggiò di nuovo lo zoccolo addosso, stavolta in mezzo al torace, poi si piegò su di lui appoggiando sulla gamba più peso possibile.
Tharazar temette che lo zoccolo gli sfondasse lo sterno e cercò di reagire nonostante il suo inconscio cercasse di frenarlo: quello era pur sempre il corpo di Patria e lui non voleva fargli del male. In quel caso però se non lo avesse fatto non ne sarebbe uscito vivo.
Serrò il pugno destro e colpì lo stinco peloso del suo compagno attraverso la tunica con tutta la forza di cui disponeva. Rabbrividì quando sentì il rumore della sua gamba che si spezzava e il ruggito di dolore del Tiefling mentre si accasciava su di lui.
Per un istante la sua voce tornò quella del vero Patria e il Mezzorco senza pensarci due volte aprì le braccia e lo accolse contro il suo torace, sperando che la ferita fosse riuscita a far perdere la presa che la personalità distorta aveva sul corpo.
Le sue speranze andarono in frantumi quando il Tiefling si divincolò dalla sua presa per mettersi in ginocchio su di lui con la faccia distorta dalla furia. Sollevò un braccio e lo colpì con un pugno in faccia.
Vedendo il colpo arrivare, Tharazar chiuse gli occhi ma non poté fare altro. Incassò con un grugnito, e dopo quel primo pugno ne arrivarono altri, sempre più lenti e più pesanti.
Il dolore esplose come una bomba ed ogni centimetro della sua faccia ne fu consumato; tuttavia, col proseguire del pestaggio, l'agonia di ogni pugno cominciò a scemare e uniformarsi, trasformandosi in un dolore sordo e continuo.
«Patria si è arreso a me vedendoti a letto con quella fata» sghignazzò mentre lo picchiava «Quello smidollato non aveva la forza di affrontarti...! Affrontare te, un insulso Mezzorco che non è in grado nemmeno di badare a se stesso. Sei patetico come lui!».
Dal tono della sua voce pareva in preda a qualche delirio e sembrava che quel massacro lo divertisse alla follia.
Tharazar stava iniziando a cedere allo svenimento. Combatteva con tutto se stesso, ma i colpi erano sempre più duri e l'oblio dell'incoscienza appariva come una scappatoia così allettante ai suoi occhi e priva di dolore.
«Che peccato che vi dobbiate separare senza che Patria si possa confessare» sospirò il demone «La rabbia che avrebbe provato quando tu avessi rifiutato i suoi sentimenti... quella sì che sarebbe stata brutale! Il mio lasciapassare per un'eternità di caos e violenza!».
Tharazar aprì gli occhi, nonostante le palpebre gonfie e il sangue che gli annebbiava la vista.
Patria provava dei sentimenti nei suoi riguardi che non aveva trovato il modo di rivelargli. Quella notte in locanda non era stata un'esperienza che aveva toccato soltanto lui. Quei cambiamenti che aveva percepito durante il viaggio, il fatto che fosse più riservato e scostante, era davvero timidezza. Stava cercando la maniera di confessarsi!
E lui, andando a letto con Lilah, aveva rovinato tutto. Era stato un vero idiota. Avrebbe dovuto prendere l'iniziativa e fare il primo passo.
«... avevo paura di essere rifiutato... e adesso Patria è davvero il mostro che tanto temeva di diventare...» commentò tra sé, guardando mentre il "nuovo" Patria caricava il prossimo pugno.
«Mi accontenterò di avere l'onore di ucciderti. Ho sempre desiderato farlo, fin dal primo giorno!» rise il suo aguzzino «Digli addio, Patria!».
Il suo pugno calò violento ma non arrivò a distruggere ciò che rimaneva del suo naso: Tharazar sollevò un braccio e lo frappose tra la sua faccia e la mano di Patria appena in tempo. Frustrato per la reazione, quest'ultimo cercò di colpirlo ancora e di nuovo venne intercettato, seppur debolmente - e stavolta fu il palmo del Mezzorco a farlo. Le sue dita ghermirono la mano di Patria e la strinsero mentre raccoglieva il fiato e le energie che gli rimanevano.
«P-Patria...! So che sei... lì dentro» esalò con immensa fatica «P-perdonami. Non... avevo capito co-come stavano le cose... m-mi dispiace».
«Basta! Sta' zitto!» ruggì il demone, affibbiandogli un pugno con l'altra mano. Pareva particolarmente irritato dal suo tentativo di scusarsi con la sua metà buona, il che poteva soltanto significare che stava agendo bene.
Doveva solo continuare, riuscire a far breccia nelle difese che Patria aveva eretto per proteggersi. Per farlo, non vedeva altra via se non quella del dialogo aperto e sincero. Era giunto il momento che anche lui si confidasse.
«A-alla festa... ti aspettavo... v-volevo con... dividere un segreto... con te» Tharazar tossì, sputando sangue dopo il nuovo pugno, riuscendo a bloccare il successivo «Quindi... te lo dirò ora...».
«Ho detto che devi stare zitto!».
Il demone, incapacitato ad affibbiargli altri pugni, tirò indietro la testa e gli diede una craniata sul naso. Tharazar mugugnò di dolore, ma ormai c'era ben poco che potesse fare per salvarsi, eccetto cercare di far riemergere il vero Patria.
Il suo Patria.
«I-io... non suono solo... l-la fisarmonica...».
«TACI!».
Il Tiefling si divincolò dalla sua presa e lo sollevò sopra di sé, facendo mostra di una spettacolare forza fisica, quindi lo scaraventò oltre la sua schiena, a diversi metri di distanza.
«Non lo riporterai indietro! Non te lo permetterò!».
Tharazar atterrò come un sacco di patate, ogni giunzione e ogni muscolo che gemevano di dolore all'unisono. Aprendo gli occhi, vide che la gamba rotta impediva a Patria di raggiungerlo con la rapidità sovrannaturale che aveva mostrato di possedere poco prima. Doveva essere particolarmente difficile reggersi in piedi con uno zoccolo fuori uso, dato che lo vide arrancare carponi nella sua direzione, trascinandosi nella polvere.
Era la sua occasione di sistemare le cose. Si guardò intorno e vide che il suo zaino non si trovava molto lontano dal punto in cui era atterrato. Si trascinò verso di esso, quindi frugò all'interno fino a che non trovò la custodia del suo violino.
L'aprì con mani tremanti e ne estrasse lo strumento, quindi si levò in piedi, allargando le gambe per mantenere una parvenza di equilibrio. Era difficile, eppure in quel momento la sua forza di volontà era più ferrea che mai.
Patria era quasi arrivato a lui e lo guardava con lo sguardo iniettato di odio e di rabbia.
«Perché non muori?!» sbraitò frustrato.
Per tutta risposta, il Mezzorco sorrise teneramente e posizionò il violino sulla spalla.
«Patria... questo è il vero Tharazar...» ed appoggiò l'archetto sulle corde, chiudendo gli occhi.
Iniziò a suonare una melodia malinconica che iniziò pian piano per poi acquisire vigore. Dovette sforzarsi molto per rimanere concentrato sul suo strumento e non lasciarsi sopraffare dalle sue critiche condizioni fisiche.
Sentì il demone scoppiare a ridere in maniera sguaiata.
«Credi davvero che questo patetico teatrino servirà a convincere Patria a strisciare di nuovo fuori?!» sbottò quest’ultimo, molto più vicino di quanto fosse fino a pochi secondi prima «Il vostro insulso sentimentalismo mi disgusta. Ucciderti sarà ancora più piacevole dopo questa scena stucchevole!».
Tharazar iniziò a cantare, ignorandolo. Stavolta fu molto più semplice che durante le prove davanti allo specchio. La sua voce sgorgò in note alte e femminili con naturalezza, come se fosse davvero una donna.
Patria non poteva rimanere indifferente. Il fatto che non avesse più cantato dinanzi a lui fino ad allora doveva pur significare qualcosa.
All’improvviso si sentì ghermire per la cintura e trascinare verso il basso con violenza. L’aggressione fu talmente inattesa che non riuscì ad opporsi, finendo col cadere in ginocchio davanti a Patria.
Lo vide caricare un altro pugno e colpirlo dritto in mezzo alla faccia. Sentì il naso rompersi e il sangue uscire in nuovi fiotti caldi sul suo viso mentre veniva sbalzato indietro dalla potenza dell’attacco.
Cadde supino poco più in là. Riuscì ad evitare che il violino subisse danni, ma ormai non c’era più niente che potesse fare. Il respiro cominciò a farsi più difficoltoso e lento e di colpo realizzò che la sua fine era incombente.
Così si concludeva la grandiosa vita di Tharazar il Magnifico, Signore dell’Arena di Neverwinter: morto per mano del suo compagno di viaggio posseduto in un bosco magico di un’altra dimensione. Forse era meglio così, se non altro per toglierlo dall’impiccio di dover capire che cosa fare per sopravvivere per il resto dei suoi miseri e pietosi giorni.
Ai margini della sua vista offuscata vide sopraggiungere il suo carnefice, con un ghigno soddisfatto stampato in faccia. Tharazar allungò una mano verso di lui e gli strinse il polso debolmente.
«Patria...» esalò con il suo ultimo respiro, prima di cadere a terra.
Inerte. Immobile.
Il demone dentro il corpo di Patria rise di trionfo.
«Finalmente è morto! L’ho ucciso! Ora sono li…!».
Non riuscì a terminare la frase: percepì qualcosa che cercava di emergere dai più reconditi recessi del suo petto. Provò la sensazione di stare soffocando e seppe che ovunque la coscienza di Patria fosse andata a nascondersi, stava cercando di riprendere il controllo.
«No! No!» gridò, sfuggendo alla mano di Tharazar per stringere il pugno sul petto «Non uscirai di nuovo! Ora… comando… io…!».
La sensazione di soffocamento crebbe ancora, costringendolo prono a terra. Un’emicrania lancinante lo travolse, strappandogli un grido atroce e straziante mentre si aggrappava con tutte le sue forze a quel corpo che aveva rivendicato come suo a titolo indeterminato.
«Patria… sei debole… io sono la… la versione migliore di… te!» sibilò, iniziando a sbavare nello sforzo di rimanere cosciente.
Sentì Patria ribellarsi e il suo potere crescere. Anche se non era in grado di manipolare il suo stesso corpo senza esserne il proprietario effettivo come faceva lui, era comunque in grado di dargli del filo da torcere.
Il dolore crebbe ancora a dismisura e l’oblio lo travolse, recidendo il legame che aveva stabilito col suo “contenitore”. L’occhio al centro della sua fronte svanì e dopo un istante di assoluto immobilismo, Patria rantolò rumorosamente, tornando a respirare.
Era di nuovo se stesso. Era padrone del suo corpo e delle sue azioni… e la prima cosa che fece fu spostare lo sguardo sul corpo inerte che giaceva dinanzi a lui, una mano ancora chiusa attorno all’impugnatura del violino.
«Tharazar?» chiamò, stringendogli la mano libera nella sua. Era fredda.
«Madre Natura, che ho fatto?» gemette, abbandonandosi contro il petto immobile del suo compagno di viaggio. Il suo cuore era fermo e il respiro assente.
«No! No, no, no…!» i suoi occhi si riempirono di lacrime mentre sollevava il capo, guardando il viso di Tharazar, tumefatto e sanguinante «Ero arrabbiato… ma non volevo questo! Credevo che vendicarmi mi avrebbe fatto sentire meglio… che mi avrebbe guarito. E invece continuo ad amarti… ma non potrò mai sapere se tu ricambi!».
Patria si accasciò sul corpo di Tharazar, singhiozzando e piangendo, impregnandogli il gilet macchiato di lacrime.
«Cazzo!» sputò, provando solo odio verso se stesso e la sua debolezza, colpendo con entrambi i pugni il petto del Mezzorco.
Sotto l’impatto, Patria sentì il suo corpo torcersi e un gemito gutturale uscirgli dalla bocca. Confuso e spaventato, il Tiefling si raddrizzò di scatto, appena in tempo per evitare di venire scaraventato via: Tharazar scattò seduto gridando in maniera grottesca e incoerente. Aveva lo sguardo assente e schiumava dalla bocca.
Patria si ritrasse istintivamente, trascinandosi con le braccia per allontanarsi da lui. Aveva paura che qualcosa si fosse impadronito del suo cadavere e volesse utilizzarlo per loschi scopi.
Non poteva sapere quali creature e spiriti vivessero dentro una foresta infuocata di un regno fatato. Poteva essere uno spiritello in cerca di vendetta.
Il grido si spense dopo pochi secondi e il Mezzorco emise un grugnito di dolore, abbassando il viso e portandovi una mano. I capelli lunghi e sporchi di terriccio gli caddero attorno al volto, coprendolo come una tenda.
«Merda… che male...» il Tiefling lo sentì ringhiare sommessamente e poi lo vide alzare la testa verso di lui «Che… cosa è successo?».
I suoi occhi azzurri incrociarono quelli neri come la pece di Patria e per un attimo rimasero incatenati.
«… Patria?» domandò, scioccato.
«S-sei...» l’altro non finì la frase, temendo di risvegliarsi da quella specie di sogno ad occhi aperti se avesse osato constatare a voce alta il miracolo che era avvenuto dinanzi a lui.
Non era posseduto. Era solo vivo.
Strisciò verso di lui e gli si gettò addosso con impeto, abbracciandolo.
«A-ahio. Fai piano! Credo di… avere qualche frat…!» Tharazar non finì di parlare. Patria lo mise a tacere con il più passionale bacio che il Mezzorco avesse mai sperimentato nella sua non così lunga vita.
Non pensava che il suo compagno, timido e pudico come era, fosse in grado di tirar fuori un fervore simile con un bacio.
Patria si schiacciò contro di lui. Le zanne arcuate di Tharazar gli pungolavano gli zigomi pronunciati. Il naso premeva contro il suo mentre cercava di spingersi di più sulla sua bocca. Il sapore del suo sangue si mesceva al salato delle sue lacrime, ma non gli importava. Niente era più importante o urgente di quel bacio.
Il Mezzorco non lo fermò né si ritrasse. Era troppo sorpreso dal fatto di aver ripreso conoscenza quando ormai sapeva di essere spacciato.
Quando il contatto tra le loro labbra si spezzò, Patria esclamò: «Ti amo. Voglio che tu lo sappia, prima che qualche altro stupido scherzo del destino mi impedisca di dirtelo...».
Guardò il suo compagno negli occhi e sorrise, finalmente in pace con se stesso. Si sentiva in imbarazzo, ma non gli importava. Non voleva rischiare di perdere di nuovo l’occasione di parlare, non dopo ciò che era appena accaduto.
Tharazar arrossì dinanzi alla sua espressione quasi beata. Era abituato ai complimenti per il suo aspetto fisico e agli elogi per le sue fantastiche prestazioni sessuali; tuttavia, prima di allora nessuno gli aveva mai detto apertamente di amarlo.
Avvertì per la prima volta in vita sua la gioia di essere accettato esattamente per quel che era e non per ciò che sapeva fare o per come appariva. Patria voleva lui, in tutta la sua interezza, e la cosa lo mise in soggezione.
«A-anche a me… tu piaci» rispose il Mezzorco, incapace di formulare un discorso più complesso. Le sue guance stavano avvampando sotto gli strati di sangue raggrumato «E-e anche se non lo credi possibile… sei perfetto come sei adesso, Patria. N-non cambierei niente di te… nemmeno se potessi».
I globi neri che erano gli occhi del Tiefling si allargarono e le sue labbra sottili fremettero mentre altre lacrime andarono a rigare le sue guance.
Tharazar si ritrasse leggermente, a dispetto del dolore che accompagnava ogni suo minimo movimento.
«Troppo sdolcinato?» domandò a disagio.
Patria tornò ad abbracciarlo, affondando il viso nel suo gilet. Non gli rispose, non verbalmente almeno. La sua presa vigorosa era sufficiente a comunicare quanto avesse apprezzato le sue parole melense.
Il Mezzorco sollevò lo sguardo e parve ricordarsi solamente allora che c’era una foresta che stava prendendo fuoco attorno a loro.
«Patria… mi dispiace interrompere questo momento… ma l’incendio si sta propagando...» fece presente con una smorfia «Che cosa facciamo?».
Il Tiefling sibilò irritato, sollevando il capo per controllare a sua volta la situazione, che purtroppo non era rosea.
«Voi non potete fare niente. Non nelle vostre attuali condizioni».
I due si voltarono insieme verso la fonte della voce: la Regina Lilah era appena arrivata, accompagnata da Pluma. Indossava un vestito aderente e corto e aveva i capelli raccolti in un complicato chignon che le permetteva di non averli d’intralcio.
La sovrana avanzò fino a superare i suoi ospiti, frapponendosi tra di loro e la fonte dell’incendio.
«Questa è la mia foresta. Io sono responsabile della sua incolumità» dichiarò con voce ferma, cominciando a muovere le mani per lanciare un incantesimo.
«Lilah? Sei davvero… tu?».
Da oltre l’enorme albero teatro dello scontro tra Tharazar e Patria fece capolino una figura caprina che al Tiefling era familiare. Si trattava del Satiro che aveva incontrato più a nord e che si era rifiutato di combattere.
La Pixie interruppe il suo incantesimo.
«Sei ancora vivo?! Come…?» esalò quest’ultima, scoccando poi un’occhiata di sbieco a Patria «Perché sei tornato?».
«Sono un Satiro, Lilah. Proteggo il mio habitat dalla distruzione...» il diretto interessato si avvicinò alla sua interlocutrice, lentamente e con fare del tutto innocuo «Non pensavo che saresti… intervenuta di persona».
«Questo è il mio dominio. Non posso permettere che bruci!» ribatté stizzita Lilah, al che il Satiro le si fece dappresso e le sorrise con fare audace.
A Patria ricordò in maniera inquietante alcune smorfie che Tharazar gli rivolgeva di quando in quando.
«Non ricordavo fossi così coraggiosa» commentò il Satiro «Permettimi di assisterti in questo compito» aggiunse, baciando il dorso della mano di lei.
Quest’ultima emise un sospiro compiaciuto e frivolo.
«Be’, questa sì che è una piacevole sorpresa...» replicò Lilah, avvicinando il viso al suo.
Tharazar notò con la coda dell’occhio Patria esibirsi in una smorfia di disgusto e seppe che era il momento di intervenire per trarsi d’impiccio prima di assistere a qualcosa di più spinto di una riunione d’emergenza.
«Scusate… noi feriti dove dobbiamo spostarci mentre voi risolvete la faccenda?» chiese con tono volutamente alto, allo scopo preciso di interrompere l’atmosfera romantica tra i due.
Patria lo guardò e poi sorrise; Lilah gli scoccò un’occhiataccia di traverso.
«Pluma, accompagnali al castello. Che i guaritori si occupino di loro...» la Regina liquidò la faccenda con un semplice gesto della mano «Dunque… dove eravamo rimasti?» disse, tornando a parlare al Satiro.
Pur non nutrendo la minima simpatia per i loro ospiti, Pluma si vide costretta ad obbedire ad un ordine impartitole direttamente dalla sua sovrana.
Con l’aiuto della magia, riuscì a rimettere Tharazar e Patria in piedi e a farli tornare con sé a palazzo. Mentre si allontanavano, zoppicando e aggrappandosi l’un l’altro e ai sostegni magici che li circondavano, Patria strinse la mano di Tharazar e mormorò: «Grazie per averli interrotti...».
L’incendio fu domato. Occorse del tempo perché fosse del tutto estinto ma Lilah ed il suo aiutante ci riuscirono.
Tharazar e Patria non furono nelle condizioni di assistere al ritorno della coppia di “eroi”: non appena giunti nelle capaci mani dei guaritori, vennero rimessi in sesto quel tanto necessario a scampare qualsiasi pericolo e poi lasciati a riposare.
Tharazar crollò addormentato ancora prima che i Pixie avessero finito di sistemarlo. Patria riuscì a rimanere sveglio mentre gli sistemavano la gamba fratturata e solo dopo andò a stendersi affianco al suo compagno.
A dispetto dell’essersi assopito più tardi, Patria fu il primo dei due a svegliarsi, a sera inoltrata. Il Mezzorco russava ancora al suo fianco e non pareva intenzionato a destarsi nell’immediato futuro.
«Sei sveglio, finalmente… cominciavo ad annoiarmi di aspettare...».
Patria spostò lo sguardo da Tharazar per volgerlo al fianco del letto: a pochi metri da esso era stata posizionata una poltroncina imbottita, attualmente occupata dalla Regina.
«Vostra Altezza» il Tiefling chinò brevemente il capo «Voleva parlare con me?».
Lilah si alzò in piedi, lasciando che i capelli si srotolassero sul pavimento, come un mantello. Si avvicinò a lui e gli sorrise con fare freddo.
«Non fare finta di niente. Sai che sono qui per l’incarico che ti ho assegnato… e che tu non hai svolto» la Regina parlava a voce bassa ma in tono deciso.
«Quel Satiro non è un demone e io non sono un mercenario» dichiarò con calma e fermezza Patria «D’altro canto Vostra Altezza converrà con me che sia stato un bene che non abbia ucciso quel Satiro» soggiunse, e stavolta non poté fare a meno di parlare in tono irritato.
Nell’immediato, Lilah tacque, scrutandolo con cipiglio cupo e altezzoso, tanto che Patria temette di aver osato troppo. Non voleva di certo offendere la proprietaria del castello presso cui stavano recuperando le forze, specialmente considerato che era stato lui - o meglio, il suo lato demoniaco - a dare origine all’incendio.
Non lo aveva detto a nessuno, nemmeno a Tharazar. Probabilmente gliel’avrebbe raccontato in seguito, quando si fosse ripreso, dato che dopo gli ultimi eventi non voleva più avere segreti con lui. A Lilah non l’avrebbe di certo confessato, né ora né mai.
Stava per scusarsi per il tono delle sue parole quando la Regina dei Pixie ruppe il suo silenzio con un: «Hai ragione… e di questo ti sono immensamente grata».
Patria sbatté le palpebre, confuso.
«Davvero?».
«All’inizio volevo solamente toglierti di mezzo per poter giacere con Tharazar... e poi ti ho voluto sfruttare per vendicarmi dell’uomo che mi aveva abbandonata» Lilah confessò le sue reali intenzioni con assoluta nonchalance, come se stesse raccontando una fiaba. Era evidente che fosse avvezza a manipolare le persone senza doverne mai affrontare le conseguenze.
Patria aggrottò le sopracciglia con diffidenza. Era pronto a intervenire nel caso in cui potesse diventare una minaccia per se stesso o il suo compagno; tuttavia, la fata continuò soltanto a parlare: «E poi lui è venuto da me, nel bosco. Mentre tu e il Mezzorco non eravate tra i piedi, abbiamo legato di nuovo. È stato come la prima volta che ci siamo conosciuti. È stato emozionante».
Lilah inspirò a fondo e poi sorrise ancora, questa volta con fare soddisfatto e compiaciuto.
«Non sarebbe mai successo se Tharazar non fosse corso a cercarti. Se non ti fossi stupidamente esposto al pericolo non avrei ritrovato l’amore e il fervore che solo un Satiro sa darmi… e per questo, ti ringrazio».
Patria si costrinse a tacere. Implicitamente e a sua completa insaputa, lo stava ringraziando di aver appiccato un incendio potenzialmente letale per tutti loro nella sua foresta. Non avrebbe chiesto scusa, non a colei che aveva appena ammesso di averlo manipolato per poter andare a letto con Tharazar e vendicarsi del suo ex amante.
«Di niente, Vostra Altezza» rispose, e furono le parole più sincere che avesse mai pronunciato in sua presenza.
«Non mi piace avere debiti con i mortali» ammise subito Lilah senza tanti convenevoli «Dunque direi di risolvere la questione quanto prima. Non appena il Mezzorco si sarà ripreso, organizzerò una festa a palazzo… in modo che anche tu possa assistere ad una delle sue splendide esibizioni musicali».
Patria la guardò con espressione sorpresa. Non si aspettava un simile gesto di gentilezza da parte di una persona che lo aveva considerato niente più che un banale ostacolo ai suoi capricci fino a non molto tempo prima. In fin dei conti l’aver protetto la vita del Satiro si stava rivelando una decisione saggia sotto molti punti di vista.
«Come Vostra Altezza desidera» replicò il Tiefling in tono apatico. Non aveva intenzione di darle alcuna soddisfazione in merito alla sua ostentata “magnanimità”.
Lilah serrò le labbra con cipiglio quasi offeso e se ne andò dalla camera, lasciandoli da soli.
Patria la seguì con gli occhi finché non ebbe chiuso la porta alle sue spalle, quindi tornò ad osservare il suo compagno ancora profondamente addormentato e decise di lasciarlo riposare in pace. Si alzò e si spostò zoppicando per la stanza con l’aiuto di una stampella, andando a recuperare la sua armatura.
Ritornò presso il baldacchino e si accomodò nella poltrona, quindi si mise a pulire le piastre di metallo. Non voleva farsi trovare impreparato quando fosse venuto il momento di sfoggiare la sua “armatura buona”.
Rating: Arancione
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico, Sentimentale
Personaggi: Patria (OC!Tiefling Paladino), Tharazar (OC!Mezzorco Bardo)
Wordcount: 28'416 (wordcounter)
Timeline: Ambientata dopo questa.
Note: Dub-con, Het, Violence, Yaoi
«La prego di perdonare Pluma, signor musico. Quel che voleva dire era che Sua Maestà Lilah, Regina dei Pixie, desidera avervi come suo ospite a corte e di poter assistere ad una vostra esibizione, come quella di questa notte».
Tharazar sgranò gli occhi e aprì la bocca ma senza emettere alcun suono mentre le sue guance assumevano una preoccupante sfumatura rossa, piuttosto inusuale per lui.
Patria inarcò entrambe le sopracciglia con aria stupita e intrecciò le braccia sul petto.
«Ti sei esibito per loro, stanotte?» domandò in tono di finta incredulità «E non mi hai svegliato...».
«Non è così!» replicò fermo il suo compagno «Ti ho detto che avrei voluto suonare ancora un po’ durante la guardia! Non c’era nessuno!».
«Ormai le giornate durano pochissimo...».
Patria sospirò mentre ravvivava il piccolo falò circoscritto che aveva allestito al centro della piccola radura in cui lui e il suo compagno di viaggio avevano eletto a luogo per trascorrere quella notte. Sul fuoco aveva sistemato un piccolo pentolino in cui stavano bollendo svariate piante e radici insieme a sporadici pezzi di carne. L’odore di cibo aleggiava nell’aria già da un po’, preannunciando l’imminente cena.
Il Mezzorco con cui viaggiava era seduto su un sasso poco distante ed era intento a suonare una fisarmonica piuttosto piccola per le dimensioni delle sue mani. L’esibizione era niente male e lui pareva assorto e rilassato al tempo stesso, distratto da tutto ciò che gli accadeva attorno.
Patria lo osservò di sottecchi, in silenzio: da quando si erano lasciati alle spalle la locanda in cui avevano consumato il loro primo vero rapporto sessuale, Tharazar era diventato ancor più spavaldo nelle sue piccole stranezze. La sua già estremamente bassa soglia del pudore era scesa ulteriormente, tanto che il Tiefling si sorprendeva del fatto che ancora utilizzasse dei vestiti per andare in giro; in aggiunta a ciò, pareva molto meno restio a suonare in sua presenza, come se fare sesso avesse abbattuto un qualche muro invisibile che gli impediva di esibirsi mentre viaggiavano.
Al contrario delle sue discutibili abilità canore, la musica di Tharazar era piacevole ed era palese che fosse il frutto di un talento innato oltre che di anni e anni di pratica. Vedendolo suonare si aveva anche la sensazione che il Mezzorco riuscisse ad incanalare la stanchezza e il malcontento in maniera proficua. Pareva fosse per lui una sorta di valvola di sfogo, un modo piuttosto originale per uno della sua razza di rilassarsi.
Patria lo ascoltava tutte le sere, senza mai interromperlo finché non se ne presentasse il bisogno. Nel frattempo, i suoi pensieri ritornavano ossessivamente a ciò che era accaduto tra loro in locanda.
Ciò che in un primo momento gli era parso un notevole e inatteso sviluppo in positivo della loro relazione, col trascorrere dei giorni gli sembrava sempre più un increscioso errore. Il Tiefling avrebbe voluto affrontare la questione a viso aperto ma si vergognava di farlo, non sapendo quanto la cosa fosse importante per il suo compare. D'altro canto, l'apparente mancanza di interesse in materia da parte di quest'ultimo gli faceva presupporre che lui stesso non desse molto peso alla questione. Visto il suo passato come "Signore dell'Arena", probabilmente era abituato ad avere storie da una notte con tutte e tutti quelli che aveva d'intorno. Quel pensiero alimentava ulteriormente i suoi dubbi e lo rendeva ancor più titubante nel parlare dell'argomento.
La zuppa cominciò a bollire. Nello stesso istante, Tharazar concluse il brano che stava suonando all'improvviso ma con una chiusura che pareva molto naturale, come se avesse davvero finito il pezzo.
«È pronto, vero?» domandò, aprendo gli occhi e posandoli su Patria con espressione carica d'aspettativa.
«Sì, è pronto» sbuffò l'altro, togliendo il pentolino dal falò e apprestandosi a servire la cena in due piccole scodelle che si portava sempre appresso «Sta' attento che brucia ancora...».
Il Mezzorco accettò il piatto che gli veniva porto e, con la grazia di un signore, ne aspirò un sorso dal bordo della scodella, in attesa che il suo compagno gli allungasse anche un cucchiaio.
«Buona» commentò, leccandosi il labbro superiore «Almeno la carne gli dà un po' di sapore...».
«Sono contento che almeno per stasera tu sia soddisfatto» replicò pacatamente Patria, iniziando a mangiare a sua volta.
Sentiva che c'era qualcosa di sbagliato nel loro modo di rapportarsi in quel momento. Era come se si fosse venuto a creare un nuovo ostacolo tra di loro che impediva di avere la stessa piacevole intesa che si era instaurata per un breve periodo prima che si fermassero presso la locanda.
Tharazar era molto meno suscettibile e molto più equilibrato, eppure pareva diverso e Patria non se la sentiva di indagare sul motivo. Aveva paura di cosa potesse venire fuori da un simile confronto.
Non voleva sapere se era stato solo l'avventura di una notte di follia o se davvero il Mezzorco provava qualcosa per lui, semplicemente perché immaginava che le probabilità propendessero paurosamente per la prima opzione e lui non si sentiva pronto a soffrire, non per colpa di Tharazar, non dopo tutto il tempo che avevano trascorso insieme e dopo tutti i segreti che gli aveva confessato.
Si era aperto troppo con lui in quel periodo per poter accettare di essere niente più che uno strumento per appagare il suo bisogno di sesso.
«Chi fa il primo turno di guardia?» domandò, cercando di scacciare il tumulto di pensieri che gli affollava la mente.
«Lo faccio io» si offrì subito l'altro, deglutendo rumorosamente un gustoso bocconcino di carne «Voglio suonare ancora un po' e se lo faccio nel cuore della notte rischio di attirare l'attenzione di qualche bestia notturna...» spiegò subito dopo.
Era un ragionamento sensato, addirittura troppo per essere stato partorito dalla sua mente. Patria si complimentò con se stesso per essere riuscito ad inculcargli un po' di buon senso nonostante sembrasse un'impresa impossibile da realizzare.
«D'accordo, nessun problema» Patria annuì, per poi tornare a mangiare silenziosamente la sua porzione di zuppa.
Consumarono la cena in silenzio, quindi il Tiefling si posizionò sul terreno nella maniera più comoda che riuscì a trovare e, avvolto nella sua pesante tunica rinforzata di placche di metallo qua e là, cercò di addormentarsi.
Tharazar rimase immobile e taciturno per un po', seduto sul suo masso a contemplare le tenebre al di là dei cespugli e degli alberi che delimitavano la radura. Voleva che Patria si addormentasse prima di riprendere a suonare, dato che non voleva disturbare il suo sonno.
Il fatto che di recente avesse ripreso a dilettarsi con i suoi strumenti musicali non era imputabile tanto ad una vera nostalgia per quell'hobby appartenente al suo illustre passato quanto piuttosto alla necessità di tenere la mente impegnata in qualcosa che era per lui inequivocabilmente piacevole. Pur essendo i suoi strumenti una sorta di estensione naturale di se stesso e dunque non gli richiedessero un alto livello di concentrazione per essere utilizzati - a meno che non dovesse cercare di impressionare qualche spettatore - esibirsi assorbiva abbastanza energia da permettergli di distrarsi dalla consapevolezza di trovarsi in uno stato di precario equilibrio emotivo.
Non si aspettava che Patria tacesse così a lungo riguardo a ciò che era accaduto tra di loro in locanda, né tantomeno si aspettava che tornasse ad essere così freddo e scostante nei suoi riguardi. Era stato a dir poco fenomenale, attento e passionale. Nessuna delle sue precedenti concubine aveva ricevuto un trattamento del genere da lui durante la loro prima notte di sesso, eppure Patria non pareva esserne rimasto contento né pareva voler chiedere il bis.
«Forse si vergogna... del resto, sono un grande esperto, deve sentirsi in soggezione» si era detto tante volte, cercando di liquidare in breve il problema.
In realtà quella giustificazione non gli bastava. Temeva che ci fosse dell'altro dietro il nuovo atteggiamento del Tiefling e una parte di lui non voleva sapere di cosa si trattava. Era riuscito ad uscire da un lungo tunnel di notti passate a crogiolarsi nell'autocommiserazione e nella certezza che qualsiasi cosa facesse fosse sbagliata.
Patria era riuscito a insegnargli come sopravvivere nella foresta, a fargli capire che con un po' di pazienza poteva riuscire laddove la sua ignoranza del mondo lo ostacolava.
Quella notte nella locanda si era sentito padrone della situazione, aveva preso le redini ed aveva guidato Patria nel loro primo amplesso. Aveva sperato di poter fare la stessa cosa che Patria aveva fatto per lui, dato che era risultato palese che il suo compare soffrisse di una grave carenza di amor proprio.
Non sembrava aver ottenuto niente e non voleva rischiare di affrontare Patria a viso aperto sul tema dato che non voleva sentirsi confermare il suo fallimento.
Scosse il capo e si colpì le guance coi palmi aperti.
«Non pensarci. Non è così... è solo timido...» si disse con forza, cercando di convincersi della veridicità del pensiero.
Erano passati diversi minuti e Patria respirava regolarmente e a volume leggermente più alto del solito. Non era come se russasse; tuttavia, il Mezzorco aveva trascorso con lui notti a sufficienza da saperlo riconoscere come il segnale che stava dormendo.
Strinse la presa sulla sua fisarmonica, ma anziché riportarla alla bocca la ripose nello zaino, dal quale invece estrasse una custodia nera con la metà inferiore simile ad un otto panciuto e quella superiore allungata e più sottile. Era piuttosto ingombrante se paragonata allo strumento appena messo via. La superficie lucida denotava un'infinita cura nella conservazione, a dispetto delle circostanze in cui si trovava.
Tharazar accarezzò l'esterno e per un momento le sue labbra fremettero, come se stesse per piangere. L'aprì, rivelando un violino di legno scuro al suo interno. Il design raffinato e antico lasciavano presupporre che fosse un pezzo costoso e pregiato. Sopra le corde era appoggiato di traverso un piccolo archetto nero.
Il Mezzorco estrasse lo strumento e si alzò in piedi, lasciando sullo zaino la custodia vuota. Fece qualche passo allontanandosi da Patria e si mise in posizione con un movimento fluido ed elegante, un evidente riflesso divenuto spontaneo in anni di ripetizione.
Il fondo arrotondato della cassa scivolò subito nell'incavo tra spalla e collo, bloccandosi nella posizione più comoda per l'esecuzione.
Tharazar chiuse gli occhi e sollevò l'archetto. L'appoggiò sopra le corde, senza neanche guardarle, e cominciò a suonare.
Le note acute dello strumento si librarono nell'aria, abbracciandolo e calmandolo, spezzando il tetro silenzio notturno. Tutti i suoi pensieri e le sue preoccupazioni parvero svanire come per magia, spazzati via dalla melodia del suo violino.
Aveva iniziato solo di recente a suonarlo di nuovo, successivamente alla notte in locanda. Riusciva a placare la sua inquietudine come nient'altro al mondo. Desiderava davvero rivelare a Patria il suo amore per quello strumento all'apparenza così delicato e femminile; tuttavia, non riusciva a farlo. Aveva passato tutta la vita nascondendo a tutti la sua passione per il violino e smettere di farlo così bruscamente non era semplice. Nascondersi mentre lo suonava era un comportamento radicato in profondità in lui, per cui tutto ciò che sperava era di essere scoperto. Lo voleva e lo temeva.
Il brano iniziò lento, quasi timido, per poi acquistare il ritmo di una danza di coppia, morbida e seducente. L'archetto di Tharazar accarezzava le corde e le sue dita si spostavano sull'estremità delle corde rapide.
Il Mezzorco dopo un po' cominciò ad oscillare sul posto, spostando il peso da un piede all'altro secondo il ritmo scandito dalla sua stessa musica. Sembrava quasi che ballasse da solo, lui ed il suo violino, avvinti in un magico attimo di solitudine.
Benché Tharazar non riuscisse a udire nient'altro al di fuori della sua musica in quel momento, questa non era abbastanza alta da riuscire a penetrare il sottobosco e raggiungere l'udito dei predatori che si annidavano nelle tenebre distanti dall'accampamento; tuttavia, riuscì a catalizzare l'attenzione di qualcuno.
Se il Mezzorco fosse stato attento ai paraggi, sicuramente non avrebbe potuto non notare lo sfarfallio lucente che si librava a mezz'aria sopra i cespugli al limitare della radura. Le creaturine assistettero a lungo all'esibizione di Tharazar senza che lui si accorgesse del suo pubblico, rimanendo ferme dove si trovavano, senza avvicinarsi.
Il Mezzorco suonò ininterrottamente per un'intera ora, rapito dalla bellezza dei brani che eseguì in successione. Non sentiva il dolore delle braccia tenute sollevate troppo a lungo e nemmeno male al polso o al collo. Il suo corpo pareva immune a qualsiasi tipo di sensazione che non fosse la pace dei sensi.
Quando l'esecuzione terminò ed aprì gli occhi, gli spettatori se ne andarono, svelti e silenziosi come erano giunti, sfrecciando via tra gli alberi.
Tharazar si girò a guardare Patria, che ancora dormiva. I corti riccioli neri gli coprivano quasi del tutto il viso e le corna rosse e ritorte spiccavano alla flebile luce del falò. Le placche di metallo rilucevano di arancio e proiettavano i guizzi delle fiamme.
Il Mezzorco sospirò e andò a riporre il suo strumento, prima di tornare a sedersi sul suo masso, sul quale trascorse il resto del suo triste e solitario turno di guardia.
L'indomani mattina, Tharazar venne svegliato da scosse frettolose. Era ancora inebetito dal sonno e sul momento cercò di scrollarsi di dosso la mano di Patria per rimettersi a dormire.
«... lasciami dormire... ancora un pochino...» bofonchiò a mezza voce, girando la testa altrove.
«Tharazar! Svegliati, forza!» udì sibilare al suo compagno di viaggio, prima di subire un altro scuotimento feroce «Vogliono te!».
Il Mezzorco aggrottò le sopracciglia, confuso dalla sua ultima affermazione. Con gli occhi quasi del tutto chiusi tanto erano gonfi di sonno e i lunghi capelli neri spettinati, si mise seduto sul prato girandosi nella direzione da cui erano pervenute le scosse di Patria.
«… eh? Chi mi vuole…?» chiese, cercando di mettere a fuoco la scena circostante.
Vide il suo compagno di viaggio e vide anche che non era effettivamente da solo: vicino a lui c’erano… delle lucciole?
Si stropicciò gli occhi, perplesso, e stavolta riuscì a vedere distintamente che a mezz’aria si trovavano delle creaturine umanoidi dotate di ali, la fonte del luccichio che aveva erroneamente scambiato per quello di insetti. La cosa sorprendente era che fosse così visibile nonostante fosse già giorno.
Erano alte poche decine di centimetri e parevano vestite in maniera elegante e a tema boschivo.
«Chi sono questi…? Amici tuoi?» domandò d’istinto il Mezzorco, sbadigliando vistosamente.
Patria gli scoccò un’occhiataccia di sbieco.
«Sono Pixie, folletti della foresta» spiegò con tono spazientito.
Uno di loro, una femmina dai capelli rossi e ricci intrecciati di fiori gialli con indosso un vestitino rosa, svolazzò verso Tharazar e si fermò dinanzi al suo viso.
«La nostra regina richiede la tua presenza a palazzo, menestrello» esclamò in tono di sussiego.
Patria rise, anche se cercò di trattenersi più che poté.
L’espressione confusa e assonnata di Tharazar lasciò spazio ad un cipiglio dapprima scettico e poi irritato.
«Menestrello?!» ripeté, punto sul vivo dall’appellativo «Non sono un musicista qualunque! Io sono Tharazar il Magnifico, Signore dell’Arena di Neverwinter. Non accetto che mi si paragoni ad un buffone girovago!» sbottò, di colpo sveglio «E non accetto ordini da nessuno».
Un’altra Pixie, una femmina dai capelli biondi e il taglio corto e sbarazzino, volò vicino alla sua simile e si appoggiò alle sue spalle, abbracciandola per poi sporgersi a guardarla con un cipiglio di divertito rimprovero.
«Pluma non essere scortese!» la rimbrottò, accennando con la mano esile verso Tharazar «Il signor musico è una persona importante e Sua Maestà vuole assistere ad una sua esibizione».
La Pixie di nome Pluma sollevò il mento con aria snob e tacque, al che l’altra si fece avanti e aggiunse, rivolgendosi direttamente al Mezzorco: «La prego di perdonare Pluma, signor musico. Quel che voleva dire era che Sua Maestà Lilah, Regina dei Pixie, desidera avervi come suo ospite a corte e di poter assistere ad una vostra esibizione, come quella di questa notte».
Tharazar sgranò gli occhi e aprì la bocca ma senza emettere alcun suono mentre le sue guance assumevano una preoccupante sfumatura rossa, piuttosto inusuale per lui.
Patria inarcò entrambe le sopracciglia con aria stupita e intrecciò le braccia sul petto.
«Ti sei esibito per loro, stanotte?» domandò in tono di finta incredulità «E non mi hai svegliato...».
«Non è così!» replicò fermo il suo compagno «Ti ho detto che avrei voluto suonare ancora un po’ durante la guardia! Non c’era nessuno!».
«È stato fantastico! Sublime! Nessun viaggiatore ha mai suonato così bene e con tanta dedizione prima di lei, signor musico!» lo elogiò la Pixie bionda.
Patria lo aveva sentito suonare la fisarmonica. Riconosceva che era bravo ma non avrebbe mai osato giudicare le sue prestazioni con lo strumento “piene di dedizione”. Di una cosa però era certo: tutti quei complimenti non sarebbero passati inosservati all’attenzione del diretto interessato.
Vide infatti che alle parole della fatina, l’espressione imbarazzata e perplessa del Mezzorco cedette il posto al suo solito sorrisetto tronfio e arrogante, con cui aveva ormai fin troppa confidenza.
«Be’, in effetti… sono effettivamente bravo, è comprensibile che chiunque possa essere impaziente di assistere ad una delle mie performance» gongolò Tharazar, raddrizzando le ampie spalle muscolose «Avete detto… Regina?».
«Esattamente. Sua Maestà sarebbe orgogliosa e onorata di potervi avere a corte» rincarò la Pixie bionda, esibendosi in un sorriso raggiante..
Era fatta. La fata non ci aveva messo poi molto a giungere alla conclusione che per ottenere l’accondiscendenza del Mezzorco bisognasse lusingarlo. Patria stesso aveva messo in pratica la medesima strategia per riuscire ad ottenere dei risultati differenti da un infinito circolo vizioso di grattacapi.
Rimproverare e approcciare Tharazar in maniera dura e autoritaria era inutile. L’unico modo di renderlo docile e collaborativo era riempirlo di complimenti per qualsiasi comportamento “buono” e minimizzare i suoi errori, onde evitare ricadute di depressione.
Tharazar guardò Patria con un misto di determinazione e di arroganza prima di alzarsi lesto in piedi, scuotendosi la terra dalle braghe e dalla camicia.
«Dunque andiamo, no?» esortò in tono disinvolto, parlando direttamente al suo compagno di viaggio.
«Hai deciso tu per entrambi?» chiese quest’ultimo con un velo d’irritazione nel tono. Era evidente che gli desse fastidio il non essere preso in considerazione in merito a tale decisione.
«Non mi sembrava che tu fossi incline ad esprimere un parere contrario» fece presente il Mezzorco con una scrollata di spalle, minimizzando la cosa «... o mi sbaglio?».
Il Tiefling lo fissò con cipiglio cupo per qualche secondo; dopodiché si rivolse ai Pixie che erano rimasti in disparte, vicini a lui: «La corte della regina… dove si trova esattamente?».
A rispondergli fu un maschio dal corpicino esile e i capelli lunghi e castani.
«Il palazzo non si trova nella vostra dimensione. Vi condurremo noi lì» spiegò semplicemente, con tono pacato.
A giudicare dallo sguardo, Patria non pareva molto soddisfatto della risposta ricevuta.
«Intendevo... si trova in una città?» chiese, cercando di non dare troppo a vedere la sua impazienza.
«Il palazzo è isolato e separato dal vostro mondo. Solo tramite un portale che si trova qui nella foresta potrete raggiungerlo... e senza di noi non potrete aprirlo» esclamò lo stesso Pixie.
Probabilmente l'avere a che fare con persone che non afferravano i concetti era una maledizione destinata a perseguitare Patria fino alla fine dei suoi giorni. Non aveva la forza di controbattere: in fin dei conti, aveva ottenuto l'informazione che voleva, anche se non proprio nella maniera che si aspettava.
Il Tiefling assunse un'espressione sconfortata che durò solo pochi secondi prima di mutare in una di semplice rassegnazione.
«Va bene. D'accordo... andiamo» sospirò.
Tharazar sorrise trionfante e la Pixie bionda saltellò a mezz'aria, evidentemente altrettanto lieta della decisione.
«Allora seguiteci. Da questa parte!» disse, cominciando a svolazzare verso il margine della radura.
Il Mezzorco non si fece certamente supplicare: con falcata ampia e svelta si mise al seguito della fatina, senza perdere il suo sorriso di trionfo. Patria non lo sopportava proprio quando aveva quell'espressione in faccia.
Con molto meno entusiasmo, il Tiefling si apprestò a seguirli per non rimanere da solo in coda al gruppetto. Assieme a lui si mossero anche gli altri Pixie, affiancandolo.
Percorsero un buon tratto di foresta. Lungo la strada lo stomaco di Tharazar ebbe modo di protestare per la mancata colazione in maniera esaustiva. I continui brontolii fecero da sottofondo all'intera processione verso il luogo di contatto tra la dimensione "mortale" e quella del regno fatato.
La baldanza iniziale di Tharazar venne stroncata di netto dall'incessante borbottare della sua pancia vuota. Tentò di sopprimere il rumore coprendosi l'addome con le braccia; tuttavia, si rese ben presto conto che era del tutto inutile e lasciò perdere, limitandosi ad assumere un cipiglio fortemente imbarazzato.
Patria si accorse del cambio di atteggiamento del suo compagno senza alcuna difficoltà. In fin dei conti, era una scena cui aveva già assistito più e più volte nelle ultime settimane.
Nonostante le più recenti vicissitudini occorse tra di loro, il Tiefling non riuscì a rimanere indifferente dinanzi al disagio manifestato dal Mezzorco in quel frangente.
Gli si affiancò e a mezza voce commentò: «Anch’io muoio di fame e sarei contento di fermarmi a sgranocchiare qualcosa...».
Tharazar gli scoccò un’occhiata di traverso e accennò un sorriso, che stavolta non era del tipo arrogante e pieno di sé, bensì colmo di gratitudine. Non disse niente, si limitò solo a quello.
Dopo ciò, Patria notò un miglioramento nel suo contegno, che tornò ad essere un po’ più sicuro e spavaldo. I brontolii del suo stomaco continuavano imperterriti ma stavolta pareva che non gli importasse.
Dopo quasi un’ora di cammino arrivarono ai piedi di un immenso albero, che Patria riconobbe essere una quercia.
Tharazar si fermò accanto a lui, appuntandosi le mani sui fianchi e sollevando lo sguardo verso i rami, alti persino per la sua statura.
«Dobbiamo scalare l’albero?» chiese alle fatine, accennando con una mano verso la chioma della pianta «Si trova lassù il vostro palazzo?».
«Non siamo così volgari da costruire le nostre dimore tra le cime degli alberi, come molti di voi mortali ingenuamente credono» rispose Pluma in tono piuttosto acido e seccato, svolazzando verso un’apertura piuttosto ampia tra due gruppi di grosse radici. Ad un’analisi più attenta, in corrispondenza di quel punto il tronco appariva più liscio e piatto rispetto alla normale superficie cilindrica, persino - e Patria per un momento ipotizzò fosse soltanto una sua impressione - un poco infossato, come se un tempo ci fosse stato incassato qualcosa.
Il Mezzorco assunse un cipiglio corrucciato alla replica della Pixie, evidentemente punto sul vivo dal non proprio implicito insulto insito nell’affermazione. Intrecciò le braccia nerborute e grugnì sommessamente, rimanendo in attesa.
Il resto dei Pixie si unì a Pluma dinanzi alla zona bizzarra della quercia e cominciarono tutti insieme ad intonare una canzone in una lingua che né Patria né Tharazar avevano mai udito prima. Le parole erano musicali e fluide e venivano pronunciate con una cadenza morbida, facendole sembrare ancor più delicate e melodiose.
Tharazar arrossì constatando l’effettiva bravura nel canto di tutti loro e poi paragonandola con il suo pessimo e ridicolo tentativo. Sempre di più si pentiva di aver provato a cantare per la prima volta nella sua vita al di fuori delle confortevoli e sicure mura dei suoi alloggi presso l’Arena di Neverwinter.
Lanciò una breve occhiata a Patria e notò con suo sommo dispiacere la sua espressione quasi rapita dallo spettacolo dei Pixie canterini. Una fitta di gelosia gli trapassò il cuore al pensiero che non lo avrebbe mai guardato alla stessa maniera durante una simile esibizione.
Tornò a concentrarsi sulle fatine, cercando di seppellire il suo odio sempre più spinto per le sue corde vocali del tutto sbagliate. La canzone stava prendendo forza e il ritmo stava accelerando. Attorno ai Pixie iniziarono ad apparire delle luci rosate che presero a danzare nell’aria, formando un cerchio che si allargò sempre di più, allontanandosi da loro e avvicinandosi al tronco della quercia.
Patria ipotizzò si trattasse di un qualche rituale tipico della loro razza per giungere al palazzo, qualcosa di cui soltanto loro erano capaci. Subito dopo il suo cervello realizzò che senza di loro - o meglio, senza il loro consenso - non sarebbero stati in grado di tornare indietro.
«Forse avrei dovuto oppormi a tutto questo» commentò tra sé e sé, improvvisamente assalito da forti dubbi circa la loro deviazione dal viaggio; tuttavia, ormai era troppo tardi per recriminare.
Tutto quel che poteva fare era sperare che così come li stavano accogliendo li lasciassero anche ripartire.
Le luci rosa si allargarono ancora, disponendosi sul tronco a formare un’ellisse piuttosto grande considerata la minuta statura dei Pixie. Poi all’improvviso all’interno della figura il legno si dissolse, lasciando il posto ad un’apertura vuota e nera che pulsava di magia, una sorta di ingresso.
«Da questa parte, mortali» Pluma si voltò a guardare con aria altezzosa i due ospiti rimasti indietro prima di procedere attraverso il varco, senza attendere che altri si facessero avanti.
I Pixie restanti volsero gli sguardi verso i loro ospiti, al che questi ultimi si guardarono a loro volta.
«Be’, suppongo sia inutile temporeggiare» commentò Tharazar, avviandosi spavaldo al portale, che pareva un po’ troppo piccolo per la sua imponente stazza.
Vedendolo muoversi, Patria si riscosse dalla trance in cui era caduto durante il rituale e si affrettò a seguirlo.
Il Mezzorco si fermò dinanzi al varco e si piegò fin quasi a strisciare in ginocchio per riuscire ad infilarsi all’interno.
«Potevate farlo un po’ più alto...» brontolò a mezza voce quando finalmente riuscì ad entrare.
Patria ebbe più problemi con l’armatura che per la stazza, dato che piegarsi con il torso quasi del tutto immobilizzato in un caparace di metallo non era proprio il massimo; tuttavia, riuscì a sgusciare all’interno con molta meno difficoltà del suo compare.
Il Tiefling non aveva mai sperimentato un viaggio tramite portale, per cui si aspettava chissà quale scombussolamento fisico o mentale. Fu piacevolmente sorpreso di constatare che non c’era niente di particolare o più strano del semplice gesto di attraversare una porta. L’unica differenza fu che prima si trovava in una normale foresta e adesso attorno a lui si estendevano piante magiche. Riusciva a percepire il potere che le impregnava e che ne aveva alterato le caratteristiche fisiche come se fosse un’aura visibile e palpabile che le permeava esteriormente.
Patria osservò i tronchi sottili e rosati, circondati da una corolla di radici contorte simili a tentacoli che affondavano nel terreno solo per metà e sormontati da chiome talmente fitte di foglie dai colori innaturali da far scomparire del tutto i rami.
I tronchi erano radi a sufficienza da permettere di vedere in lontananza cosa ci fosse. Si riusciva a scorgere senza problemi una enorme radura illuminata di viola e d’azzurro, ma oltre a ciò niente.
Tharazar era andato avanti di qualche metro e stava osservando uno degli alberi più da vicino.
«Rosa? Perché proprio rosa...?» lo sentì borbottare Patria mentre lo raggiungeva.
«Sono piante infuse di magia. Immagino sia una scelta stilistica del detentore del reame...» intervenne il Tiefling con un sospiro rassegnato, apparendo alle spalle del Mezzorco, facendolo sobbalzare via per lo spavento.
«Pa-Patria! Mi hai fatto quasi morire d’infarto!» gemette il poveretto, portandosi sconvolto una mano sul petto mentre respirava affannosamente «Come hai fatto a raggiungermi così di soppiatto con quell’armatura pesante addosso?!» chiese poi in tono inquisitorio.
L’altro stava per ribattere, scocciato dal suo atteggiamento improvvisamente frivolo, ma si zittì vedendo i Pixie raggiungerli a loro volta.
«Prego, signori ospiti, l’ingresso a palazzo è da questa parte» disse la Pixie bionda, guidandoli.
Attraversarono il rado bosco fatato fino a giungere nella radura avvistata già a distanza da Patria. Arrivando al limitare della stessa, quest'ultimo - e con lui anche il suo accompagnatore - poté constatare che non si trattava tanto di una normale radura quanto piuttosto di un lago interamente abbracciato dalla vegetazione magica. Sul margine dello specchio d'acqua crescevano rigogliosi canneti e tra di essi, ad intervalli regolari, si ergevano enormi fiori dai petali violacei e grossi quanto foglie di palma. Al centro si trovava un singolo e grosso pistillo tondeggiante e rosa che si innalzava al di sopra del resto della pianta per irradiare una forte luce che rischiarava il cielo crepuscolare sopra di loro.
Molto probabilmente il tempo lì scorreva in maniera differente rispetto a quello della loro dimensione, altrimenti non avrebbe saputo spiegarsi come mai fosse già quasi notte se erano partiti in mattinata dal loro accampamento.
Dinanzi a loro si dispiegava un ponte in pietra, sottile e arcuato, che terminava su una piattaforma rotondeggiante che pareva letteralmente poggiata sull'acqua e alla quale giungevano altri tre ponti simili a quello. I due laterali conducevano ad altri punti di arrivo sulle sponde; quello dirimpetto al loro invece terminava in una terrazza che abbracciava la base del più colossale e maestoso albero di mangrovia che Patria avesse mai avuto occasione di vedere nella sua vita.
Le enormi radici percorrevano decine di metri prima di affondare nel lago e il tronco era talmente massiccio da essere stato utilizzato per creare quello che doveva essere il "famoso" palazzo della regina dei Pixie. Nel legno erano state intagliate molte aperture, arcuate e dotate di piccole logge, dislocate su ben tre differenti piani. Il quarto era separato dagli altri da una mensola in pietra - o almeno così pareva da quella distanza - sorretta da escrescenze luminose dell’albero stesso.
Attorno al margine della piattaforma su cui poggiava il piano terra si trovavano delle lanterne fatte esattamente come i pistilli dei fiori sulla riva ed erano già tutte accese, illuminando quasi a giorno la “facciata” del palazzo, al cui interno erano già accese altre luci.
Dall’estremità superiore del tronco partiva un fascio i rami che si apriva ad ombrello per terminare in una chioma di foglie violacee. Altri pistilli pendevano, a varie altezze, dalle fronde più basse.
«È enorme...» commentò Patria, avanzando fino al margine del lago, accecato dalla naturale bellezza di ciò che aveva dinanzi. Non aveva mai visto niente di così armonioso e bello in vita sua. Mai aveva pensato che la civiltà e la natura potessero coesistere in maniera tanto splendida e maestosa.
«Diamine, lo è davvero…!» concordò Tharazar, rimanendo indietro rispetto al suo compagno «… non è un po’ troppo grande per gente delle vostre dimensioni?» domandò poi a voce alta e senza il minimo riserbo, rivolgendosi alla loro scorta.
Pluma non lo degnò di nient’altro di uno sbuffo snob mentre si dirigeva a palazzo, sfarfallando sopra lo specchio d’acqua e rimanendo circa all’altezza del viso del Mezzorco per tutto il tempo.
«Signor musico, questo è il palazzo di Sua Maestà. Non può essere una costruzione che non sia all’altezza della sua persona!» rispose in maniera più garbata la Pixie bionda.
Patria captò un senso nascosto dietro le sue parole, ma non riuscì ad identificarlo del tutto, per cui tacque in merito. Piuttosto, commentò: «Se fosse stato grande quanto loro non credo saresti stato invitato...».
Tharazar colse l’ironia pungente nel suo tono di voce e gli scoccò un’occhiata di blando rimprovero a cui seguì una sommaria scrollata di spalle.
«Un normale palazzo non sarebbe all’altezza delle mie esibizioni!» asserì per tutta risposta «Possiamo andare? La mia arte freme nell’attesa di essere espressa».
La Pixie bionda saltellò attorno al Mezzorco e ridacchiò eccitata.
«Sì, sì, signor musico! Da questa parte...».
Si avviarono lungo il ponte. Soltanto Patria rimase indietro, gli occhi ridotti a due fessure nere come la notte e le labbra serrate in una smorfia di bieco risentimento. Ogni istante che passava lì si pentiva sempre di più di aver acconsentito ad accompagnare Tharazar. Il suo ego smisurato che di recente il Tiefling pareva essere riuscito a domare, adesso era tornato a soverchiare ogni altro lato della sua personalità, tutti migliori e soprattutto più sopportabili.
Come se ciò non fosse abbastanza a far sentire inutile Patria, il Mezzorco pareva talmente abbagliato dai complimenti e dalle moine da travisare completamente lui, quello che lo aveva accompagnato per non meno di un mese di viaggio nel bosco e che gli aveva insegnato a vivere e sopravvivere.
Guardando il suo compagno che si allontanava, Patria fu tentato di girare i tacchi e trovare la maniera di andarsene e lasciarlo al suo “glorioso destino” da musicista in quella dimensione parallela. A fermarlo fu una fitta di gelosia all’idea di rinunciare al Mezzorco e cederlo senza nemmeno uno sforzo a quelle fatine incontrate per caso.
Non sapeva se a Tharazar importava della loro relazione in senso romantico - e Patria arrossì appena nel definirla in quel modo - ma nonostante tutti i suoi dubbi in proposito, non poteva mollare adesso. Non voleva farlo.
Tharazar gli avrebbe dato una risposta. Doveva farlo e finché non lo avesse rifiutato non lo avrebbe lasciato andare per niente al mondo.
Rinnovato nelle sue convinzioni, il Tiefling si affrettò a raggiungere gli altri prima che si allontanassero troppo. Correndo sulle pietre del ponte, i suoi zoccoli producevano un rumore secco ed echeggiante che non poteva passare inosservato in alcun modo, ma in quel momento non gliene importava. In altre circostanze si sarebbe fermato o avrebbe cercato di camminare con passi più leggeri, ma non adesso, con Tharazar che veniva letteralmente sedotto dai complimenti dei Pixie.
Riuscì a raggiungerlo quando ormai erano sulla cresta del ponte e lesto si mise al suo fianco, la coda lunga e glabra che frustava nervosamente l’aria.
Continuava a non essere considerato, a giudicare da come l’altro stava ancora parlottando con la fatina bionda. Patria digrignò i denti, esibendo un breve scorcio della doppia fila armi affilate come rasoi che di solito cercava di nascondere dietro le labbra.
Gli dava fastidio essere ignorato in maniera così palese. Non riusciva a sopportarlo. Era più forte di lui, doveva fare qualcosa.
Prima che la sua mente riuscisse a fermarlo, il suo corpo agì, impulsivamente: Patria sollevò una mano e la portò dietro la schiena di Tharazar, verso il suo culo e ne palpó una chiappa.
Il Mezzorco percepì distintamente il tocco del Tiefling e la cosa lo colse talmente di sorpresa che volse lo sguardo a Patria, evidentemente confuso, e si arrestò di colpo dove si trovava, all’inizio della parte in discesa del ponte.
«Ah! Si è accorto!» gioì tra sé e sé Patria; tuttavia, nella sua euforia non registrò il fatto che l’altro si fosse fermato. Non aspettandosi una reazione così drastica, la mano che aveva saldamente stretto attorno alla sua natica lo trattenne dal proseguire. Peccato che avesse già messo avanti lo zoccolo e che la pietra fosse in discesa.
Il contraccolpo fece sì che lo zoccolo slittasse sul selciato e gli facesse perdere l’equilibrio. Cadde all’indietro, ma i riflessi di Tharazar furono così rapidi che riuscì a chinarsi ed afferrarlo prima che colpisse col fondoschiena il ponte.
Benché fosse appesantito dal metallo dell’armatura, il Mezzorco lo rimise in piedi con impressionante facilità, restando in piedi dirimpetto a lui. Le sue mani rimasero poggiate sui fianchi snelli di Patria mentre i loro sguardi si incrociavano.
Il cuore del Tiefling cominciò a martellare nel suo petto come se volesse uscire. Era come paralizzato, con ancora una mano attaccata al culo del Mezzorco.
«Bacialo! È il momento giusto! Dovrà dire qualcosa se lo fai, forza!» fu il pensiero che invase la mente di Patria pressoché subito.
Prima che il suo corpo potesse muoversi e le sue labbra annullare la breve distanza che le separavano da quelle di Tharazar, quest’ultimo parlò: «Questi incidenti non capitavano a me di solito...?».
Le sue parole, seppur pronunciate con tono suadente, giunsero a Patria come una secchiata d’acqua gelata. Qualsiasi tipo di pensiero o di predisposizione romantici nei suoi confronti finì nel dimenticatoio, soverchiati e rimpiazzati completamente da rabbia e risentimento.
Tharazar ebbe pure la faccia tosta di sorridergli con fare seducente, ma ormai il danno era fatto, pur non sembrandone consapevole. Il Tiefling serrò con forza le labbra e il suo sguardo cambiò drasticamente in un battito di ciglia.
Sollevò uno zoccolo e calpestò con violenza un piede al Mezzorco, strappandogli un grido di dolore. Gli lasciò la natica e riprese ad avanzare con cautela ma decisione.
«E allora continua a fare attenzione a dove metti i piedi!» esclamò a voce alta e irritata, quasi urlando, passando in testa al gruppetto.
Tharazar saltellò sul posto, mordendomi il labbro inferiore e sollevando lo stivale in modo da poter arrivare a toccarsi il piede dolorante. Per fortuna aveva abbastanza equilibrio in quel momento da non finire col culo per terra.
Osservò la figura di Patria che si allontanava attraverso un leggero velo di lacrime, che cercò di ricacciare virilmente indietro.
«Ma che ho detto di sbagliato?!» si chiese, stupito dalla sua reazione. Sarebbe dovuto arrossire e poi avrebbe dovuto abbracciarlo o addirittura baciarlo. Era un’occasione perfetta per farlo!
«Forse non se la sente di baciarmi con degli spettatori… è così timido...» pensò poco dopo, sospirando sonoramente.
Di nuovo percepì l’impellente bisogno di coccolare Patria, proprio come era accaduto alla locanda, ma al contrario di allora stavolta riuscì a trattenersi. Le condizioni non erano le più adatte per un simile sviluppo.
Visti i palesi problemi che il Tiefling manifestava di continuo nell’esternare i suoi sentimenti con lui, Tharazar si chiese se non avesse dovuto fare di nuovo lui la prima mossa. Forse in tal caso sarebbe riuscito a dargli una spinta nella giusta direzione.
«In fin dei conti, non è la prima volta che metto in soggezione qualcuno… anche se di solito sono membri del gentil sesso...» ponderò tra sé.
La Pixie bionda arrivò in volo verso di lui, posandosi sulla sua coscia piegata orizzontalmente in avanti, interrompendo il filo dei suoi pensieri. Dalla sua espressione pareva particolarmente preoccupata per lui.
«Signor musico, vuole che faccia scortare via il suo compagno?» chiese, cogliendo alla sprovvista il Mezzorco con un tono di voce piuttosto duro.
Il diretto interessato la guardò per un istante, muto e attonito, prima di rispondere con un frettoloso: «Nono! Ci mancherebbe, non farlo. Non è successo niente di così grave...».
Si ricompose alla svelta al meglio che poté prima di riprendere a camminare, cercando di ignorare il dolore e di non zoppicare, nemmeno velatamente.
Non voleva che Patria si perdesse la sua esibizione. Desiderava con tutto se stesso che fosse nel pubblico e che saziasse il suo sguardo con la sua impeccabile performance. Voleva che lo sentisse suonare e che si rendesse conto di quanto fosse realmente bravo.
Doveva vederlo suonare il suo violino, sentire di cosa erano capaci le sue mani. Era convinto che dopo il suo spettacolo si sarebbero riavvicinati e forse sarebbe addirittura riuscito a spingere Patria a rivelare apertamente i suoi sentimenti.
Arrivarono finalmente alla piattaforma principale, irradiata dalle luci dei “lampioni” floreali e da quelle provenienti dalle finestre e dalla porta del palazzo.
Non servì molto affinché i due nuovi arrivati si rendessero conto del fatto che non esistevano vetri a protezione dell’interno del palazzo. Ogni apertura nel tronco era vuota e - almeno a livello teorico - utilizzabile come ingresso. Le fatine li condussero a quella centrale, più ampia delle altre, tanto che persino Tharazar coi suoi due metri d’altezza riuscì ad attraversarla senza dover neppure abbassare il capo.
L’atrio era una sala enorme di forma circolare, con le pareti curve che terminavano in una cupola. Il legno - bianco e quasi confondibile con la pietra - era stato intagliato in un elegante motivo floreale in cui erano anche state incastonate numerose pietre preziose al posto dei petali disegnati. Al centro del soffitto era appeso un grande lampadario di cristallo con molteplici braccia foggiate a mo’ di steli. Le basi per le piccole sfere di luce magica erano fiori colorati e parevano acuire la già strabiliante capacità dei globi di sprigionare luce.
Lungo le pareti si trovavano statue di creature della foresta di svariate taglie. Una grandiosa scalinata conduceva ad un soppalco con ringhiera.
Una solitaria figura attendeva con i gomiti puntellati su di essa, snella ed eterea nella sua esotica bellezza. Si trattava di una donna longilinea, coi capelli di un biondo talmente chiaro da apparire quasi bianchi, lunghi fino alle caviglie e liscissimi. Aveva gli occhi a mandorla azzurri come il cielo delle limpide mattine invernali e il viso affusolato con il mento appuntito e gli zigomi alti, quasi nobili. Il tratto peculiare del suo volto era il fatto che gli occhi fossero sproporzionati rispetto al nasino all’insù e alle labbra sottili, talmente grandi da catalizzare totalmente l’attenzione quando i due nuovi arrivati li incrociarono.
Il suo incarnato era candido come la neve. Pur essendo snella, i fianchi e il seno parevano particolarmente accentuati nella sua figura. Indossava un lungo abito lilla con un corpetto ricamato in pizzo che metteva in risalto la sua vita stretta e la gonna a sirena ricoperta di brillantini. Le maniche erano semitrasparenti, cucite solo all’altezza delle ascelle al resto dell’abito e con le estremità talmente ampie da arrivare a sfiorare il pavimento, proprio come l’orlo della gonna.
La particolarità che colpì particolarmente i due ospiti fu che la sconosciuta era alta quasi quanto Patria, pur dando l’impressione di essere una Pixie a tutti gli effetti.
Inizialmente pareva annoiata; tuttavia, si raddrizzò immediatamente alla vista di Patria e Tharazar, e la sua espressione divenne carica di eccitazione in un lampo.
Unì le mani sottili con fare deliziato e si affrettò a precipitarsi giù dalle scale. I capelli svolazzavano come un mantello a mezz’aria mentre si muoveva. I suoi passi svelti sui gradini produssero il rumore tipico dei tacchi, inconfondibile alle orecchie del Mezzorco dato che ne aveva utilizzati anche lui in passato.
«Finalmente siete arrivato, signor musico!» esclamò con la sua soave voce femminile e delicata, simile ad una carezza invisibile «I miei sudditi avevano annunciato il vostro arrivo con tale entusiasmo…!».
Doveva essere la regina che li aveva invitati, non c’erano dubbi.
Tharazar mosse un passo verso di lei e fece per inchinarsi galantemente al suo cospetto ma la donna gli passò davanti senza degnarlo della benché minima attenzione, dirigendosi invece verso Patria.
Gli si fermò davanti e gli prese entrambe le mani tra le sue, guardandolo in viso con espressione carica di trepidazione.
Tharazar aggrottò le sopracciglia, offeso dall’essere stato ignorato in maniera tanto plateale. Che quei due si conoscessero già…?
Per la prima volta in vita sua, il Mezzorco si sentì trafiggere da un sentimento che era al tempo stesso di possessività nei confronti di Patria e di pura rabbia per lei.
La sua mente gli imponeva di correre a separarli e mettere in chiaro che c’era lui assieme al Tiefling in quel momento e che nessuna poteva mettergli i piedi in testa; tuttavia, il suo corpo rimaneva rigido nella sua postura da inchino.
Non doveva mancare di rispetto, altrimenti sarebbe andata in fumo la sua unica possibilità di potersi esibire per qualcuno di importante e forse riuscire a guadagnarsi di nuovo un posto nell’alta gerarchia sociale, ristabilendo la sua precedente condizione agiata.
Serrò la mandibola con forza, cercando di rimanere in silenzio.
«Non immaginavo che adesso servisse indossare un abbigliamento tanto resistente, signor musico! Nella dimensione mortale non apprezzano la buona musica?» esclamò la donna con aria perplessa.
Patria, inizialmente confuso dalle attenzioni della femmina, spalancò gli occhi realizzando il suo ingenuo errore. La loro scorta pareva essersi dileguata appena varcato l’ingresso - e lui se ne era accorto soltanto allora - per cui non c’era nessuno che potesse correggerla senza rischiare di sembrare scortese.
Nessuno eccetto lui… e Tharazar.
Il Tiefling ebbe soltanto un istante per lanciare un’occhiata allarmata al suo compagno prima che quest’ultimo si ergesse in tutta la sua notevole altezza con uno scatto colmo di stizza.
Era riuscito a contenere l'impulso di allontanare quella donna da Patria, con incredibile sforzo di autocontrollo, ma a quelle parole doveva reagire.
«Sono io il "signor musico" che aspettava!» esclamò irritato, sollevando il mento con un lampo di sfida negli occhi azzurri.
Patria poté giurare di vedere il suo labbro inferiore vibrare appena in un ringhio sommesso e a stento trattenuto. Era consapevole del suo egocentrismo e del suo narcisismo e sospettava che lo scambio di persone avrebbe potuto alterarlo, ma non pensava che avrebbe reagito in maniera tanto impulsiva e stupida.
Con la sua avventatezza rischiava di mettere entrambi nei guai.
La donna si volse a guardarlo con le sottili sopracciglia arcuate in un'espressione di ingenua sorpresa. Evidentemente non si aspettava che parlasse.
Prima che la situazione capitolasse del tutto - Tharazar aveva intrecciato le braccia sul petto e pareva aspettarsi delle scuse nell'immediato - Patria parlò: «Mi dispiace che ci sia stato un equivoco... io non so suonare. Né cantare. È lui che i... vostri sudditi... hanno scortato alla vostra presenza».
Sperava di essere riuscito a suonare abbastanza educato e convincente: a giudicare dal suo sguardo, pareva restia a reputare Tharazar in grado di suonare, per qualche motivo che a lui sfuggiva completamente.
La regina passò rapidamente lo sguardo tra i due maschi per qualche secondo, confusa, come se si aspettasse che da un momento all'altro uno di loro decretasse riuscito un qualche scherzo. Il suo atteggiamento indispose il Mezzorco a tal punto che emise un sordo ringhio con la gola che parve quasi riecheggiare nel silenzio che era calato sul terzetto.
Il Tiefling avrebbe desiderato essergli accanto per assestargli un'altra poderosa zoccolata sui piedi. Si stava comportando di nuovo come un ragazzino viziato e capriccioso. Aveva data per superata quella fase a seguito della dura esperienza nei boschi, ma evidentemente non era così. Avrebbero dovuto lavorarci ancora, se fossero usciti indenni dalla corte dei Pixie, obiettivo verso il quale il Mezzorco non stava contribuendo affatto.
Dopo quella che parve un'eternità, la regina lasciò andare le mani di Patria per andare incontro a Tharazar.
«Mi scuso per il fraintendimento, signor musico! È così... raro... che un talento come quello che mi è stato descritto sbocci tra quelli della sua razza...» esclamò la Pixie, chinando appena il capo dinanzi al diretto interessato.
Patria fremeva, ormai rimasto in disparte: era palese che, pur essendo la sovrana, non fosse avvezza a misurare le parole quando parlava. Di sicuro i suoi sudditi non recriminavano in sua presenza nemmeno dopo essere stati insultati; tuttavia, ciò non era applicabile ad ospiti provenienti "dall'esterno".
Doveva però ammettere che quello era l'insulto più vezzoso e cortese che avesse mai sentito pronunciare in vita sua.
Lesse l'indecisione negli occhi e nell'atteggiamento di Tharazar. Sembrava combattuto e al suo compagno non fu difficile immaginare il tipo di scontro interiore cui era sottoposto in quel momento. Sperava soltanto che vincesse il suo buonsenso, se ne aveva.
Ad alleggerire la tensione tra i due ci pensò lo stomaco del Mezzorco, che si produsse in un rumoroso brontolio che lo fece diventare paonazzo in viso.
Patria sospirò e si colpì il viso con il palmo della mano, esasperato: se ancora la regina non era del tutto convinta dei suoi pregiudizi nei confronti dei Mezzorchi, sicuramente la cosa avrebbe spazzato via ogni dubbio in merito.
Tharazar arretrò di mezzo passo, portandosi una mano all'addome per riflesso, quindi esclamò: «Volete che mi esibisca subito... sì?».
Dal tono pareva che la stesse supplicando di farlo suonare... e in effetti era proprio così. Incapace di trovare un valido argomento su cui vertere la discussione per distrarre la regina dall'imbarazzante brontolio del suo stomaco vuoto, Tharazar sperava di poterle dimostrare il suo valore senza che la sua attenzione indugiasse su questioni di minor conto.
La regina lo fissò in silenzio per qualche secondo - e il diretto interessato pregò che il suo stomaco tacesse per non peggiorare ancora la situazione - e infine si pronunciò: «Oh, sì signor musico. Si esibisca... oh, ma non qui!».
La Pixie saltellò al fianco del Mezzorco e si aggrappò senza alcun riserbo al suo braccio, attirandolo verso di sé per avere una presa migliore, quindi si guardò attorno come se si aspettasse di trovare qualcuno che però non c'era.
«Pluma? Pluma! Dove sei finita?!» chiamò in tono contrariato «Vieni subito qui!».
Dalla sommità delle scale giunse in volo l'antipatica fatina che li aveva accompagnati fin lì. A giudicare dall'occhiata astiosa che rivolse al braccio del Mezzorco intrappolato tra gli arti snelli della sovrana, non pareva molto contenta di come si era sviluppata la situazione.
«Sì, Vostra Altezza...?» chiese con voce fastidiosamente carezzevole. Si sentiva quanto finto fosse il suo comportamento servizievole, anche se non si poteva sapere se era solo una cosa temporanea per la presenza di ospiti o se fosse sempre tale.
«Chiama a raccolta gli altri cortigiani, che si radunino tutti nella sala da pranzo! Il signor musico si esibirà a breve» comunicò la sovrana, emozionata lei stessa dalla notizia che aveva appena dato.
«Subito Maestà» annuì la suddita, facendo per svolazzare via.
«E... Pluma?» la bloccò ancora la regina, lanciando un'occhiata a Tharazar rapida e divertita «Dai l'ordine che la cucina prepari un buon pasto per i nostri ospiti... il signor musico è affamato».
Patria vide chiaramente le guance del Mezzorco diventare di un grigio così scuro da sembrare quasi nere mentre arrossiva, all'apice dell'imbarazzo. Pluma gli rivolse a sua volta uno sguardo, anche se nel suo si leggeva sarcasmo e scherno allo stato più puro.
«Come desiderate» disse quest'ultima, prima di inchinarsi profondamente e poi volare via al piano superiore.
La regina sospiro, estasiata, stringendosi appena al massiccio braccio muscoloso di Tharazar. A Patria parve per un istante che stesse quasi palpandogli l'avambraccio, valutando la sua fisicità.
«Possiamo andare, signor musico. Da questa parte».
Così dicendo guidò la coppia di ospiti su per i gradini. Il Tiefling seguiva in silenzio, osservando i due davanti a lui con una punta di divertimento: il suo compagno non pareva molto a proprio agio in quel frangente, nonostante le attenzioni fossero tutte per lui.
Pur non essendo Patria di indole malevola né incline ai dispetti, si sentiva gratificato dalla scena ed era curioso di vedere lo svilupparsi degli eventi.
Se da parte del Tiefling c'era del genuino divertimento, da parte del Mezzorco c'era prevalentemente ansia da prestazione, con incredibile sorpresa del diretto interessato stesso.
Non si era mai sentito tanto agitato prima di una esibizione, nemmeno quando attendeva il suo turno di uscire in arena, a Neverwinter. Non riusciva a spiegarsi l'improvviso desiderio di essere da tutt'altra parte, in mezzo al bosco dei comuni mortali in compagnia di Patria, troppo impegnati nel viaggio e nel non finire invischiati in paludi malsane e tra i rampicanti velenosi per consentirgli di esibirsi.
«Stai reagendo in maniera esagerata» si disse, cercando di allontanare l'inquietudine «Ti sei esibito in posti grandi il doppio di questo e sei stato fantastico! Andrà alla grande, la regina impazzirà per te! Avrai la corte intera ai tuoi piedi!».
«Signor musico, non vi sentite bene? State tremando...».
Il commento della regina penetrò oltre il guscio che Tharazar aveva inconsapevolmente eretto a sua stessa protezione, estraniandosi del tutto dalla realtà che lo circondava. Si riscosse come da un sonno durato troppo poco e abbassò lo sguardo sulla femmina appesa al suo braccio, che lo guardava con espressione preoccupata.
Patria taceva ma seguiva la vicenda, improvvisamente allerta. Non era normale che il suo compagno tremasse in quel modo, né che apparisse così visibilmente agitato.
Si sentì di colpo inutile, non potendogli stare al fianco in quel momento; tuttavia, era pronto ad intervenire a sostegno del Mezzorco se lo avesse reputato indispensabile.
«Per gli Dei, quanto mi ha cambiato conoscerlo...!» sospirò, rassegnato all'idea di non essere più in grado di ignorare i suoi problemi.
Tharazar cominciò a balbettare senza riuscire a comporre una parola di senso compiuto per diversi secondi. Gli occorse un poco prima di poter dire: «E-ehm... può chiamarmi Tharazar... e darmi del "tu"».
Era palese che la risposta fosse incongruente con la domanda che gli era stata posta. Non serviva un genio per capirlo e persino uno sconosciuto di passaggio si sarebbe reso conto della cosa. Patria aggrottò le sopracciglia, insospettito dallo strano atteggiamento. Doveva esserci qualcosa che gli ronzava nella testa, ma allo stato attuale non era in grado di indovinare di cosa si trattasse.
Inspiegabilmente, fu il solo a manifestare perplessità e interesse per la bizzarra circostanza: la regina rimase a fissare il suo accompagnatore per qualche secondo ancora, prima di scoppiare a ridere in maniera leziosa.
«Va bene, Tharazar» disse, continuando a camminare, stringendosi ancora un poco al suo braccio.
Attraversarono un lungo corridoio illuminato a giorno da altre lampade a tema floreale, stavolta disposte sulle pareti ed intervallate da quadri che ritraevano paesaggi boschivi in varie ore del giorno.
Giunsero infine in una ampia sala con un lungo tavolo posizionato al centro, con tre candelabri dorati sopra di esso e circondato da un'infinità di sedie dallo schienale alto, anch'esse dorate. Un'altra porta a doppio battente si apriva nella parete alla sinistra rispetto a quella da cui entrarono. Un lampadario gigante - molto simile a quello nell'atrio - pendeva dal soffitto, ed era già ovviamente acceso. Per il resto la stanza era del tutto vuota.
«Quanto incredibile spreco di spazio...» fu il primo pensiero di Patria quando vide il posto.
La regina si staccò finalmente dal braccio del Mezzorco per correre verso il tavolo. Andò a sedersi su una delle sedie a metà del lato più lungo e rivolse un'espressione di trepida aspettativa al suo ospite.
«I miei sudditi hanno intessuto lodi per ore riguardo la tua musica, Tharazar. Ti prego, suona» lo esortò.
Come in risposta ad un segnale tacitamente convenuto, la porta che fino ad allora era rimasta chiusa si aprì e la sala si riempì di Pixie, che andarono ad allinearsi ordinatamente alle spalle della loro sovrana. Piccoli come erano, nessuno di loro era in grado di occupare le sedie vuote del tavolo, per cui rimasero a mezz'aria, in attesa. Lo sfarfallare sommesso delle loro alette riempì l'altrimenti vuoto silenzio che era calato sulla sala.
Tharazar era ancora fermo pochi passi oltre la soglia da cui era entrato, immobile. L'improvvisa manifestazione di una platea così grande e fornita lo aveva destabilizzato in maniera del tutto nuova per lui.
«Forza! Che aspetti? Suona!» gridava la sua coscienza, eppure non riusciva a muoversi da dove si trovava. Era come paralizzato.
In fin dei conti era una regina, e quello era un palazzo reale, che per di più si trovava in un reame a sé stante. Poteva la sua musica essere davvero apprezzata...?
Vedendolo in chiara difficoltà, Patria agì d'impulso: gli si fece dappresso alle spalle e gli diede una leggera gomitata nel fianco. Non sapeva bene nemmeno lui che cosa gli stesse succedendo, ma non lo avrebbe lasciato da solo a fare la figura dell'inetto.
Non quando sapeva che era in grado di affrontare egregiamente la situazione.
«Be', che aspetti? Vogliono sentirti suonare» gli sussurrò all'orecchio, incitandolo a farsi avanti «Fagli vedere di cosa è capace Tharazar il Magnifico, Signore dell'Arena di Neverwinter...!».
Sentirsi chiamare con il suo titolo completo scosse il Mezzorco dalla trance in cui era caduto.
Patria aveva ragione. La sua arte non aveva niente di cui vergognarsi al cospetto dei Pixie. Sarebbero stati loro ad inchinarsi dinanzi alla sua bravura.
L'adrenalina degli istanti che precedevano gli scontri in arena tornò ad invaderlo, dandogli un assaggio nostalgico del suo glorioso passato. Con le spalle diritte e l'espressione fiera, Tharazar guadagnò il centro della metà di sala rimasta vuota, evidentemente per fargli da palcoscenico.
Dinanzi alla sua reazione positiva, Patria annuì soddisfatto e si fece da parte, muovendosi vicino la parete per aggiungersi al nutrito gruppo di spettatori in tacita attesa.
Era orgoglioso di essergli stato d'aiuto, sebbene trovasse bizzarro il suo comportamento e intuisse che c'era bisogno di lavorare più in profondità per eradicare il problema. Lo avrebbe fatto in un altro momento, quando Tharazar fosse stato libero.
Quest'ultimo si mise in posizione e squadrò il suo pubblico. Sembravano tutti ansiosi di sentirlo suonare e lui fremeva d'impazienza.
Visto che doveva essere uno spettacolo magistrale, accarezzò l'idea di utilizzare il suo violino. La pratica fatta nelle ultime notti solitarie lo rendeva abbastanza confidente nelle sue capacità; inoltre, quello era il suo strumento preferito, nonché quello con cui si era esercitato maggiormente in passato.
Si era quasi convinto ad estrarlo quando il suo sguardo cadde su Patria, e il suo desiderio si sbriciolò come un castello di sabbia sotto le onde del mare. Gli tornarono in mente i suoi dubbi in merito alla sua passione segreta per quello strumento, il tormento della sua adolescenza riguardo la poca virilità del violino. A quei pensieri si aggiunsero frammenti dell'ormai lontana sera in cui lui e Patria si erano conosciuti, quando sotto l'attacco di un branco di lupi aveva cercato di ispirare il suo compagno cantando. Ricordò la sua pietosa performance, le sue maledette corde vocali che vibrando intonavano una nenia con una voce da donna che continuava a perseguitarlo. Patria stesso l'aveva deriso per quello, apertamente e senza vergogna.
«E se facesse lo stesso vedendomi impugnare il violino...?».
La domanda affiorò spontanea e ineluttabile nella sua mente e la mancanza di una risposta certa e rassicurante lo spinse inesorabilmente ad estrarre dal suo zaino l'ormai familiare e poco appariscente fisarmonica.
Stringendola tra le mani non avvertì la sensazione di libertà che percepiva mentre prendeva tra le dita il suo archetto. Quando l'avvicinò alle labbra non percepì la stessa gioia che udiva nelle tremule note d'apertura dei suoi brani da violino.
Sul suo petto gravava il fardello del segreto che si imponeva di trasportare. Suonava, eppure sentiva che la musica non aveva la stessa magnifica intensità dei pezzi che eseguiva quando era da solo e si concedeva di esibirsi con il suo strumento.
Era come se la sua mente, la sua coscienza, stessero assistendo al suo stesso spettacolo separate dal suo corpo.
La melodia era bella, gli accordi perfetti, il ritmo corretto. Eppure percepiva distintamente l'abissale differenza tra quella performance e ciò che riusciva a realizzare quando si esibiva per se stesso. Vedeva in modo chiaro come i suoi movimenti fossero rigidi e studiati per dare l'impressione di qualcuno che stava eseguendo un brano con passione.
Patria lo aveva già visto e sentito esibirsi con la fisarmonica. Lo strumento in sé non dava grandi aspettative: lui stesso lo aveva sottovalutato. A giudicare dalle espressioni stupite e deluse dei Pixie, anche loro non nutrivano grandi speranze per uno spettacolo fatto con uno strumento così piccolo e insignificante.
Proprio come era accaduto con lui, Tharazar riuscì a sorprenderli con la sua abilità. Patria vide il cambiamento nel pubblico man mano che la musica incalzava e il ritmo cresceva. A suo parere era un'abilità rara quella di essere in grado di suonare così egregiamente qualcosa di tanto banale come una fisarmonica, a maggior ragione avendo lo "svantaggio" di uno strumento non proporzionato alla propria stazza.
Le grosse dita del Mezzorco si muovevano agili sull'oggetto e la sua notevole capienza polmonare gli consentiva di eseguire lunghi spezzoni di musica senza doversi interrompere.
Ogni volta che Patria lo sentiva suonare gli sembrava più bravo della volta precedente, anche se non glielo aveva mai detto per non fargli montare troppo la testa.
«Forse per oggi potrei fare un'eccezione...» ponderò tra sé, immaginando che dei complimenti fossero ben graditi, specialmente dopo la sua piccola paralisi subito prima di cominciare.
Al termine dell'esibizione, Tharazar inspirò a fondo e rivolse un'occhiata al suo pubblico.
«È andata...!» commentò tra sé e sé mentre sorrideva, per poi profondersi in un inchino.
Nella sala esplose una pioggia di applausi e benché l'artista non fosse del tutto soddisfatto della sua performance, l'ovazione generale contribuì a migliorargli sensibilmente l'umore. Vide che anche Patria prese parte alla cosa e ciò gli fece particolarmente piacere, tanto da strappargli un ulteriore sorriso, più sincero del precedente.
Dopo quasi un minuto intero di caos, la regina si alzò in piedi e tutti tacquero di colpo. Pareva raggiante in viso e quando parlò la sua voce suonò più acuta di un paio di note.
«Caro Tharazar! I complimenti e la descrizione della tua musica fatta dai miei sudditi la scorsa notte impallidisce dinanzi a questa esibizione superba! Ti prego di rimanere qui come mio graditissimo ospite per i giorni a venire... insieme alla tua scorta, ovviamente!» esclamò, e senza aspettare risposta aggiunse «Desiderio che tu ti esibisca ancora alla festa che si terrà qui questa notte. Tutti i Pixie del reame devono sentire la tua splendida musica!».
Patria sgranò gli occhi alla sua richiesta e guardò verso Tharazar. Non immaginava che l'esibizione potesse andare così bene da doversi trattenere lì ancora, per dei giorni oltretutto. Aveva confidato in qualcosa di molto più rapido.
Vide l'espressione sul viso del suo compagno di viaggio, un misto tra stupore, orgoglio e arroganza, e seppe già che tipo di risposta aspettarsi da lui.
«Sono onorato di potermi esibire ancora per voi» disse il Mezzorco, esattamente come Patria aveva previsto.
La regina batté le mani, eccitata e soddisfatta.
«Perfetto... perfetto! Assolutamente perfetto!» esclamò con voce ancora più acuta «Che i camerieri portino il cibo! Tharazar deve essere in forze per... questa sera».
La breve pausa che precedette le ultime parole della regina suonarono in qualche modo sospette alle orecchie di Patria, come se ci fosse qualcosa di nascosto nel loro significato.
Non ebbe molto tempo per rifletterci sopra: dopo pochi secondi vide arrivare verso di lui il Mezzorco, sorridente e soddisfatto. Pareva più rilassato e tranquillo rispetto a prima.
«Sei stato bravo» si complimentò il Tiefling brevemente, accennando un sorriso incoraggiante. Non era molto bravo con le parole e non avrebbe saputo da che parte iniziare per fargli degli elogi elaborati e prolissi come quelli della regina.
Tharazar sorrise ancor di più e gli batté una pacca sulla spalla.
«Anche stavolta vitto e alloggio li offro io» commentò l'altro in tono allegro «Andiamo a sederci?».
Patria si irrigidì leggermente ma annuì, seguendolo presso il tavolo mentre i cortigiani si dileguavano dalla sala alla stessa velocità con cui erano sciamati all'interno.
Non voleva rovinargli il momento dicendogli che non voleva rimanere lì troppo a lungo, che per lui "i giorni a venire" erano un lasso di tempo esagerato da trascorrere in quel reame parallelo al loro.
«Potrò parlargliene più tardi, immagino...» si disse, per cercare di placare almeno temporaneamente la sua crescente inquietudine «Almeno ogni tanto ci pensi tu a provvedere» esclamò invece a voce alta, accomodandosi al suo fianco.
Non passò molto tempo prima che le porte della sala da pranzo si aprissero di nuovo, stavolta per far entrare file di carrelli d'oro e d'argento di dimensioni adeguate a quelle della regina e dei suoi ospiti, recanti delle cloche e spinti da schiere di piccoli Pixie in uniforme da camerieri.
Era incredibile la forza fisica di cui erano dotati quegli esseri minuscoli per essere in grado di far muovere qualcosa di così più grande paragonato a loro.
Una volta fatti entrare tutti i carrelli - che erano piuttosto numerosi - i Pixie si divisero in gruppetti per sollevare le varie cloche da sotto il vassoio e spostarle sul tavolo. Doveva essere un lavoro routinario data la precisione e la rapidità con cui riuscirono ad organizzare la tavola, occupando la maggior parte dello spazio a disposizione senza che niente andasse sovrapponendosi o urtandosi. Era una sorta di danza ipnotica e Tharazar e Patria si persero ad osservare i piccoli camerieri che li servivano silenziosamente.
La regina pareva abituata allo spettacolo e non li degnò di alcuna attenzione, rimanendo concentrata a guardare il suo ospite musicista con espressione intenta, soppesando con cura ogni centimetro del suo corpo.
Quando tutto fu predisposto, i Pixie si redistribuirono sopra ad ogni cloche e ne afferrarono l’impugnatura rotonda, rimanendo immobili in posizione, pronti a tirare. Trascorsero così alcuni secondi. Tharazar moriva dalla voglia di sapere cosa ci fosse da mangiare e non pareva incline a voler attendere ancora. In quel momento di quiete assoluta, i suoi occhi cominciarono a muoversi freneticamente da una cloche all’altra, nella speranza che una qualsiasi si alzasse.
Patria notò l’impazienza del compagno ma rimase fermo e silenzioso, pensando che fosse una qualche usanza della padrona di casa.
Quest’ultima all’improvviso sollevò un braccio e, come un unico essere composito, la squadra di camerieri alzò le cloche.
Se lo stomaco di Tharazar avesse potuto parlare, probabilmente in quel preciso istante si sarebbe messo a cantare: le pietanze che erano state posizionate di fronte a lui e al suo compagno avevano un aspetto e un profumo così invitanti che non riusciva a credere che fossero reali.
Patria vide il suo viso illuminarsi di colpo e la sua espressione caricarsi di incredulità. La cosa gli diede non poco fastidio considerato che quando era lui ad occuparsi del cibo non guardava i pasti nello stesso modo.
C’era carne, pesce e verdure, cotte e tagliate per tutti i gusti. Patria non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva visto tante svariate pietanze riunite insieme.
«Spero il pasto sia di vostro gradimento» disse la regina, iniziando a servirsi da una zuppiera di insalata «Buon appetito!».
«Se… vuoi non ho… nessun problema ad assicurarmi che le tue porzioni non siano avvelenate...» commentò Tharazar, sporgendosi verso l’orecchio del partner perché solo lui cogliesse le sue parole.
Il diretto interessato gli scoccò un’occhiataccia e lo respinse con una spallata.
«Taci e mangia!» sibilò, cominciando a riempirsi il piatto, visibilmente a disagio.
Era abituato a guardarsi bene dal mangiare cibi preparati da altri. Nella sua infanzia aveva subito più di un tentativo di avvelenamento in quel modo e adesso tendeva a non fidarsi, preferendo prepararsi da solo di che mangiare.
In quella particolare circostanza, benché con uno sforzo notevole, Patria decise di cercare di ignorare le sue paure soltanto per non dare a Tharazar la soddisfazione di sentirsi indispensabile per lui.
Dinanzi alla sua risposta piccata, il Mezzorco lo guardò con cipiglio stranito prima di dedicare tutta la sua attenzione a riempirsi il piatto e lo stomaco.
Reduce da un periodo piuttosto lungo in cui aveva dovuto sopperire alla fame con ciò che il bosco metteva a disposizione a Patria, trovarsi di fronte ad un così vasto assortimento di carne fu come entrare in paradiso. Il suo lato più orchesco era al settimo cielo.
In men che non si dica il suo piatto straripava di porzioni divelte dai vari vassoi e quel che non riusciva ad infilare col resto lo mangiava direttamente dalla fonte, salvo poi realizzare che era più pratico occuparsi di ciò che aveva accumulato nel piatto anziché sporgersi verso i vari vassoi e mangiare tenendo i bocconi infilzati a mezz’aria.
Pur strappando grossi morsi qua e là e svuotando rapidamente le brocche di acqua e di vino che vennero posizionate in un secondo momento, Tharazar mantenne un certo decoro nel comportamento. Cercava di schizzare il meno possibile, utilizzava le posate per tagliare ogni cosa - eccetto i pezzi di volatili, che maneggiava senza utensili - e masticava rigorosamente a bocca chiusa.
La regina sbocconcellava con delicatezza le verdure e, in paragone con il suo ospite musicista, sembrava quasi che non mangiasse affatto.
Patria dal canto suo stava affrontando il pasto con una notevole dose di apprensione. Non voleva risultare offensivo per la regina e aveva effettivamente appetito; tuttavia, il fatto di non voler chiedere a Tharazar di fargli da assaggiatore ufficiale lo stava mandando in paranoia. Ogni boccone che inghiottiva temeva che potesse essere l’ultimo della sua vita e questa ansia si rifletteva chiaramente nel suo atteggiamento nervoso e nei movimenti bruschi.
Ciononostante, era determinato a mangiare da solo, anche a costo di farsi venire una crisi di nervi.
Il pranzo fu piuttosto lungo considerato il numero di portate presenti a tavola. Patria e la regina terminarono per primi, lasciando a Tharazar tutto il tempo che gli occorreva per rifocillarsi.
Quando il Mezzorco si reputò sazio, si abbandonò contro lo schienale con espressione soddisfatta e si portò alla bocca il pugno chiuso in tempo per soffocare un rutto.
«Presumo che vogliate riposarvi adesso… in vista della festa di questa sera» esclamò la Pixie, alzandosi in piedi e rivolgendo un armonioso sorriso al suo musicista «Vi accompagnerò di persona presso le vostre stanze. Dovrebbero essere pronte adesso».
I suoi ospiti si alzarono in piedi assieme; tuttavia, mentre Patria stava per allontanarsi dalla sedia vide il suo compagno barcollare pericolosamente verso di lui e d’istinto si protese a sorreggerlo.
«Ehi, tutto bene? Mangiato troppo?» domandò il Tiefling con una punta di sarcasmo nella voce.
Tharazar sgusciò dalle sue mani e gli rivolse un’occhiata di traverso, girandosi appena nella sua direzione.
«Mi sono solo… alzato troppo in fretta» borbottò a mezza voce, strascicando un po’ le parole.
Non pareva ubriaco, per cui il suo partner giunse alla conclusione che fosse solamente assonnato per il lauto pranzo.
Lo lasciò avanzare per primo, in maniera tale da poterlo afferrare nel caso in cui la sonnolenza lo facesse capitombolare a terra.
Vennero guidati fuori dalla sala da pranzo, di nuovo lungo il corridoio che avevano percorso prima. Arrivati alla cima delle scale dell’atrio, proseguirono nella direzione opposta, attraverso un corridoio ancora inesplorato. Giunti in fondo, si arrampicarono su per una stretta scala a chiocciola che costrinse Tharazar a piegarsi per non sbattere la testa.
Si trovarono lungo un altro corridoio, sul quale si affacciavano numerose porte chiuse. Patria si domandò quanto ancora avrebbero dovuto camminare prima di giungere a destinazione. Cominciava a sentire i postumi del pranzo persino lui; inoltre, il suo compagno Mezzorco pareva sul punto di crollare addormentato sul pavimento.
La regina svoltò oltre il primo angolo e poi si fermò di fronte a due porte, l’una dirimpetto all’altra.
«Queste sono le vostre stanze» annunciò, guardandoli entrambi, uno per volta «Spero saranno di vostro gradimento. Tharazar… questa è la tua» soggiunse, indicando la porta alla sua destra, il cui legno era colorato di rosa pastello.
L’altra camera aveva il battente azzurro chiaro.
«Due… stanze separate?» fu il primo pensiero che Patria riuscì a formulare.
Se qualcuno gli avesse detto alcune settimane addietro che gli sarebbe mancato dormire insieme a Tharazar, probabilmente gli avrebbe riso in faccia. Quando dormiva era rumoroso e spesso si agitava nel sonno, tanto che in più di un’occasione aveva rischiato di finire addosso al falò; tuttavia, Patria era arrivato ad un livello di familiarità con i suoi atteggiamenti ed il suo russare che fino ad allora non aveva ancora pienamente realizzato.
Pensare di dover soggiornare lontano da lui lo mise in crisi quasi allo stesso livello del dover mangiare cibo che non aveva modo di controllare, se non addirittura peggiore.
«Riposate, vi aspetta una festa entusiasmante questa sera» comunicò loro la Pixie, prima di allontanarsi verso la fine del corridoio.
Quand’ebbe svoltato l’angolo, Patria si volse verso il suo compagno con espressione quasi supplichevole, deciso a chiedergli se potevano ignorare una delle due camere per stare insieme. Si sentiva stupido e a disagio nell’essere quello dei due ad esporre il problema, però era disposto a “sacrificarsi” per non dover rimanere da solo in quel palazzo sfarzoso e così evidentemente fuori della sua portata.
«Vuoi davvero dorm…?» esordì con voce piuttosto bassa, imbarazzatissimo, ma si interruppe di colpo vedendo che il Mezzorco non gli stava prestando la minima attenzione. Lo guardò aprire la porta, varcarla e poi girarsi verso di lui ed esclamare un semplice: «A stasera. Mettiti l’armatura buona!».
E ciò detto richiuse il battente, lasciando il Tiefling a fissare il punto in cui fino ad un momento prima c’era la sua faccia con espressione che era al tempo stesso atterrita, delusa e tradita. Non gli importava niente di stare lontani…? Per lui era tutto assolutamente normale?
«… le settimane di viaggio insieme… e la notte alla locanda… per lui non significano davvero niente…?».
Patria sgranò gli occhi sentendo la rabbia montare dentro di lui con tale impeto da rischiare di soverchiare la sua lucidità. Serrò i pugni e arretrò di scatto dalla porta di Tharazar, andando a finire contro quella della sua camera. Di colpo il suo viso esprimeva l’angoscia ed il crescente panico di qualcuno che aveva appena visto un mostro famelico e letale da vicino.
La sua armatura sbatté con un clangore metallico contro il legno e le sue labbra si distorsero in una specie di ghigno perverso per un istante mentre protendeva una mano aperta e con le dita piegate ad uncino verso la stanza di Tharazar.
Scosse violentemente il capo e la sua faccia tornò ad esprimere sano terrore. Chiuse di nuovo la mano e la picchiò contro il proprio petto rinforzato, quindi si girò freneticamente a cercare la maniglia alle sue spalle. Aprì la porta, non prima di averci dato una poderosa spallata, ed entrò.
Dopo qualche istante si udì risuonare lo scatto della serratura… e una serie di gemiti e ringhi di frustrazione fortemente ovattati.
A dispetto della sonnolenza e della pesantezza che percepiva in virtù del pasto decisamente abbondante, quando Tharazar ebbe chiuso la porta alle proprie spalle, si volse a dare un’occhiata generale alla stanza ed emise un cupo ringhio gutturale mentre lanciava lo zaino sul materasso in preda ad un raptus di frustrazione.
La stanza che gli era stata assegnata era molto spaziosa, con un bel tappeto peloso color rosa pastello ad occupare tutta la zona centrale del pavimento e un bel letto con il telaio in metallo dorato sormontato da un vaporoso baldacchino di tulle rosa e bianco, decisamente scenico ma poco funzionale come tenda. Dirimpetto al fondo del letto c’era un comò in legno dorato affiancato da un lato da un bell’armadio capiente fatto dello stesso materiale e dall’altro da uno specchio intero, più largo ed alto di Tharazar, con la cornice fatta di legno intagliato in fiori e tralci di rampicanti. Dal lato opposto della stanza c’era la porta che dava sul bagno, attualmente socchiusa.
Lo zaino attraversò l’aria tracciando un arco e poi atterrò esattamente nel centro del letto. La custodia del violino sbatté con le altre cose che teneva lì dentro, ma il Mezzorco non si preoccupò di andare a controllare. Si sbottonò il farsetto e la camicia con un moto di stizza, rivelando il torace muscoloso e i fianchi stretti mentre marciava a passo svelto verso lo specchio.
Guardò il suo riflesso, beandosi della perfezione del suo corpo a dir poco statuario, delle sue proporzioni splendide per un esemplare della sua razza e degli occhi azzurri, cristallini come l’acqua che sgorgava pura dalle sorgenti montane. Non aveva niente da invidiare a nessuno esteticamente parlando, e le sue doti come musicista lo mettevano su un piedistallo di vetro, elevandolo al di sopra di tutti gli altri… eppure a lui non bastava. Sentiva chiaramente di non essere se stesso, di non riuscire ad esprimere il suo vero potenziale, reprimendo le sue capacità a causa delle sue paranoie.
Fremente di rabbia per la sua codardia, tirò un pugno contro il muro, che vibrò solido all’impatto con le sue nocche. Il dolore si propagò sordo lungo i suoi muscoli ma Tharazar non ritrasse la mano e non si leccò le ferite come un cucciolo spaventato. Rimase immobile a guardare il riflesso della sua frustrazione nello specchio con la mandibola che vibrava mentre combatteva l’impulso di tenere chiusa la bocca.
Fu come ingaggiare guerra contro se stesso: ogni fibra del suo corpo lottava perché tacesse, ma lui non voleva farlo. Voleva riuscire a fronteggiare le sue paranoie e il suo tormento interiore, in modo da poter poi mostrare a Patria il vero se stesso senza vergognarsi.
Con uno sforzo immenso riuscì ad accennare un esordio di canzone, ma pareva che le sue corde vocali si stessero rifiutando di funzionare come di dovere.
«Andiamo! Ho già cantato una volta! Con Patria!» esclamò, raddrizzandosi di colpo e scoccando un’occhiata carica di odio al suo riflesso «Non mi sono mai esercitato, ma so di esserne capace!».
Si piazzò al centro dello specchio, gonfiò il petto e senza staccare gli occhi da quelli dell’altro sé si costrinse a cantare. La voce usciva spezzata e rauca dalla sua bocca, un misto tra la sua voce normale e quella che purtroppo ormai sapeva essere la sua tonalità da cantante. La sua paura di accettare che quella fosse davvero la sua voce gli impediva di esprimere il suo pieno “potenziale”, di cantare come avrebbe voluto.
Provò più e più volte, concentrandosi sul suo riflesso, sforzandosi di pensare che era da solo nella stanza e che nessuno, nemmeno Patria che era relativamente vicino, lo avrebbe sentito. Le sue corde vocali parevano remare di loro spontanea volontà contro la sua risoluzione a sentirsi cantare di nuovo a pieno regime. Ogni intonazione pareva la parodia distorta della canzone originale e per ognuno di quei fallimenti pietosi Tharazar continuava a prendere a pugni la parete. Forse se si fosse fatto male a sufficienza tutti quegli insormontabili muri di paure che aveva eretto nel suo inconscio sarebbero crollati come il suo corpo.
La cosa per lui era uno sforzo fisico tangibile, paragonabile ad una maratona attraverso il continente, eppure era risoluto nel voler abbattere ogni resistenza che gli impediva di accettare il suo lato meno virile. Era convinto che se ce l’avesse fatta a prendere consapevolezza e rassegnarsi allo stato della sua voce effeminata, suonare il violino di fronte alla Regina, alla corte e persino a Patria non sarebbe stato più così traumatico e terrificante come prima.
Dopo quasi un’ora di tentativi vani, ricoperto di sudore e tremante per l’impegno psico-fisico profuso, finalmente Tharazar riuscì a cantare. Dapprima esitando, poi con sempre più vigore mentre la consapevolezza di essere arrivato al traguardo tanto desiderato si faceva strada nel suo inconscio.
Arrivò a toccare note tanto acute che nessun uomo avrebbe mai potuto eguagliarlo, e all’euforia che accompagnò il suo trionfo assoluto e inconfutabile andò a sostituirsi una rabbia nera come non ne aveva mai provato il pari prima.
Si era arrabbiato con il suo “addestratore” - l’unica figura vagamente paterna che aveva mai conosciuto nella sua vita - quando a Neverwinter aveva scoperto che lo stava abbandonando per Rhazul, e si era arrabbiato quando per colpa di quello stesso Orco aveva dovuto abbandonare la sua vita agiata e confortevole pur di non abbassare la testa e rinunciare al suo titolo senza combattere. Aveva odiato Rhazul per averlo costretto a passare lunghissimi giorni camminando e interminabili notti al freddo, senza sapere quando sarebbe riuscito ad avere di nuovo un tetto sulla testa e del cibo caldo.
Eppure niente di tutto ciò era paragonabile a quello che stava provando in quel momento. Era arrabbiato e carico di odio, sì, ma non contro altri, bensì verso se stesso. Era assurdo e illogico considerando quanto normalmente avesse un’opinione alta nei suoi confronti. Si considerava al di sopra di tutti gli altri, più bello e più bravo; ciononostante, adesso provava solamente frustrazione guardandosi nello specchio.
Con le mani tremanti, una delle quali con le nocche sbucciate, ghermì la cornice fiorita e si piegò in avanti, fin quasi a toccare la superficie di vetro con la punta delle zanne. Il suo fiato condensava su di essa, creando un alone opaco che nascondeva la metà inferiore della sua faccia.
Il Mezzorco continuò a cantare, la voce spezzata mentre le lacrime cominciavano a pungere ai lati dei suoi occhi. Desiderava frantumare lo specchio con una testata ma il suo narcisismo si frapponeva eroicamente, impedendogli di rovinare il suo splendido viso.
La sua canzone salì di tono, tanto da arrivare ad avere i polmoni in fiamme mentre realizzava che in quel preciso momento tutto ciò che importava era sentirsi. Doveva udire la sua voce femminile in tutta la sua potenza. Fino a che non avesse più avuto fiato in gola, lui avrebbe continuato a cantare. Se tutto il castello lo avesse udito…
«… non ha importanza».
E di colpo tacque, sgranando gli occhi e boccheggiando, accasciandosi in ginocchio di fronte allo specchio, rimirando la stessa catatonica sorpresa che chiunque entrando avrebbe letto nel suo viso.
Non aveva importanza. Non importava se a sentirlo erano la regina dei Pixie, Rhazul, gli Dei… o persino Patria. Niente sarebbe cambiato. La sua voce sarebbe rimasta comunque quella, immutabile, per sempre.
E come lei sarebbero rimasti il suo amore e il suo talento per il violino.
Alla furia e all’odio si sostituì una strana sensazione di quiete precaria. Sentiva i suoi stessi nervi cadere in pezzi dopo quella prova dolorosa, eppure si sentiva anche insolitamente soddisfatto di se stesso. Non era lo stesso compiacimento di quando si complimentava con se stesso per la sua bellezza o per la sua bravura. Era… orgoglioso di sé e di ciò che era riuscito a fare.
Lasciò andare la presa sulla cornice dello specchio e accarezzò il profilo della sua mascella con il dorso della mano sana.
«Suonerò il violino questa sera… e sarà glorioso. Tutti sentiranno di cosa sono davvero capace… anche Patria» esclamò deciso ma con voce sommessa e provata «Quello che dirà dopo… potrà accettarmi con le mie… note femminili… oppure no. Io però avrò fatto la mia parte…».
Si rialzò, rinvigorito dalla sua stessa determinazione, e sogghignando trionfante si avviò verso il bagno. Doveva prepararsi al meglio per la sua grande rivelazione al pubblico.
Intanto che Tharazar affrontava i suoi demoni interiori, anche Patria nella stanza vicina era impegnato nella sua guerra personale con demoni che purtroppo erano molto più concreti di quanto fosse desideroso di ammettere.
Appena varcata la soglia della sua camera e richiusa la porta, il Tiefling si era gettato a terra, raggomitolandosi su se stesso mentre la sua rabbia combatteva per avere la meglio sul suo raziocinio. Patria era consapevole della sua instabilità emotiva quando si trattava di sentimenti potenti e primordiali come l'ira o la pulsione sessuale. La sua perenne repressione di entrambi era riuscita alla perfezione fino a che non era incappato in Tharazar. Quel Mezzorco da solo e senza alcun apparente sforzo era riuscito a violare il muro di apatia che aveva eretto a sua personale protezione nel tentativo di confinare la sua parte più oscura e selvaggia.
Patria ansimava e sbavava mentre lottava per tenere a bada l'impulso di sfondare a pugni la porta del suo compagno di viaggio e vendicarsi della sua apparente incuranza.
«Non ti merita. Guardati come ti ha ridotto... un pupazzetto che non è più in grado di stare da solo...» la voce sibilante nella sua testa riusciva ad essere davvero suadente quando riusciva a farsi breccia nella sua coscienza «Vendicati. Fallo soffrire! Dimostragli chi di voi due detiene il potere...!».
Una risata malvagia tintinnò nelle orecchie del Tiefling, assordandolo. Lui gridò, trascinandosi carponi verso le ante a specchio del grande armadio situato di fianco al letto a baldacchino che troneggiava in mezzo alla parete opposta a quella da cui era entrato.
Sentiva l'influsso della sua parte demoniaca premere per ottenere il controllo sui suoi movimenti, spingerlo nella direzione opposta, verso l'uscita. Lottava per ogni centimetro di pavimento su cui si trascinava, lento e inesorabile.
«Mai! Non... ha fatto niente per meritarsi il tuo odio!» ringhiò Patria, continuando a guadagnare terreno.
«Il mio odio? Il NOSTRO odio!» la voce nella sua testa rise di nuovo, stavolta in maniera più subdola e malvagia «La tua ira mi alimenta! Il tuo odio mi consente di continuare ad esistere dentro di te! Tu vuoi vendicarti di lui, non puoi mentirmi!».
Patria sapeva perfettamente che aveva ragione, così come sapeva anche che se avesse ceduto alle tenebre annidate nel suo animo avrebbe perso la grazia degli Antichi della Natura cui aveva consacrato la sua esistenza. La foresta lo aveva protetto dagli altri bambini che lo bistrattavano e gli aveva permesso di sopravvivere alla distruzione del suo villaggio; quando l'ora era giunta, aveva deciso di schierarsi al fianco della Natura per proteggere la vita e scacciare le forze del caos e del male, anche quello che covava silenzioso dentro il suo corpo ibrido.
«Io... non cederò... alle tue immonde tentazioni...» mormorò, allungando una mano per aggrapparsi alle coperte e rialzarsi.
Non andò lontano, riuscendo solamente a mettersi in ginocchio dinanzi allo specchio. Vide con orrore la smorfia di dolore sul suo viso e i suoi occhi, che normalmente erano due pozzi neri come la pece, racchiudere due iridi simili a tizzoni ardenti. Un terzo occhio, del tutto rosso e dalla pupilla verticale, campeggiava al centro della sua fronte.
Poteva contare sulle dita di una mano le volte in cui quell'occhio era comparso a testimonianza della sua nera discendenza. La prima volta che aveva ceduto ai suoi sussurri nefasti era ancora un bambino e le conseguenze erano state piuttosto contenute, seppur importanti. Aveva picchiato uno dei bulli che lo denigravano sempre e in un raptus d'ira gli aveva morso un braccio, rischiando di strapparglielo.
Nonostante Tharazar gli avesse già fatto perdere il suo prezioso controllo due volte in passato, quella era la prima volta che le sue emozioni negative raggiungevano una profondità tale da indurre il suo demone interiore a manifestarsi fisicamente.
Benché il terrore che riuscisse a prevalere fosse più concreto del solito, il Tiefling si costrinse a chiudere gli occhi - quelli naturali, di cui era ancora padrone - e a rallentare il respiro.
La voce nella sua testa ruggì, evidentemente scontenta per il suo atteggiamento.
«Smettila di comportarti da codardo! Abbraccia il potere della tua ascendenza infernale! Insieme a me potresti ottenere tutto ciò che più desideri, persino quel tuo sciocco e patetico Mezzorco cadrebbe ai tuoi piedi!» tentò di nuovo di convincerlo, ma Patria riuscì a percepire con una certa soddisfazione che adesso la voce suonava meno sicura e allettante. Pareva stare tentando il tutto per tutto per salvarsi, fatto che diede al Tiefling la certezza di essere ancora in grado di controllarsi.
Cominciò ad intonare una litania in una lingua antica e sconosciuta ai più, focalizzando i suoi pensieri sulla foresta magica che aveva visto arrivando nel reame dei Pixie. Pur essendo uno spettacolo drasticamente differente da quelli cui era abituato, era comunque una visione molto rasserenante. La concentrazione della preghiera riuscì a permettergli di purificare il ricordo da tutte le emozioni che aveva provato, lasciando solo un profondo senso di pace.
«Non riuscirai mai a liberarti... io sono una parte di te...».
Le parole sfumarono in una promessa agghiacciante e Patria ignorò. Rimase assorto nella sua meditazione per una buona mezz'ora prima di aprire di nuovo gli occhi sullo specchio dinanzi a sé.
Aveva il volto madido di sudore e i riccioli neri appiccicati alle corna e alle guance; tuttavia, i suoi occhi erano di nuovo normali e quello che si era aperto nel centro della sua fronte solo un ricordo.
Adesso era di nuovo tranquillo e soprattutto nel pieno possesso del suo corpo. Non desiderava più massacrare Tharazar, anche se continuava a sentire un sordo dolore al petto per la sua mancanza.
«Davvero sono diventato dipendente dalla sua vicinanza...?» si chiese triste, alzandosi in piedi. Le sue gambe tremavano appena, intorpidite dal lungo periodo trascorso in ginocchio. Dovette sedersi sul bordo del letto per consentire al sangue di riprendere a circolare normalmente, e nel frattempo i suoi pensieri continuavano a ritornare su Tharazar.
Per quanto si ostinasse a non volerlo ammettere ad alta voce, lui gli piaceva. La questione stava cominciando a diventare troppo grande perché continuasse a tacere, e la sua reazione alla loro separazione - seppur temporanea - lo dimostrava ampiamente.
«Devo dirglielo» si risolse con un sospiro «Non posso continuare ad aspettare che sia lui a farsi avanti. Sta diventando troppo pericoloso... e non voglio che si faccia male nessuno».
Si alzò dal letto, tornando a posizionarsi di fronte allo specchio.
«Mettiti l’armatura buona!».
Le ultima parole del Mezzorco gli riecheggiarono nella mente senza alcuna apparente ragione, eppure furono decisive nel dargli lo spunto per mettere in atto la sua decisione.
«Glielo dirò questa sera» decretò. Non aveva un'armatura buona da poter tirare fuori appositamente per l'occasione, però aveva ancora tempo per lavarsi e tirare a lucido la sua attuale armatura. Sicuramente le sue piastre una volta pulite avrebbero fatto la loro figura.
Rassicurato dalla sua decisione, il Tiefling si spogliò prima di dirigersi lesto in bagno, come se temesse di essere visto nudo da qualcuno.
Il bagno gli occupò una buona oretta. Non era mai stato un fanatico della pulizia personale e non capiva come Tharazar potesse perdere tanto tempo a lavarsi anche nella foresta, quando l’opportunità di insozzarsi era dietro ogni albero.
L’occasione però era speciale e Patria voleva presentarsi al meglio, per cui era disposto a soprassedere alle sue preferenze personali. Si lavò con cura, assicurandosi di raggiungere anche quelle zone meno accessibili che solitamente ignorava, quindi uscì dal bagno e si accomodò sul tappeto avvolto in un ampio asciugamano ad occuparsi della sua armatura.
Lo sporco incrostato sulle sue piastre fu più difficile da togliere di quello che aveva addosso, ma l’olio di gomito riuscì a farlo trionfare anche contro le macchie più ostinate. Aveva a malapena finito di lucidare gli spallacci quando udì una serie di colpetti battuti sulla sua porta.
Alzò di scatto la testa e fissò terrorizzato il battente, temendo che si trattasse di Tharazar.
«Cosa ci fa già qui?!» si chiese in preda a crescente panico. Non era ancora pronto a dichiararsi. Aveva i capelli umidi e arruffati e l’armatura sporca, per non parlare della sua assoluta mancanza di preparazione ad un discorso così importante.
«Che faccio?! Che faccio?!».
Si alzò in piedi e si avvolse meglio nell’asciugamano, andando verso la porta. Sentiva il cuore martellargli in gola per l’agitazione mentre afferrava la maniglia sforzandosi di sembrare normale. Non voleva rovinare tutto prima ancora di cominciare a rendersi ridicolo dinanzi al suo Mezzorco.
«Hai bisogno di qualcos...?» esordì aprendo la porta, convinto che dall'altra parte avrebbe trovato Tharazar.
Lasciò in sospeso la frase quando si rese conto che a "disturbarlo" non era stato il suo compagno di viaggio, bensì una Pixie a lui ben nota, la stessa piccola snob che li aveva trovati nel bosco assieme al suo gruppetto di ricerca e che aveva "insultato" Tharazar.
Il Tiefling setacciò rapidamente i ricordi in cerca del nome della creaturina, rimanendo a fissarla per qualche secondo con espressione perplessa.
«Pluma...?» disse infine, corrugando le sottili sopracciglia, sperando di non aver sbagliato nome.
La Pixie sollevò il nasino affilato con aria altezzosa e scocciata insieme.
«P-posso fare qualcosa per te?» si decise a domandare Patria, messo a disagio dal suo atteggiamento.
«In realtà sì, guerriero» esclamò finalmente Pluma, continuando a sfarfallare all'altezza degli occhi del suo interlocutore «Ma gradirei non parlarne sulla porta. Oh, questa l'educazione che insegnano a voi mortali...? Davvero deludente!».
«A-ah no, certo» Patria si affrettò a farsi da parte per lasciarla entrare «Scusami, non mi aspettavo nessuna visita prima della festa di questa sera...» soggiunse, osservando la Pixie che volava oltre la soglia in direzione del letto.
«Oh, di certo non da me!» Pluma pareva offesa, anche se il Tiefling non riusciva bene a capirne la ragione. Sicuramente non aveva fatto granché per mascherare il suo disprezzo nei loro confronti, per cui era ovvio che una sua visita fosse una sorpresa.
La fatina andò ad accomodarsi sul bordo del comodino e attese che l'ospite della camera si fosse avvicinato a lei prima di parlare. Patria si sedette sul bordo del letto, avendo cura di tenere fermamente chiuso il suo asciugamano per non mostrare il suo corpo nudo.
«Di cosa hai bisogno?».
«Io di niente, specialmente da un mortale» sputò Pluma subito, poi si morse il labbro inferiore, come per cercare di trattenersi dall'aggiungere altro veleno.
Dopo aver inspirato a fondo per un momento riprese a parlare in tono più pomposo e pacato: «Sua Maestà ha intuito il tuo legame con Madre Natura, per questo mi ha mandata a chiederti aiuto».
L'espressione di Patria si fece improvvisamente più cupa: quando era arrivato a parte la natura magica della foresta non aveva percepito nessun problema. Che si fosse sbagliato...?
«Due settimane fa la foresta ha iniziato a "ribellarsi" ai poteri di Sua Maestà, come se rispondesse a qualche altro padrone... il che è una cosa assurda dato che è stata la Regina Lilah a plasmarla ed è un affronto alla sua sovranità che non possiamo tollerare!».
«Ed io come potrei intervenire in tutto questo?» domandò il Tiefling, improvvisamente interessato: non gli interessavano per niente gli agi di un castello e della civiltà quando aveva l'occasione di trascorrere del tempo in mezzo alla Natura selvaggia.
«Dal modo in cui opera, la Regina presume si tratti di qualche demonio della selva» Pluma assunse un'espressione disgustata «Qualsiasi creatura sia, devi distruggerla prima che tenti di assaltare direttamente il castello».
«Avete almeno un riferimento da cui possa partire con le ricerche?» chiese Patria, sempre più convinto che uscire dal palazzo fosse la decisione più salutare e giusta per lui.
«I nostri gruppi di esploratori sono scomparsi tutti nei pressi dell'estremità nord della foresta, oltre il castello. La zona di trova a mezza giornata di viaggio da qui».
Era ancora piuttosto lontano; tuttavia, il Tiefling non voleva intervenire quando ormai fosse stato troppo tardi per salvare altri Pixie innocenti.
«Accetto l'incarico» decretò senza esitazione.
Pluma si alzò in volo, battendo le mani minuscole.
«Perfetto! La Regina ha predisposto per te delle provviste dai cuochi. Appena sei pronto, puoi andare in sala da pranzo a ritirarle» lo informò la sua interlocutrice, al che l'altro le rivolse un'occhiata incredula mentre una voragine gli si apriva nel petto.
«E... e la festa di stasera?» osò chiedere, seppur con un notevole senso di colpa: in fin dei conti, era tra i suoi doveri di paladino votato al giuramento degli Antichi della Natura intervenire a contrastare le forze del male. Il suo dovere non prevedeva alcun tipo di intrallazzo, anche se l'idea di assentarsi all'evento e rimandare ulteriormente la sua confessione non gli piaceva affatto.
L'occhiata che la Pixie gli rivolse bastò a farlo sentire ancora peggio.
«Questa dovrebbe essere una priorità per un paladino degli Antichi!» esclamò oltraggiata «Devo forse riferire alla Regina che ci sono questioni di più impellente urgenza che vi premono...?».
«No, no! Nient'affatto!» Patria si affrettò a rimediare alla sua gaffe «Dite pure alla Regina che non appena sarò pronto partirò per la foresta» esclamò, balzando in piedi.
In fin dei conti, si trattava di una missione relativamente semplice. La sua dichiarazione a Tharazar aveva aspettato per tanto tempo che per un altro giorno, probabilmente non sarebbe accaduto niente. E in tal modo avrebbe anche avuto occasione di pensare a come dirglielo.
Pluma sorrise soddisfatta e si congedò dal Tiefling mentre quest'ultimo tornava in bagno in tutta fretta per sistemarsi e partire.
«Non mi ricordavo che questo completo fosse così stretto...!».
Tharazar, pulito e asciutto, era in piedi dinanzi allo specchio intento ad ultimare il suo look per la serata. Dopo il bagno si era strigliato a dovere la chioma nera e si era cimentato nella creazione di una corposa treccia la cui attaccatura - situata sulla nuca - si trovava nascosta nel folto della sua chioma e che adesso riposava sulla sua spalla. Era la prima volta in vita sua che tentava di rendersi più presentabile pettinando i capelli, e doveva ammettere che il risultato aveva ampiamente superato le sue aspettative.
Al momento era alle prese con il panciotto di un completo decisamente elegante e attillato che aveva recuperato dalle sue stanze a Neverwinter prima della fuga. Erano gli abiti più raffinati di cui disponeva, che aveva utilizzato esclusivamente da solo, per dare una sorta di verosimiglianza alle sue solitarie esibizioni col violino. I pantaloni erano bianchi e riempiti del tutto dalle sue cosce toniche e muscolose. La metà inferiore finiva in alti stivali neri di pelle decorati con ghirigori dorati sul polpaccio. La cintura era abbastanza sottile e anonima ed era coperta dalle estremità a punta del farsetto che il Mezzorco stava finendo di chiudere con non poco sforzo. Ad opporre resistenza erano in particolare i due bottoni centrali sul suo addome.
«Dannazione chiuditi! Ci sono sempre... entrato...!» sibilò a denti stretti, le guance paonazze mentre cercava di trattenere il respiro per tentare di chiudere meglio l'indumento.
Mentre si lavava si era accorto che i suoi addominali un tempo perfettamente scolpiti adesso parevano stare perdendo tonicità, disperdendosi in un sottile strato di grasso. Da quando si era lasciato alle spalle Neverwinter aveva perso l'abitudine di allenarsi e si era lasciato andare ai piaceri carnali - il cibo sopra a tutto il resto - ogni volta che gli si era presentata l'occasione, senza il minimo riserbo.
Non si era mai posto il problema che mangiando senza fare costante allenamento il suo bel fisico statuario si sarebbe rovinato, almeno non fino a quel momento; tuttavia, benché la consapevolezza di aver messo su un po' di pancetta lo mettesse a disagio, non si sentiva per niente in colpa per aver ceduto a peccati di gola più spesso di quanto fosse lecito.
Con immenso imbarazzo, iniziò a tirare con più forza i due lembi del farsetto mentre cercava di "tirare indietro" la sua nuova pancetta. La trovata parve funzionare, perché i bottoni finalmente scivolarono nelle rispettive asole.
Tharazar smise di trattenere il fiato e piuttosto gonfiò il petto mentre si sistemava il volant bianco che decorava il colletto della sua camicia.
«Visto...? Stessa linea di sempre...» sospirò con un sogghigno soddisfatto che svanì subito quando udì distintamente il rumore delle cuciture del farsetto che cominciavano a cedergli sui fianchi «... ma forse è meglio non tentare la sorte stasera!» soggiunse, affrettandosi a malincuore a togliere il capo d'abbigliamento. I bottoni centrali rischiarono di schizzargli via dalle dita quando tornò ad armeggiarci, segno che se non fosse intervenuto in prevenzione probabilmente si sarebbe ritrovato ad esibire un gilet che si strappava cercando di contenerlo anziché un brano di violino. Non appena l'ebbe tolto sentì il suo fisico distendersi, tornando ad occupare il suo normale quantitativo di spazio.
Sbuffò irritato, scoccando un'occhiataccia al capo d'abbigliamento. Forse al tempo avrebbe dovuto decidersi a prendere qualcosa che gli stesse un poco più largo, in modo da poterlo indossare più a lungo.
«A ben pensarci, questo ce l'ho da quando ero adolescente. È ovvio che cominci a non starmi più...» esclamò a mo' di giustificazione, poggiando sulla sedia vicina il pezzo inutilizzabile.
Dallo sportello più lungo e stretto dell'armadio - in cui aveva sistemato i suoi abiti per evitare che si rovinassero ulteriormente stando piegati nello zaino o appoggiati in giro - estrasse una stampella su cui aveva posizionato un tight nero con la spilla d'oro rappresentante una chiave di violino appuntata sul risvolto sinistro. La coda posteriore era lunga e ampia, scalata dalle estremità verso il centro, che presentava una punta.
Tharazar la prese tra le mani e la guardò con espressione dolce, come se fosse il ricordo più caro che aveva, prima di procedere ad indossarla. A differenza del farsetto, che chiaramente era stato cucito per adattarsi al suo torace massiccio senza lasciargli molto spazio extra per stare anche solo minimamente comodo, il suo tight era stato pensato per lasciargli più margine di movimento. Del resto, le sue braccia muscolose dovevano potersi muovere agevolmente, dato che doveva impugnare e suonare il violino con indosso quell'indumento.
Con suo enorme sollievo, non solo gli arti continuavano a stare comodamente all'interno delle maniche, ma i bottoni sull'addome si chiusero senza alcuna fatica e senza costringerlo all'apnea.
Senza il gilet argentato che faceva bella mostra di sé tra il tight e la camicia il suo look perdeva un po' della sua raffinatezza, ma nel complesso dava ancora un'impressione di nobiltà e aristocrazia che per l'occasione andava più che bene.
Una volta terminata la vestizione, controllò di non essersi spettinato troppo nel mentre e poi andò a prendere la custodia con il violino, che nel pomeriggio aveva tolto dallo zaino e adagiato sul letto. Non gli serviva altro per la festa.
Accarezzò la superficie liscia e solida della borsa e respirò a fondo.
«Ce la posso fare!» si disse convinto, lanciando un'occhiata fugace alla finestra. I tratti di cielo che si riuscivano a scorgere attraverso i rami degli alberi erano di varie sfumature di viola e blu. Non essendo la stessa realtà in cui aveva da sempre vissuto, in cui il passare del tempo era scandito dal viaggio del sole nella volta celeste, solo la colorazione scura poteva suggerirgli che la sera era imminente.
Quella e i frequenti brontolii del suo stomaco affamato.
«Tch! Sta' zitto... non rovinerai il mio spettacolo...» borbottò, abbassando lo sguardo sul suo addome mentre si portava una mano a coprirlo.
Sperava solo di avere la possibilità di mettere qualcosa sotto i denti prima di esibirsi, giusto per frenare quell'imbarazzante richiesta di nutrimento da parte del suo corpo.
In quel momento udì picchiettare sulla porta della sua stanza e poco dopo una trillante vocina esclamò: «Signor musico! La stanno aspettando tutti!».
Tharazar riconobbe la voce come quella della graziosa Pixie bionda che lo aveva accompagnato fin là. Si prese un secondo per placare l'improvvisa ansia da prestazione pensando a Patria e prese il suo strumento, andando svelto verso la porta.
«Fate largo a Tharazar il Magnifico!».
Le enormi pareti nude della sala da pranzo erano state decorate con festoni a tema floreale. Dal soffitto piovevano glitter rosati senza tregua, probabilmente per effetto di qualche illusione. Diversi tavoli erano stati portati nella sala, disposti a ferro di cavallo lungo le pareti e ricoperti di vassoi pieni di cibo a misura di Tharazar.
Gli invitati erano centinaia, forse di più, ed erano tutti minuscoli. Come potessero servirsi da simili portate era un mistero, ma al Mezzorco non interessava.
Quando venne annunciato il suo ingresso in sala, uno scroscio di applausi minuti lo accolse. Tharazar sorrise alla sua platea cercando di rilassarsi il più possibile, anche se il continuo borbottio sordo del suo stomaco lo tormentava.
I suoi occhi azzurri sondarono la sala in cerca dell'unica figura alta quanto lui - o quasi - che si aspettava di trovare e con suo sommo dispiacere non ne risultò traccia. Patria non c'era.
Sentì la delusione ghermirgli il cuore e rischiare di soverchiarlo.
«Non gli piace fino a questo punto sentirmi suonare...?» fu la domanda che gli sorse spontanea in mente e che subito tentò di scacciare.
«No. Sicuramente verrà. Sarà... solamente in ritardo...» cercò di rassicurarsi, continuando a guardarsi attorno, stavolta con una punta di disperazione.
«Tharazar! Finalmente sei arrivato!».
Il Mezzorco vide Lilah correre verso di lui. Indossava un vestito lungo di tessuto viola semitrasparente e cosparso di glitter con la gonna dritta composta da drappi dello stesso materiale sovrapposti a formare delle balze asimmetriche. Era privo di lacci e di maniche, permettendo così a Tharazar di ammirare la linea delicata del suo collo e il décolleté.
I suoi lunghi capelli erano intrecciati in una elaborata treccia che era stata avvolta per metà attorno al suo capo a formare un raffinato chignon. L'altra parte pendeva libera sulla sua spalla, arrivandole fino al seno.
Era uno spettacolo di rara ed effimera bellezza, poco ma certo.
«Buonasera» salutò il Mezzorco, curiosamente in soggezione dinanzi alla bellezza della Pixie «Quando... potrò esibirmi?» aggiunse.
Se si fosse allontanato da lei forse avrebbe smesso di sentirsi inadeguato alla situazione. Non era una sensazione che era avvezzo a provare e non gli piaceva per niente.
La Regina si mise al suo fianco e inaspettatamente si aggrappò al suo braccio, tenendolo stretto sui suoi seni.
«Non vedo l'ora che tu inizi a suonare! Ti accompagno alla tua postazione» disse emozionata, accennando con la mano esile all'unica parete rimasta libera, al cui centro era stato posizionato un piccolo piedistallo.
Il Mezzorco non poté rifiutarsi di essere scortato da lei, specialmente considerato che la pressione delicata dei suoi seni contro il suo gomito stava facendo affluire il sangue in un punto diverso dalla sua testa.
«Mmmh... che fisico atletico...» sentì commentare a Lilah, mentre le sue dita palpavano deliberatamente il suo braccio «Devi esserti allenato molto...».
«Ero un gladiatore» rivelò senza pensare Tharazar, cercando di recuperare un po' della sua consueta spavalderia con il gentil sesso «Ho lottato contro un'infinità di nemici agguerriti, uscendone sempre vincitore» si pavoneggiò.
Gli occhi di Lilah parvero brillare alla notizia.
«Davvero? Immagino quale meraviglioso spettacolo sia vederti duellare...!» sospirò, stringendosi ancora un po' al suo braccio «Se sei bravo a combattere anche solo la metà di quanto lo sei a suonare, vorrei davvero poter assistere».
Arrivarono a fiancheggiare il tavolo del rinfresco e lo stomaco di Tharazar riprese a protestare distintamente quando le sue narici intercettarono l'aroma di cibo. Il diretto interessato rallentò il passo di colpo, scoccando occhiate desiderose ai vassoi pieni di carne.
Lilah gli tolse l'imbarazzo del dover porre qualsiasi quesito: «Che sciocca... perdonami, non ti ho chiesto se tu volessi mangiare qualcosa prima di esibirti per me...».
Le guance del Mezzorco assunsero una forte sfumatura rossastra mentre replicava: «Non è faccenda di cui voi dobbiate occuparvi...».
Le sue parole vennero accolte e ignorate: la Regina si fermò insieme a lui, prese un piattino e lo riempì di bocconcini di carne cotti e infilzati su uno spiedo di metallo che pareva più un'arma impropria che un attrezzo da cucina, quindi si volse verso il suo ospite e gli porse il piatto.
«Non vorrei mai che patissi la fame per esibirti...» disse.
Tharazar accettò la portata e ripresero a camminare verso il capo opposto della sala. In pochi minuti gli spiedi furono ripuliti e - almeno per il momento - lo stomaco del bardo fu messo a tacere.
Vedendo il piedistallo ormai prossimo, Tharazar si decise a porre la domanda di cui più gli interessava la risposta: «Sapete per caso dove si trova il mio compagno? Non lo vedo qui...».
«Temo sia colpa mia» ammise Lilah con tono infantile e colpevole «Ho chiesto al tuo amico di indagare su alcuni spiacevoli eventi verificatisi nella foresta nei giorni scorsi... mi era parso di capire che si trovasse particolarmente in sintonia con la natura...».
La notizia colse il Mezzorco del tutto impreparato. Immaginava che fosse ancora chiuso nella sua stanza a sistemarsi, probabilmente cercando la maniera migliore di apparire in pubblico. Di certo non si aspettava di essere lasciato indietro mentre lui andava a fare l'eroe nella foresta.
«Non ha pensato che potessi dargli una mano?! Siamo una squadra!» si inalberò interiormente «Oh, non... lo sapevo. Tornerà in tempo...?» chiese speranzoso a voce alta.
«Purtroppo no. La foresta è grande e la zona degli incidenti si trova a mezza giornata di cammino da qui...» Lilah gli rivolse un'occhiata curiosa «Mi dispiace... era così importante che fosse presente?».
Non lo avrebbe né visto né sentito suonare il violino. La cosa colpì Tharazar molto più intensamente di quanto potesse prevedere. Non aveva pensato nemmeno per un attimo che qualcosa potesse frapporsi tra loro in quel frangente, eppure pareva che qualcosa intervenisse sempre ad intralciare i suoi piani anche quando a farlo non erano le sue paranoie. Era frustrante.
Si costrinse a sorridere alla Regina, mascherando il suo malcontento.
«Presumo sia un incarico importante se è partito con così poco preavviso. Per la mia esibizione... potrà assistere in altre occasioni» esclamò, sforzandosi di suonare il meno apatico possibile.
Dinanzi al lezioso sorriso di Lilah, Tharazar si staccò da lei e salì sul suo piedistallo. Il suo entusiasmo all'idea di mostrare a tutti la sua bravura con il violino era stato smorzato nettamente sapendo che Patria non sarebbe stato presente; tuttavia, non appena estrasse lo strumento, fu pervaso da un bizzarro ed inusuale senso di pace.
Era l'ora. Il suo spettacolo più grande non avrebbe atteso nessuno. Sentiva il suo corpo fremere per l'emozione.
Posizionò il violino sulla spalla ed impugnò l'archetto. Gonfiò il petto e trattenne per un secondo il fiato.
Suonò la prima nota... e il resto fu come lanciarsi in un abisso e scoprire di saper volare.
Era ormai notte inoltrata e Patria continuava a camminare. La sua Scurovisione gli consentiva di continuare ad avere chiara visuale di dove metteva i piedi; inoltre, il suo bagno pomeridiano gli aveva consentito di riposarsi abbastanza affinché non sentisse ancora la necessità di dormire.
Non aveva modo di sapere quanto tempo fosse passato davvero da quando era partito dal castello. Poteva solamente presupporre che fosse quasi giunto a destinazione dato che ormai era buio.
La consapevolezza di non poter tornare in tempo per partecipare alla festa e assistere all'esibizione di Tharazar lo aveva messo nell'ordine di idee di sbrigare la questione il più in fretta possibile, obiettivo per il quale aveva camminato rapidamente attraverso il bosco fermandosi solo per le cose strettamente indispensabili.
A dispetto dei suoi zoccoli, il terreno occasionalmente accidentato non era riuscito a rallentarlo poi molto. Aveva rischiato di farsi male in più di un'occasione, inciampando e scivolando; tuttavia, nemmeno le ferite avrebbero potuto smorzare il suo desiderio di ricongiungersi con Tharazar.
Man mano che si inoltrava nel fitto della foresta, allontanandosi dal castello, aveva notato la vegetazione crescere più rigogliosa e selvaggia. Probabilmente la Regina non si preoccupava di controllare lo sviluppo delle piante più lontane dal suo castello. Patria non si sarebbe sorpreso di trovare i corpi dei Pixie dispersi in mezzo a rovi e rampicanti: quella parte di bosco era veramente impervia e per infiltrarsi all'interno aveva dovuto fare ricorso alle sue peculiari abilità di comunione con la Natura.
E intanto il suo cervello era lontano da quel luogo, proiettato verso il futuro, alla ricerca della maniera giusta di dichiarare i propri sentimenti a Tharazar.
Si immaginava dirimpetto a lui, con la sua armatura pulita e splendente e i capelli più pettinati del normale, che gli rivelava il suo affetto con tutta la sincerità di cui disponeva.
Patria arrossì immaginandosi nel dire a quell'egocentrico e narcisista che lo amava e scosse il capo.
«Non posso confessarglielo in maniera così diretta! Si monterebbe subito la testa!» commentò mentre si accucciava per passare in mezzo ad un enorme cespuglio di rovi. Nella parte bassa si trovava una specie di cunicolo che probabilmente veniva utilizzato dalla fauna come passaggio. Pur essendo più largo di un comune animale, il Tiefling riuscì a strisciarvi dentro, proteggendosi la schiena con lo scudo.
Alcuni rametti affilati gli graffiarono il viso, ma il dolore non fu tale da attirare la sua attenzione, tutta rivolta a "questioni" ben più urgenti.
«Dovrei soltanto dirgli che "mi piace"...? Sarebbe meno imbarazzante, senza dubbio... ma non so se lo capirebbe davvero...» continuò a ponderare «Oh, andiamo! Se devi dargli la soddisfazione di sapere che è importante per te, almeno sii esplicito!».
Provò a figurarsi mentre gli parlava in maniera davvero esplicita e nella consueta gestualità di scuotere il capo per allontanare l'imbarazzante pensiero rimase con un corno impigliato tra i rami.
«Ah, grandioso...!» sibilò, cercando di alzare un braccio per infilare la mano tra i rovi. Dopo un po' di movimenti e diversi graffi sul guanto, riuscì a liberarsi e proseguire.
Il cunicolo cominciò ad allargarsi dopo poco e poi Patria si ritrovò dall'altra parte del cespuglio, in quella che pareva una radura.
Mura di rovi la avvolgevano, nascondendola da sguardi esterni. Patria impugnò istintivamente martello e scudo, guardandosi attorno con cautela: doveva essere il luogo in cui l'ospite indesiderato della Regina viveva. Fece alcuni passi all'interno, cercando di essere silenzioso per captare ogni rumore che potesse indicargli dove si trovava il nemico. Procedendo, vide che al centro del prato si trovavano i resti spenti di un piccolo falò e all'intorno quelli che avevano tutta l'aria di essere resti di cibo e un giaciglio di arbusti.
«Un accampamento...?».
La cosa lo lasciò alquanto confuso: se davvero si trattava di un demonio della selva come gli aveva detto Pluma, non poteva essere lui ad aver allestito una cosa del genere. I demoni erano caos puro e semplice e il loro unico divertimento era diffondere violenza e confusione. Lo sapeva... per esperienza diretta.
Nessuna di quelle creature immonde possedeva un intelletto abbastanza sviluppato per comportarsi in maniera tanto "civile".
«E così Lilah ha deciso che se non avrà il mio cazzo... possiederà il mio cadavere».
Patria rabbrividì udendo una voce inequivocabilmente maschile riecheggiare nella radura ma provenire... da dietro di lui.
Immediatamente si volse, mettendo avanti lo scudo nella speranza di parare qualsiasi attacco il suo nemico avesse in serbo per lui. Udì un suono di flauto e dal terreno sotto i suoi zoccoli proruppero tralicci che si avvinghiarono attorno al suo corpo, immobilizzandolo sul posto.
Patria ringhiò un'imprecazione tra i denti e cercò di divincolarsi senza successo.
«Vediamo un po' chi è il fortunato sciocco scelto da Lilah...».
Una luce brillò nelle tenebre, costringendo il Tiefling a chiudere gli occhi per non venire accecato. Aveva viaggiato al buio per così tante ore che non doveva riabituarsi. Aprì appena le palpebre ed intravide una figura cornuta.
«Non è... possibile...» sentì dire al suo aguzzino «Ha mandato un altro Satiro a finirmi...?».
«Non sono un Satiro! Sono un Tiefling!» sbottò Patria indignato. Odiava i suoi tratti demoniaci ma non per questo avrebbe permesso a qualcuno di dargli del caprone fatato.
«Meglio così... mi dispiace ucciderti, ma preferisco non fare fuori un altro membro della mia razza per colpa di Lilah...».
Nella confusione che regnava nella sua mente e nell'agitazione del momento, Patria riuscì a trovare la lucidità per dire: «Sei tu che hai sconfinato nei possedimenti della Regina!».
Non sentì arrivare né magie né colpi letali, al che osò aprire finalmente gli occhi, del tutto. Davanti a lui si trovava una specie di sua versione della foresta: un uomo con la metà inferiore del corpo caprina - e del tutto nuda - ed un paio di corna simili alle sue - ritorte ai lati del cranio - ma molto più grandi. A differenza di Patria, la sua pelle era rosata e gli occhi normali, con pupille e iridi ben distinguibili tra di loro.
I due rimasero a guardarsi per qualche secondo, poi il Satiro si avvicinò a scrutare il suo prigioniero più da vicino, quindi disse: «... tu non sai niente».
«Di cosa?!» esclamò Patria di rimando, cominciando ad irritarsi. La mancanza di risposte e l'assurdità intrinseca di tutta quella situazione lo stavano facendo arrabbiare.
Aveva pensato di andare a sterminare demoni e invece si era trovato di fronte un avversario intelligente che lo aveva addirittura intrappolato. Aveva sperato che fosse un lavoro semplice in modo che potesse tornare in fretta da Tharazar e ora era in precario equilibrio tra la sopravvivenza e la morte.
«Puoi smetterla di parlare per mezze parole?!» gridò Patria furioso «Io dovevo allontanare un demonio che aveva trovato il modo di arrivare qua! Tu evidentemente non lo sei, quindi non ho nessun motivo di farti del male!».
«Tsk! Evidentemente sapeva che ti saresti rifiutato se avessi saputo che sono una creatura del bosco...» il Satiro scosse la testa «Ma perché ti ha allontanato dal castello, mi chiedo? Sei un uomo, sei ancora giovane e affascinante...».
«Non mi interessano i tuoi complimenti. Ho lasciato il palazzo in fretta e furia temendo che ci fosse un reale pericolo per la foresta! Me ne sono andato abbandonando il mio compagno di viaggio prima della sua esibizione... per niente!» continuò a sbraitare Patria, lottando ancora contro i viticci.
Vide l'espressione del Satiro rabbuiarsi di colpo.
«Esibizione? Il tuo compagno suona?» domandò. Dal tono di voce pareva allarmato.
«Sì! E io dovevo essere presente... se non fosse stato per questa pagliacciata inutile! Non ti farò alcun male... ma liberami!» esclamò ancora Patria.
Non sperava neanche un po' che le sue proteste sortissero qualche effetto nel suo interlocutore, eppure sentì la stretta dei viticci allentarsi e poi svanire del tutto. Incredulo e libero, Patria guardò il Satiro che gli si avvicinava.
«Devi tornare indietro. Subito!» lo avvertì lui, cupo in viso.
«Cosa? P-perché?» il Tiefling si sentiva a disagio per il suo atteggiamento improvvisamente serio.
«Lilah ti ha allontanato per avere per sé il tuo amico... e se non ti sbrighi a tornare, probabilmente lo perderai» lo avvisò il Satiro.
Patria deglutì a vuoto, guardandolo fisso in volto. Sperava che i suoi lineamenti tradissero un qualche scherzo da Satiro di pessimo gusto.
Non era possibile che la Regina avesse tramato contro di lui, spingendolo fin là solamente per avere Tharazar.
Eppure le parole dello sconosciuto riuscirono a far breccia nel suo cervello con facilità, mettendo ordine laddove fino ad allora era regnato solamente il caos.
La Regina aveva mostrato interesse esclusivamente per Tharazar e per la sua bravura negli strumenti musicali. Li aveva messi in camere separate.
Non aveva immaginato che fosse una scelta voluta e con uno scopo preciso, ma adesso non riusciva a pensare che non fosse così.
E quello strano equivoco non appena arrivati...
«La Regina mi aveva scambiato per il musicista all'inizio...» Patria sgranò gli occhi, guardando il suo interlocutore come se lo stesse vedendo per la prima volta in una luce del tutto nuova «... aveva pensato che lo fossi... perché somiglio a voi...» boccheggiò.
Il suo cuore sprofondò in un abisso di terrore. Aveva abbandonato Tharazar alla mercé di quella Pixie senza sapere in che mani lo stava mettendo.
«Devi sbrigarti! Corri! Prima che lo renda suo!» esclamò il Satiro, scuotendolo per le spalle «Voi mortali siete suscettibili al suo fascino fatato...».
Prima che se ne rendesse conto, Patria si lanciò a terra verso il buco da cui era arrivato. Si appiattì più che poté e cominciò a strisciare tra i rovi, annaspando nel tentativo di raggiungere il lato opposto il più in fretta possibile.
Le strie di sangue sulla sua faccia raddoppiarono, e benché stavolta fossero dolorose abbastanza perché si accorgesse della loro presenza, le ignorò. Doveva tornare indietro. Doveva trovare Tharazar e portarlo via dal castello, prima che fosse troppo tardi.
Non appena fu oltre il cespuglio di rovi, scattò in piedi e cominciò a correre alla massima velocità consentitagli dagli zoccoli, dall'armatura pesante e dal terreno accidentato.
L'esibizione era stata un successo. Tharazar non poteva essere più soddisfatto di sé stesso. Aveva suonato il violino per un'intera ora, senza mai fermarsi, passando fluidamente da un brano all'altro. Il suo pubblico aveva applaudito e lo aveva osannato.
Era stato bellissimo sentirsi di nuovo come al termine dei combattimenti in arena, quando dagli spalti l'unico grido che saliva dalla folla era un'eco stonata del suo nome.
Finito lo spettacolo, era sceso dal piedistallo con le braccia piacevolmente indolenzite. Aveva avuto solo il tempo di riporre il suo amato strumento prima che la Regina lo sequestrasse e lo accompagnasse al tavolo del rinfresco. Lì il Mezzorco aveva avuto modo di rinfrancarsi fisicamente dalla prestazione, mangiando e bevendo a sazietà.
Lilah continuava a versargli vino e piazzargli in mano piatti pieni di cibo che lui non si sentiva di rifiutare.
Tra l'entusiasmo per la prova e l'orgoglio personale per tutti i complimenti che la Regina e i suoi ospiti continuavano a regalargli a profusione, era talmente pieno di energie che non avvertì minimamente la sonnolenza data dal pasto insolitamente abbondante né tantomeno le prime avvisaglie di una sbronza.
Bevve tanto di quel vino che ad un certo punto dovette chiedere dove si trovasse il bagno più prossimo. Purtroppo per lui, venne a sapere che il più vicino si trovava nella sua camera da letto, per cui decise che era se doveva andare fin lassù per dar sollievo alla sua vescica, la cosa più logica da fare era congedarsi dalla festa in via definitiva.
Prese il suo strumento, salutò gli invitati e la Regina ed abbandonò la sala da pranzo. Si arrampicò su per le scale, seguendo la stessa strada che Sua Maestà gli aveva mostrato nel pomeriggio.
Esitò un istante una volta giunto in corridoio, fermandosi tra le porte della camera sua e di Patria. Il bisogno di orinare era impellente ma ad esso subentrò l'urgenza di sapere se per caso il suo compagno fosse rientrato mentre era via.
Si accostò all'uscio e bussò, piuttosto forte anche se non con violenza.
«Patria? Sei tornato?» chiese, la voce esitante ma con tono alto, appoggiando un orecchio contro il battente. Dall'altra parte non giunse alcun rumore.
Il Mezzorco rimase a fissare con cipiglio deluso la porta chiusa ancora per qualche secondo, prima di voltarsi ed aprire con urgenza la propria camera da letto, spalancandola con una spallata. Sfrecciò al buio attraverso la stanza fino al bagno. Si slacciò con movimenti frenetici la cintura e calò le braghe, ritrovandosi per le mani un'erezione di tutto rispetto.
Imprecò tra i denti e si piegò sopra la tazza, appoggiandosi con un braccio alla parete e indirizzando con l'altra mano la punta del suo pene per evitare di sporcarsi i pantaloni buoni.
Un lungo sospiro di sollievo gli sfuggì mentre svuotava finalmente la vescica, rumorosamente.
«Dovrò occuparmi del problema se voglio andare a dormire...» commentò con un mezzo sorriso mentre terminava, osservando compiaciuto la sua erezione.
L'impellente bisogno di orinare aveva coperto il bisogno di attenzioni del suo pene; tuttavia, ora che era da solo, non c'era nessun motivo per cui rimandare la cosa. Come tutto il resto, era anche quello un normale bisogno fisiologico cui doveva assolvere.
«Se vuoi... ti do una mano io...».
Tharazar rabbrividì udendo l'ormai familiare voce della Regina provenire dalla porta del bagno, che nella fretta aveva lasciato aperta.
Sollevò gli occhi dal suo pene e nell'oscurità scorse la figura della Pixie che si avvicinava a lui, lentamente e con la mano protesa all'altezza del suo inguine.
«R-Regina...? Che ci fa qui?! Come è entr...!» Tharazar sobbalzò e si zittì di colpo sentendo la sua mano esile stringersi appena sotto il glande, iniziando a muoversi avanti e indietro.
Dall'interpellata giunse una risatina leziosa.
«Tharazar... a questo punto puoi chiamarmi pure Lilah...» mormorò con voce suadente, afferrando il Mezzorco per un polso e tirandolo a sé, verso la porta «Perché non andiamo a letto? Sono ansiosa di testare le tue... altre doti...».
Per la prima volta in tutta la sua vita, Tharazar non sapeva cosa rispondere ad una donna chiaramente invaghita di lui.
«I-io...» bofonchiò confuso, uscendo con lei dal bagno «È-è... una dote... molto grossa...» aggiunse dopo un poco.
Vide Lilah sorridere con l'aria di chi la sapeva lunga.
«Ne sarò all'altezza, vedrai...».
Era sorto il sole da alcune ore quando Patria arrivò in riva al lago su cui si ergeva il castello. Le ore gli erano parse interminabili mentre spronava il suo fisico a violare i suoi stessi limiti nella speranza di giungere a destinazione quanto prima. Mai come allora desiderava poter avere un momento per togliersi di dosso la sua pesante armatura di piastre; tuttavia, non aveva tempo per simili frivolezze.
Doveva raggiungere il castello e controllare che Tharazar stesse bene senza attirare l'attenzione dei Pixie di guardia. Piccoli come erano, dalla sua posizione non riusciva neppure a vederli, ma era certo che si trovavano in perlustrazione: aveva visto quanto erano devoti alla loro sovrana, per cui l'ipotesi che lasciassero senza protezione il castello era inconcepibile.
Mantenendosi acquattato tra i cespugli di piante sulla riva del lago, Patria lo aggirò fino a giungere sul fianco del palazzo, dove presumeva con una stima molto approssimativa che si trovassero le finestre della stanza del Mezzorco.
Contro ogni logica, il Tiefling si tuffò in acqua completamente vestito e cominciò a nuotare faticosamente verso le radici dell'enorme mangrovia che costituiva il castello. Era avvezzo a trasportare indumenti pesanti; tuttavia, la stanchezza per la notte insonne e il frenetico viaggio di ritorno, uniti al fatto che la tunica fradicia aggiungeva un notevole peso al metallo lo portarono ben presto a pentirsi della sua scelta.
Spronato dalla mera forza di volontà e dal sentore che il suo compagno si trovasse in pericolo a dispetto delle apparenze, nuotò attraverso la superficie del lago, giungendo esausto ad aggrapparsi ad una delle radici. Si issò su di essa e rimase lì in precario equilibrio per qualche secondo, boccheggiando e sputando acqua tenendo le orecchie tese in cerca di rumori che gli annunciassero che era stato scoperto.
Non udì niente a parte il martellare folle del suo cuore nel petto, per cui procedette con la prossima parte del piano di incursione: dalla borsa che portava a tracolla estrasse un paio di coltelli che erano evidentemente stati pensati e progettati per tagliare la carne in una cucina. Li fece ruotare silenziosamente nelle mani, verificando che la sua abilità con utensili più piccoli di martello e scudo fosse ancora presente, quindi li impugnò con la lama rivolta verso l'esterno.
Con un colpo secco, ne infilzò uno nella corteccia poco più in alto della sua testa, usandolo per puntellarsi e sollevarsi per incastrare anche l'altro. Con lentezza e fatica esasperanti, Patria iniziò a scalare la radice, constatando ben presto quanto il suo equipaggiamento fosse poco adatto a simili imprese e i suoi zoccoli facili a slittare su superfici troppo verticali.
Più di una volta fu tentato di lasciarsi cadere ed entrare dall'ingresso principale ma ogni volta pensava a come avrebbe potuto ritorcerglisi contro la situazione: se davvero il Satiro aveva ragione, molto probabilmente la Regina sarebbe stata informata del suo ritorno e lei stessa - o le sue guardie - gli avrebbero nascosto lo stato di Tharazar. L'unica maniera sensata per scoprire la verità su cosa stava accadendo era cercare di entrare di soppiatto. Se il piano non avesse funzionato... be', non era detto che dovesse metterci più di un giorno a tornare indietro e nessuno poteva sapere quello che era o non era accaduto nella foresta. Se avesse detto di essersi già occupato con successo del demonio della selva, nessuno avrebbe potuto accusarlo di stare mentendo senza ammettere di averlo pedinato.
Ci mise parecchio tempo prima di riuscire ad allungare la mano e aggrapparsi alla cima della piattaforma. Era stremato e le braccia gli dolevano per aver dovuto sostenere quasi da sole il peso del suo corpo e della sua armatura; ciononostante, fece attenzione a che non ci fosse nessuno in vista prima di issarsi sulla terrazza.
Quando si fu rimesso in piedi si mosse lesto per ripararsi lungo il fianco del castello, laddove la prima luce del giorno ancora non era riuscita a giungere. Si appiattì lungo la parete e rimase silente ad ascoltare di nuovo se c'erano dei rumori di allarme, ma per la seconda volta tutto tacque.
A quel punto, Patria riprese a scalare, armato di pazienza e determinazione. I colpi erano più deboli, per timore che dall'interno qualcuno riuscisse a sentirli - anche se data la grandezza dell'albero immaginava che la corteccia fosse troppo spessa perché qualcuno lo udisse - ma era meglio non correre inutili rischi.
Le loro camere si trovavano al secondo piano e quella di Tharazar in particolare pareva essere situata più verso la parte esterna del palazzo, specialmente considerato che nella sua mancavano del tutto le finestre. Pregava che lo fosse davvero e che i suoi calcoli non fossero stati troppo grezzi e frettolosi, altrimenti rischiava di aver fatto tanta fatica per niente.
Quando riuscì a raggiungere il secondo piano, si affacciò a sbirciare dalla finestra più vicina e all'interno scorse il corridoio da cui la Regina li aveva condotti alle loro camere. Se non altro aveva indovinato il lato corretto del castello da scalare.
Appellandosi a tutta la sua forza fisica residua, cominciò a puntellarsi coi coltelli per scorrere lateralmente, spostandosi da una finestra all'altra nella speranza di giungere quanto prima a quella di Tharazar.
Diversi tentativi andarono a vuoto, rendendolo sempre più nervoso e impaziente. Non poteva permettersi di perdere altro tempo se voleva trovare la maniera di portare via da lì il suo compagno.
Sempre più irritato per la sua inconcludenza, Patria si sporse oltre l'ennesimo davanzale e lì rimase, pietrificato: con la sua Scurovisione poté facilmente distinguere un baldacchino di tulle alzato e sotto ad esso una figura femminile a dimensione umana del tutto nuda che si muoveva sopra qualcuno che attualmente stava disteso supino sotto di lei. Non gli ci volle molto a capire che si trattava della Regina.
Le sue braccia tremarono, e stavolta non per lo sforzo: era certo che la Pixie avrebbe detto che la sua stanza si trovava vicino alle loro se fosse davvero stato così. Serrò le labbra fino a ridurle in una linea sottilissima e nonostante il suo inconscio lo implorasse di non indagare oltre, si issò un poco più su. Intravide così sul materasso il suo accompagnatore: chioma folta e nera, spalle massicce e gambe lunghe e muscolose... troppo per qualsiasi essere fatato in tutta quella dimensione. Soltanto una persona rispondeva a quella precisa descrizione fisica.
La mandibola del Tiefling cadde e i suoi occhi si fecero vitrei e privi di espressione mentre qualcosa nel suo inconscio si spezzava, causandogli un atroce dolore non solamente emotivo ma anche fisico.
«Uccidilo!».
La voce sibilante esplose in un boato di rabbia nella testa di Patria ma prima che riuscisse a soverchiarlo, riuscì a riprendere il controllo di sé abbastanza da puntellare gli zoccoli contro il muro e darsi una poderosa spinta all'indietro, lasciando la presa sui coltelli.
Come un peso morto fendette l'aria, esausto e privo di qualsiasi voglia di continuare a combattere. Chiuse gli occhi e attese, quasi sperando nella colluttazione con il solido legno della terrazza principale. Ad accoglierlo furono invece le gelide acque del lago.
L'impatto con la superficie fu talmente forte da spezzargli il fiato e il peso dell'armatura fece il resto, trascinandolo verso il fondo. Stordito e sull'orlo dell'incoscienza, non riusciva a non pensare a ciò che aveva visto.
Si sentiva uno stupido e un ingenuo. L’avvertimento del Satiro l’aveva spaventato al punto tale da farlo tornare di corsa per salvare la vita di Tharazar, che immaginava in pericolo mortale; invece l’unica cosa che il Mezzorco rischiava era di divertirsi troppo scopando con la Regina dei Pixie. Era bastato che si allontanasse per una notte perché lui si sentisse autorizzato a sollazzarsi con un'altra persona.
«Stupido che non sei altro! Tu non gli hai detto niente...!».
La voce della ragione sorse dai recessi del suo inconscio, cercando di trovare una giustificazione che lo mantenesse lucido e padrone di sé.
«Non fare l'idiota! C'era anche lui quella notte, alla locanda. Ti ha provocato... e tu ci sei cascato. E ora ti ha tradito» la voce sibilante emerse a contrastare l'altra, riuscendo a ricacciarla indietro con incredibile facilità «E tu vorresti perdonarlo ancora? E ancora... e ancora? Lui non si merita la tua fiducia! Non si merita NIENTE!».
Patria aprì di colpo gli occhi, i polmoni in fiamme per la mancanza di aria. Annaspò cercando di rimettersi in posizione verticale e cominciò a spingersi con le braccia verso la superficie sempre più lontana.
Non poteva morire così. Non voleva.
«Non per colpa sua».
Nuotò verso la riva e quando emerse sputando acqua, si trascinò rantolando nel canneto. Il fuoco che aveva percepito nei polmoni e che credeva fosse l'estremo tentativo del suo corpo di imporgli la sopravvivenza in realtà era un calore che ardeva nel suo petto e che crebbe a dismisura in breve tempo, assieme alla familiare sensazione della rabbia cieca e insaziabile che montava dall'interno per soverchiarlo.
Patria era sull'orlo di perdere il controllo e ne era consapevole, eppure nonostante l'ira crescente e il dolore che provava pensando a Tharazar, sapeva di doversene andare per proteggerlo. Con fatica si alzò dal fango e scappò verso la foresta, arrancando e incespicando.
«Uccidi il traditore!»
«Massacralo!»
«Accetta il mio potere!».
La voce continuava a bombardare il cervello di Patria, che stava ancora tentando di opporre una strenua resistenza per il dominio del suo stesso corpo. Il suo cuore era in pezzi, eppure non desiderava ancora volgersi contro Tharazar.
«Tutto questo non sarebbe successo se mi fossi deciso a parlare prima!» gridò ad un certo punto, voltandosi indietro e guardando verso le cime degli alberi, come se stesse parlando con qualcuno di concreto tanto quanto lui.
Le lacrime gli bruciavano gli occhi.
«La colpa è sua! Il sesso quella notte l'avete fatto in due!» la risposta della voce riecheggiò nella mente del Tiefling con tale forza da spingerlo all'indietro, facendolo inciampare e cadere tra le enormi radici nodose di una specie di quercia contorta.
«Ancora cerchi di proteggere quel verme...? Lui sapeva che tra voi qualcosa era cambiato... e lo sai anche tu. Mentire è inutile. Tharazar deve pagare per il suo tradimento!».
Patria si rannicchiò tra le radici, le lacrime ormai incontenibili.
Era vero. La voce aveva ragione. Anche se aveva cercato di fingere di non vederlo, Tharazar aveva cambiato atteggiamento nei suoi confronti da quella notte. Era qualcosa di più profondo della semplice mancanza di pudore, era come se sapesse che adesso il loro legame era più forte. Non poteva essere una coincidenza; eppure non aveva mai accennato alla cosa.
Il Tiefling si prese la testa tra le mani, digrignando i denti per il dolore.
«Sai che è così. Negarlo è inutile! Lascia che la rabbia penetri... lasciami il controllo!».
«Mai! Tu lo ucciderai!» lo accusò apertamente l'altro.
«... ma tu vuoi esattamente la stessa cosa».
Patria alzò di scatto il capo e fissò il vuoto davanti a sé con espressione terrorizzata. Era vero. La voce aveva ragione ancora una volta. Il suo cuore in frantumi esigeva un prezzo dal suo aguzzino... un prezzo che lui non voleva chiedere.
Che non riusciva a chiedere.
Tharazar era stato la causa di tutto... e la sua fine sarebbe stata la soluzione. Sentiva che era così. Doveva esserlo. Non poteva vivere con quel dolore lancinante che gli gravava sul petto e la consapevolezza di non essere abbastanza neanche per colui che salvato da se stesso e con cui aveva condiviso tutto.
Tremando, il Tiefling chiuse gli occhi e aprì le labbra a comporre un'unica parola: «Vendicami».
Dopo un secondo, la sua bocca si distorse in un ghigno depravato e con una voce ultraterrena ed echeggiante rispose: «Vendicati».
Ancora scosse. Tharazar non ne poteva più. Aveva sonno e il vino che aveva bevuto alla festa nel corso nella notte aveva fatto effetto, regalandogli tutti i sintomi di un post-sbornia senza aver di fatto affrontato le conseguenze immediate.
Con un notevole sforzo di volontà vinse la stanchezza ed aprì gli occhi, ritrovandosi ad osservare il viso di Lilah e la sua espressione beata mentre si godeva la sua erezione mattutina.
In un caso differente si sarebbe potuto sorprendere della libido della sua partner, se non fosse stata la quarta volta che dopo essersi addormentato si risvegliava trovandola ad impalarsi allegramente sul suo cazzo duro. Avevano passato la notte a fare sesso e almeno durante la mattina aveva sperato di poter dormire e riposarsi, ma Lilah non pareva volerlo lasciare in pace.
«Esile come è, speravo si stancasse prima...» gemette tra sé e sé, chiudendo di nuovo gli occhi nel tentativo di riprendere sonno. Sapeva che con un’erezione in corso era difficile che succedesse, ma confidava che la sua mancanza di energia per occuparsene lo aiutasse ad ignorarla, come era successo per i suoi tre passati pisolini.
La sua libido era scemata nella notte e adesso il suo corpo era alla mercé delle stimolazioni fisiche che riceveva dall'esterno, senza che lui vi prendesse attivamente parte. Tutto ciò che poteva fare era sperare di arrivare al punto in cui il suo pene fosse stato talmente usurato da non riuscire più a sollevarsi, togliendo a Lilah ogni motivo per continuare a tornare a cavalcarlo.
Per l'ennesima volta percepì la sua vagina contrarsi mentre la Pixie gemeva con voce acuta, soddisfatta per l'orgasmo.
«Oh, Tharazar...! È fantastico!» sospirò una volta terminato il momento di estasi, piegando il viso per intercettare lo sguardo sfinito del Mezzorco, il quale si affrettò a distoglierlo.
«Cosa c'è? Non ti è piaciuto?» Lilah si chinò a prendergli il mento per costringerlo al contatto visivo «Vedrai che il prossimo sarà ancora migliore».
Tharazar sentì un nodo formarglisi alla bocca dello stomaco alle sue parole. Non poteva stare dicendo sul serio. Non poteva volerne ancora così, senza neanche una breve pausa.
«Non... vorresti dormire un po'...?» propose lui con voce impastata, sforzandosi di suonare persuasivo senza troppo successo.
«Dormire?! Non mi divertivo così tanto da mesi!» esclamò Lilah, sollevando il bacino dal suo quel tanto necessario a far uscire da dentro di sé il suo pene ormai ridimensionato e flaccido «Come pensi che possa dormire avendo un amante così dotato nel mio letto?!».
«Veramente... sarebbe il mio letto...» commentò con un sospiro rassegnato ed esausto il Mezzorco, troppo provato dal sesso perché potesse continuare a sottostare alla sua autorità in silenzio.
Sarà anche stata la Regina dei Pixie, la proprietaria del castello e una grande fan della sua musica, ma fino a prova contraria il cazzo era attaccato al suo corpo e dunque ne era lui il proprietario. Nessuno poteva dirgli come e quanto usarlo.
Nonostante la sonnolenza vide distintamente l'espressione beata della sovrana distorcersi repentina in una smorfia di rabbia infantile e si chiese se non avesse sbagliato del tutto a ribellarsi a lei.
La vide raddrizzarsi su di lui come a voler apparire più intimidatoria; tuttavia, qualsiasi cosa stesse per dire venne preceduta dal rumore della porta che veniva spalancata con violenza. Il colpo fu talmente forte da stordire per un momento il Mezzorco.
«Vostra Maestà! Siamo in pericolo!» gridò la vocetta di Pluma subito dopo, colma di panico.
Dalla sua posizione Tharazar non poteva vederla, ma riuscì a sentirla chiara e forte tanto quanto la Regina. Quest'ultima si volse con uno scatto selvaggio e abbaiò: «Pluma! Nessuno può interrompermi durante il sesso!».
«M-ma Maestà la foresta...».
«Non c'è nessun reale pericolo nel bosco!».
«La foresta è in fiamme!» Pluma pareva mortificata per il rimprovero subito, ma la notizia che recava sembrava spaventarla più della sua sovrana.
«Che cosa?!» chiese Lilah, improvvisamente più calma.
Sia lei sia Tharazar volsero nello stesso momento lo sguardo verso la finestra: buona parte dello sconfinato paesaggio boschivo era coperta alla vista da una spessa coltre di fumo nero che si ergeva in lontananza - probabilmente il motivo per cui non se ne erano accorti anche se non c'era alcun vetro a separare l'interno dall'esterno del palazzo.
«Come è possibile?!» la Regina sembrava aver ricevuto una doccia fredda. Fremeva sopra il suo amante, e stavolta non per il piacere.
In quel momento a Tharazar non interessava minimamente la sua reazione: a dispetto della sbornia, il suo cervello si era ridestato di colpo ricordandogli che la foresta in quel momento non era vuota...
Con uno scatto che gli fece girare la testa, si mise seduto sul letto mandando gambe all'aria la Regina, che rotolò verso il fondo del materasso con un gridolino.
«C'è Patria là dentro!» esclamò costernato.
Il panico lo investì con la forza di un gigante. Benché il suo compagno fosse perfettamente in grado di badare a sé stesso, non poteva rischiare di trovarlo carbonizzato in mezzo agli alberi. Doveva accertarsi che stesse bene.
«Chi...? F-fermo!» Lilah si raddrizzò in tempo per vedere il suo amante alzarsi e barcollare verso l'armadio, in cui la sera avanti aveva riposto i suoi vestiti "da viaggio" «Dove stai andando?!».
Tharazar ignorò le sue domande e le vertigini che lo aggredirono con tale forza da costringerlo in ginocchio sul pavimento. La nausea gli attanagliò le viscere e senza neanche cercare di nasconderlo diede violentemente di stomaco sul tappeto. Lo spettacolo disgustò Pluma al punto da farla svolazzare via. Lilah distolse semplicemente lo sguardo.
Svuotato lo stomaco, il Mezzorco si sentì molto meglio. Riuscì a rimettersi in piedi e ad arrivare all'armadio con passo più fermo ed un mal di testa decisamente più contenuto. Lesto estrasse i vestiti e con movimenti frenetici iniziò a indossarli.
«Dove credi di andare? Non ti ho autorizzato a lasciarmi!» la Regina lo raggiunse alle spalle e lo afferrò per un braccio mentre si infilava in tutta fretta la camicia.
Era certa che fosse ancora manipolabile e che fosse stata di polso duro avrebbe potuto tenerlo ancora al guinzaglio per un po'. Le moine erano utili solo per attrarre gli uomini.
Il Mezzorco diede un forte strattone all'arto, liberandosi dalla sua presa prima di rivolgerle l'occhiata più rabbiosa e sexy che avesse mai visto.
«Vado a salvare il mio compagno! E non ho chiesto il tuo permesso per farlo» dichiarò fermo Tharazar, irritato oltremodo dal suo nuovo atteggiamento.
«I-io sono la tua Regina! Come osi parlarmi così, musico?!» esclamò Lilah oltraggiata, sollevando la mano per dargli uno schiaffo, ma il colpo venne bloccato a metà e non giunse mai.
«Tharazar il Magnifico non sta alle regole di nessuno» scandì con tono sprezzante il Mezzorco «Specialmente di qualcuno che si cura soltanto del proprio piacere e non del partner. Le principesse viziate non ottengono ciò che vogliono coi capricci!».
Ciò detto la lasciò andare. Il gesto fu delicato, a differenza delle sue parole.
«Ora se vuoi scusarmi, devo andare a cercare Patria» disse, prendendo i suoi effetti personali dal fondo dell'armadio e dirigendosi in tutta fretta verso la porta mentre finiva di sistemarsi la camicia nelle braghe.
Alle sue spalle, Lilah vibrava letteralmente, paonazza in viso per l'indignazione.
«THARAZAAAR!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola, la voce tanto acuta da poter frantumare il vetro.
Il diretto interessato per tutta risposta si chiuse la porta alle spalle sbattendola forte prima di cominciare a correre verso l'uscita dal castello.
Il mal di testa non prometteva niente di buono; tuttavia, la sonnolenza e la stanchezza parevano essere state spazzate via del tutto dal pensiero che Patria potesse trovarsi in letale pericolo. Sapeva che era colpa di Lilah se il suo compagno si trovava nella foresta in quel momento anziché al sicuro tra le mura del castello, eppure una parte di lui era convinta che fosse anche colpa sua.
La sera avanti, quando la Regina gli aveva comunicato che Patria non sarebbe arrivato alla festa perché lo aveva spedito nella foresta ad occuparsi di chissà quale problema, lui non aveva fatto niente. Era rimasto lì a suonare, divertirsi, bere e mangiare. Si era sentito tradito da lui per non averlo informato della partenza ma da parte sua non si era minimamente adoperato per cercare di seguirlo. Magari aveva avuto bisogno di lui, forse si era trovato alle strette o in balia di branchi di bestie fatate... e lui non era al suo fianco ad aiutarlo.
Aveva pensato solo a se stesso, alla sua esibizione e al suo tornaconto personale.
«Forse sarebbe già tornato se avessi scelto di partire dietro di lui. Forse ora saremmo insieme, al sicuro» il pensiero si presentò prepotente nella sua mente e il senso di colpa crebbe a dismisura.
«Idiota egoista!» sibilò rivolto a se stesso mentre caricava l'ingresso, bloccato da una sottile ma intricata rete di rampicanti.
Le piante assorbirono l'impatto, al che il Mezzorco ringhiò frustrato, ripetendo l'assalto. Era muscoloso ma non era abbastanza pesante da riuscire a sfondare la barriera con facilità.
«Apriti dannazione! Devo andare!» sbraitò in preda all'ira «Patria ha bisogno di me!».
Afferrò con violenza due rami e tirò, accompagnando il gesto con il più mascolino e rozzo latrato orchesco della sua vita. Divelse i rami centrali, creando un'apertura non molto grande in cui si infilò di getto anche se a fatica, graffiandosi nei resti dei tralci.
Una volta all’esterno, corse. Non era abituato a farlo nonostante la sua prestante forma fisica, per cui finì a corto di fiato prima ancora di essere riuscito ad arrivare a terra. La fatica e i polmoni in fiamme per lo scarso apporto di ossigeno non lo rallentarono minimamente.
Doveva raggiungere Patria, ovunque si trovasse. Era bizzarro per lui preoccuparsi così tanto per qualcuno che non era lui stesso, eppure non riusciva a fare altrimenti. Non si sarebbe dato pace finché non avesse accettato che il suo compagno era salvo.
Una volta giunto a riva, il Mezzorco si infilò lesto tra le fronde, aprendosi la strada con le braccia laddove rami e foglie troppo ingombranti gli sbarravano il passaggio.
Tutta la sua concentrazione era rivolta - almeno per il momento - sul mantenere rapido il passo e inoltrarsi più che poteva nel fitto del bosco, muovendosi nella direzione da cui vedeva alzarsi la colonna di fumo nero e dunque dove presumeva si trovasse la fonte.
Conoscendo Patria e il suo legame con la Natura, se c'era un posto in cui era probabile che lo trovasse, quello era all'origine dell'incendio, intento a trovare la maniera migliore per spegnerlo.
Man mano che si allontanava dal castello Tharazar iniziò a sentire il peso della sua notte insonne gravargli addosso con sempre maggior forza. Le gambe gli dolevano sempre di più e il mal di testa lo tormentava, benché cercasse di concentrarsi sul suo obiettivo e di ignorare i sentori di malessere fisico.
A dispetto della sua preoccupazione e del suo sforzo mantenere il passo veloce durante la corsa, il suo corpo iniziò a dare i primi segni di cedimento. Si ritrovò costretto a dover rallentare per non collassare boccheggiando a terra e a dover prestare il doppio dell'attenzione per non inciampare nelle radici che crescevano rigogliose e selvagge, dipanandosi ovunque sul terreno.
Giunse dopo un lasso di tempo non meglio noto in vicinanza dell'incendio. L'aria era calda e una coltre di fumo nero copriva le cime degli alberi, rendendo nebbiosa la zona. Riuscire a vedere a più di un metro dal suo naso divenne praticamente impossibile, per cui iniziò a procedere con maggiore cautela, sperando di trovare il suo compagno il più presto possibile.
«Patria!» chiamò a voce alta, cercando di rimanere piegato per non arrivare a respirare l'aria contaminata da polveri nere e sottili «Patria sono io!».
Continuò ad andare avanti, raggiungendo un grosso albero dalle radici nodose che crescevano fuori dal terreno, creando una sorta di labirinto che poteva fungere da ottimo nascondiglio.
«Patria! So che sei qui!» chiamò ancora, avvicinandosi ulteriormente all'albero in questione, guardandosi attorno con angoscia sempre maggiore. Se non lo avesse trovato lì, come avrebbe potuto rintracciarlo nel resto della foresta? Quel posto era immenso!
Caso volle che i suoi occhi intercettassero un profilo umanoide in piedi su una delle radici più grosse. Patria indossava sempre un'armatura di piastre che mascherava del tutto il suo fisico; tuttavia, sotto ad essa portava una lunga tunica, per coprire le gambe caprine. Fu proprio la sagoma della "gonna" che Tharazar riuscì ad intravedere attraverso la coltre fuligginosa, e il suo cuore accelerò il battito mentre tentava di raggiungerlo, in preda all'euforia. Si tolse lo zaino e lo lasciò a terra prima di avvicinarsi ulteriormente all'albero. Non voleva rischiare che i suoi effetti personali finissero divorati dalle fiamme nel caso in cui l'incendio si fosse esteso troppo.
«Patria!» esclamò grato «Andiamo. Cosa aspetti? Qui è pericoloso, non possiamo restare ancora!».
L'altro non gli rispose. Balzò giù dal suo trespolo e poi si avvicinò lentamente, emergendo dalla fuliggine con passo stranamente calmo considerata la situazione.
«Patria!» insistette il Mezzorco con impazienza. Stava iniziando a fare troppo caldo e l'aria ad essere sempre meno respirabile. Non avevano tempo per trattenersi ancora.
«Tharazar...!».
L'interpellato si bloccò sul posto udendo la voce echeggiante e ultraterrena del suo compagno rispondergli. Come se ciò non fosse sufficiente, guardandolo in faccia vide i suoi occhi aprirsi ed emanare un bagliore infernale difficile da non captare. Inoltre, al centro della sua fronte era aperto un altro occhio che il Mezzorco prima non aveva mai visto, la cui iride verticale puntava dritta su di lui.
Il suo cuore mancò un battito mentre la bocca del Tiefling si apriva in un ghigno inquietante, rivelando la doppia fila di denti aguzzi cui ormai si era abituato.
«Tu... non sei Patria» riuscì a dire Tharazar. Si scoprì a tremare sul posto, scosso da brividi di terrore allo stato puro.
Senza aggiungere altro, la creatura si mosse con velocità fulminea e il Mezzorco si ritrovò ghermito alla gola dalla solida presa dell'altro, che lo sollevò da terra senza alcuna apparente fatica.
«Non del tutto. Patria è solo... una parte della nostra personalità» dichiarò il Tiefling, continuando a ghignare malignamente verso la sua vittima, la quale si aggrappò con entrambe le mani al suo polso cercando di non morire soffocato nella sua presa.
«Tu... cosa gli hai... fatto?» ansimò Tharazar, scalciando per tentare di raggiungere il terreno.
I suoi inutili tentativi di tornare coi piedi per terra vennero annullati dal suo stesso aguzzino, che approfittò della presa per abbatterlo nella polvere. Il colpo fu talmente violento che Tharazar annaspò in cerca di aria per qualche secondo. Subito dopo, il Patria malvagio era chino su di lui e lo studiava con espressione divertita.
«Io...? Assolutamente niente» rispose con tono grottescamente innocente «Tu? Gli hai spezzato il cuore» soggiunse, sollevandolo e scaraventandolo contro le radici.
Il Mezzorco si rimise con fatica in piedi, ma quando alzò la testa Patria era già lì. Con una zoccolata nello stomaco, lo spinse in un incavo tra le radici.
L'imponente stazza di Tharazar gli impediva di entrare del tutto nella nicchia, per cui finì accasciato su un fianco contro l'estremità cieca.
«Dovrei ringraziarti per questo. Se tu non lo avessi tradito con quella puttana fatata, io sarei ancora intrappolato nel fondo della sua coscienza» esclamò sogghignando il Tiefling, incombendo sull'altro minacciosamente. Gli appoggiò di nuovo lo zoccolo addosso, stavolta in mezzo al torace, poi si piegò su di lui appoggiando sulla gamba più peso possibile.
Tharazar temette che lo zoccolo gli sfondasse lo sterno e cercò di reagire nonostante il suo inconscio cercasse di frenarlo: quello era pur sempre il corpo di Patria e lui non voleva fargli del male. In quel caso però se non lo avesse fatto non ne sarebbe uscito vivo.
Serrò il pugno destro e colpì lo stinco peloso del suo compagno attraverso la tunica con tutta la forza di cui disponeva. Rabbrividì quando sentì il rumore della sua gamba che si spezzava e il ruggito di dolore del Tiefling mentre si accasciava su di lui.
Per un istante la sua voce tornò quella del vero Patria e il Mezzorco senza pensarci due volte aprì le braccia e lo accolse contro il suo torace, sperando che la ferita fosse riuscita a far perdere la presa che la personalità distorta aveva sul corpo.
Le sue speranze andarono in frantumi quando il Tiefling si divincolò dalla sua presa per mettersi in ginocchio su di lui con la faccia distorta dalla furia. Sollevò un braccio e lo colpì con un pugno in faccia.
Vedendo il colpo arrivare, Tharazar chiuse gli occhi ma non poté fare altro. Incassò con un grugnito, e dopo quel primo pugno ne arrivarono altri, sempre più lenti e più pesanti.
Il dolore esplose come una bomba ed ogni centimetro della sua faccia ne fu consumato; tuttavia, col proseguire del pestaggio, l'agonia di ogni pugno cominciò a scemare e uniformarsi, trasformandosi in un dolore sordo e continuo.
«Patria si è arreso a me vedendoti a letto con quella fata» sghignazzò mentre lo picchiava «Quello smidollato non aveva la forza di affrontarti...! Affrontare te, un insulso Mezzorco che non è in grado nemmeno di badare a se stesso. Sei patetico come lui!».
Dal tono della sua voce pareva in preda a qualche delirio e sembrava che quel massacro lo divertisse alla follia.
Tharazar stava iniziando a cedere allo svenimento. Combatteva con tutto se stesso, ma i colpi erano sempre più duri e l'oblio dell'incoscienza appariva come una scappatoia così allettante ai suoi occhi e priva di dolore.
«Che peccato che vi dobbiate separare senza che Patria si possa confessare» sospirò il demone «La rabbia che avrebbe provato quando tu avessi rifiutato i suoi sentimenti... quella sì che sarebbe stata brutale! Il mio lasciapassare per un'eternità di caos e violenza!».
Tharazar aprì gli occhi, nonostante le palpebre gonfie e il sangue che gli annebbiava la vista.
Patria provava dei sentimenti nei suoi riguardi che non aveva trovato il modo di rivelargli. Quella notte in locanda non era stata un'esperienza che aveva toccato soltanto lui. Quei cambiamenti che aveva percepito durante il viaggio, il fatto che fosse più riservato e scostante, era davvero timidezza. Stava cercando la maniera di confessarsi!
E lui, andando a letto con Lilah, aveva rovinato tutto. Era stato un vero idiota. Avrebbe dovuto prendere l'iniziativa e fare il primo passo.
«... avevo paura di essere rifiutato... e adesso Patria è davvero il mostro che tanto temeva di diventare...» commentò tra sé, guardando mentre il "nuovo" Patria caricava il prossimo pugno.
«Mi accontenterò di avere l'onore di ucciderti. Ho sempre desiderato farlo, fin dal primo giorno!» rise il suo aguzzino «Digli addio, Patria!».
Il suo pugno calò violento ma non arrivò a distruggere ciò che rimaneva del suo naso: Tharazar sollevò un braccio e lo frappose tra la sua faccia e la mano di Patria appena in tempo. Frustrato per la reazione, quest'ultimo cercò di colpirlo ancora e di nuovo venne intercettato, seppur debolmente - e stavolta fu il palmo del Mezzorco a farlo. Le sue dita ghermirono la mano di Patria e la strinsero mentre raccoglieva il fiato e le energie che gli rimanevano.
«P-Patria...! So che sei... lì dentro» esalò con immensa fatica «P-perdonami. Non... avevo capito co-come stavano le cose... m-mi dispiace».
«Basta! Sta' zitto!» ruggì il demone, affibbiandogli un pugno con l'altra mano. Pareva particolarmente irritato dal suo tentativo di scusarsi con la sua metà buona, il che poteva soltanto significare che stava agendo bene.
Doveva solo continuare, riuscire a far breccia nelle difese che Patria aveva eretto per proteggersi. Per farlo, non vedeva altra via se non quella del dialogo aperto e sincero. Era giunto il momento che anche lui si confidasse.
«A-alla festa... ti aspettavo... v-volevo con... dividere un segreto... con te» Tharazar tossì, sputando sangue dopo il nuovo pugno, riuscendo a bloccare il successivo «Quindi... te lo dirò ora...».
«Ho detto che devi stare zitto!».
Il demone, incapacitato ad affibbiargli altri pugni, tirò indietro la testa e gli diede una craniata sul naso. Tharazar mugugnò di dolore, ma ormai c'era ben poco che potesse fare per salvarsi, eccetto cercare di far riemergere il vero Patria.
Il suo Patria.
«I-io... non suono solo... l-la fisarmonica...».
«TACI!».
Il Tiefling si divincolò dalla sua presa e lo sollevò sopra di sé, facendo mostra di una spettacolare forza fisica, quindi lo scaraventò oltre la sua schiena, a diversi metri di distanza.
«Non lo riporterai indietro! Non te lo permetterò!».
Tharazar atterrò come un sacco di patate, ogni giunzione e ogni muscolo che gemevano di dolore all'unisono. Aprendo gli occhi, vide che la gamba rotta impediva a Patria di raggiungerlo con la rapidità sovrannaturale che aveva mostrato di possedere poco prima. Doveva essere particolarmente difficile reggersi in piedi con uno zoccolo fuori uso, dato che lo vide arrancare carponi nella sua direzione, trascinandosi nella polvere.
Era la sua occasione di sistemare le cose. Si guardò intorno e vide che il suo zaino non si trovava molto lontano dal punto in cui era atterrato. Si trascinò verso di esso, quindi frugò all'interno fino a che non trovò la custodia del suo violino.
L'aprì con mani tremanti e ne estrasse lo strumento, quindi si levò in piedi, allargando le gambe per mantenere una parvenza di equilibrio. Era difficile, eppure in quel momento la sua forza di volontà era più ferrea che mai.
Patria era quasi arrivato a lui e lo guardava con lo sguardo iniettato di odio e di rabbia.
«Perché non muori?!» sbraitò frustrato.
Per tutta risposta, il Mezzorco sorrise teneramente e posizionò il violino sulla spalla.
«Patria... questo è il vero Tharazar...» ed appoggiò l'archetto sulle corde, chiudendo gli occhi.
Iniziò a suonare una melodia malinconica che iniziò pian piano per poi acquisire vigore. Dovette sforzarsi molto per rimanere concentrato sul suo strumento e non lasciarsi sopraffare dalle sue critiche condizioni fisiche.
Sentì il demone scoppiare a ridere in maniera sguaiata.
«Credi davvero che questo patetico teatrino servirà a convincere Patria a strisciare di nuovo fuori?!» sbottò quest’ultimo, molto più vicino di quanto fosse fino a pochi secondi prima «Il vostro insulso sentimentalismo mi disgusta. Ucciderti sarà ancora più piacevole dopo questa scena stucchevole!».
Tharazar iniziò a cantare, ignorandolo. Stavolta fu molto più semplice che durante le prove davanti allo specchio. La sua voce sgorgò in note alte e femminili con naturalezza, come se fosse davvero una donna.
Patria non poteva rimanere indifferente. Il fatto che non avesse più cantato dinanzi a lui fino ad allora doveva pur significare qualcosa.
All’improvviso si sentì ghermire per la cintura e trascinare verso il basso con violenza. L’aggressione fu talmente inattesa che non riuscì ad opporsi, finendo col cadere in ginocchio davanti a Patria.
Lo vide caricare un altro pugno e colpirlo dritto in mezzo alla faccia. Sentì il naso rompersi e il sangue uscire in nuovi fiotti caldi sul suo viso mentre veniva sbalzato indietro dalla potenza dell’attacco.
Cadde supino poco più in là. Riuscì ad evitare che il violino subisse danni, ma ormai non c’era più niente che potesse fare. Il respiro cominciò a farsi più difficoltoso e lento e di colpo realizzò che la sua fine era incombente.
Così si concludeva la grandiosa vita di Tharazar il Magnifico, Signore dell’Arena di Neverwinter: morto per mano del suo compagno di viaggio posseduto in un bosco magico di un’altra dimensione. Forse era meglio così, se non altro per toglierlo dall’impiccio di dover capire che cosa fare per sopravvivere per il resto dei suoi miseri e pietosi giorni.
Ai margini della sua vista offuscata vide sopraggiungere il suo carnefice, con un ghigno soddisfatto stampato in faccia. Tharazar allungò una mano verso di lui e gli strinse il polso debolmente.
«Patria...» esalò con il suo ultimo respiro, prima di cadere a terra.
Inerte. Immobile.
Il demone dentro il corpo di Patria rise di trionfo.
«Finalmente è morto! L’ho ucciso! Ora sono li…!».
Non riuscì a terminare la frase: percepì qualcosa che cercava di emergere dai più reconditi recessi del suo petto. Provò la sensazione di stare soffocando e seppe che ovunque la coscienza di Patria fosse andata a nascondersi, stava cercando di riprendere il controllo.
«No! No!» gridò, sfuggendo alla mano di Tharazar per stringere il pugno sul petto «Non uscirai di nuovo! Ora… comando… io…!».
La sensazione di soffocamento crebbe ancora, costringendolo prono a terra. Un’emicrania lancinante lo travolse, strappandogli un grido atroce e straziante mentre si aggrappava con tutte le sue forze a quel corpo che aveva rivendicato come suo a titolo indeterminato.
«Patria… sei debole… io sono la… la versione migliore di… te!» sibilò, iniziando a sbavare nello sforzo di rimanere cosciente.
Sentì Patria ribellarsi e il suo potere crescere. Anche se non era in grado di manipolare il suo stesso corpo senza esserne il proprietario effettivo come faceva lui, era comunque in grado di dargli del filo da torcere.
Il dolore crebbe ancora a dismisura e l’oblio lo travolse, recidendo il legame che aveva stabilito col suo “contenitore”. L’occhio al centro della sua fronte svanì e dopo un istante di assoluto immobilismo, Patria rantolò rumorosamente, tornando a respirare.
Era di nuovo se stesso. Era padrone del suo corpo e delle sue azioni… e la prima cosa che fece fu spostare lo sguardo sul corpo inerte che giaceva dinanzi a lui, una mano ancora chiusa attorno all’impugnatura del violino.
«Tharazar?» chiamò, stringendogli la mano libera nella sua. Era fredda.
«Madre Natura, che ho fatto?» gemette, abbandonandosi contro il petto immobile del suo compagno di viaggio. Il suo cuore era fermo e il respiro assente.
«No! No, no, no…!» i suoi occhi si riempirono di lacrime mentre sollevava il capo, guardando il viso di Tharazar, tumefatto e sanguinante «Ero arrabbiato… ma non volevo questo! Credevo che vendicarmi mi avrebbe fatto sentire meglio… che mi avrebbe guarito. E invece continuo ad amarti… ma non potrò mai sapere se tu ricambi!».
Patria si accasciò sul corpo di Tharazar, singhiozzando e piangendo, impregnandogli il gilet macchiato di lacrime.
«Cazzo!» sputò, provando solo odio verso se stesso e la sua debolezza, colpendo con entrambi i pugni il petto del Mezzorco.
Sotto l’impatto, Patria sentì il suo corpo torcersi e un gemito gutturale uscirgli dalla bocca. Confuso e spaventato, il Tiefling si raddrizzò di scatto, appena in tempo per evitare di venire scaraventato via: Tharazar scattò seduto gridando in maniera grottesca e incoerente. Aveva lo sguardo assente e schiumava dalla bocca.
Patria si ritrasse istintivamente, trascinandosi con le braccia per allontanarsi da lui. Aveva paura che qualcosa si fosse impadronito del suo cadavere e volesse utilizzarlo per loschi scopi.
Non poteva sapere quali creature e spiriti vivessero dentro una foresta infuocata di un regno fatato. Poteva essere uno spiritello in cerca di vendetta.
Il grido si spense dopo pochi secondi e il Mezzorco emise un grugnito di dolore, abbassando il viso e portandovi una mano. I capelli lunghi e sporchi di terriccio gli caddero attorno al volto, coprendolo come una tenda.
«Merda… che male...» il Tiefling lo sentì ringhiare sommessamente e poi lo vide alzare la testa verso di lui «Che… cosa è successo?».
I suoi occhi azzurri incrociarono quelli neri come la pece di Patria e per un attimo rimasero incatenati.
«… Patria?» domandò, scioccato.
«S-sei...» l’altro non finì la frase, temendo di risvegliarsi da quella specie di sogno ad occhi aperti se avesse osato constatare a voce alta il miracolo che era avvenuto dinanzi a lui.
Non era posseduto. Era solo vivo.
Strisciò verso di lui e gli si gettò addosso con impeto, abbracciandolo.
«A-ahio. Fai piano! Credo di… avere qualche frat…!» Tharazar non finì di parlare. Patria lo mise a tacere con il più passionale bacio che il Mezzorco avesse mai sperimentato nella sua non così lunga vita.
Non pensava che il suo compagno, timido e pudico come era, fosse in grado di tirar fuori un fervore simile con un bacio.
Patria si schiacciò contro di lui. Le zanne arcuate di Tharazar gli pungolavano gli zigomi pronunciati. Il naso premeva contro il suo mentre cercava di spingersi di più sulla sua bocca. Il sapore del suo sangue si mesceva al salato delle sue lacrime, ma non gli importava. Niente era più importante o urgente di quel bacio.
Il Mezzorco non lo fermò né si ritrasse. Era troppo sorpreso dal fatto di aver ripreso conoscenza quando ormai sapeva di essere spacciato.
Quando il contatto tra le loro labbra si spezzò, Patria esclamò: «Ti amo. Voglio che tu lo sappia, prima che qualche altro stupido scherzo del destino mi impedisca di dirtelo...».
Guardò il suo compagno negli occhi e sorrise, finalmente in pace con se stesso. Si sentiva in imbarazzo, ma non gli importava. Non voleva rischiare di perdere di nuovo l’occasione di parlare, non dopo ciò che era appena accaduto.
Tharazar arrossì dinanzi alla sua espressione quasi beata. Era abituato ai complimenti per il suo aspetto fisico e agli elogi per le sue fantastiche prestazioni sessuali; tuttavia, prima di allora nessuno gli aveva mai detto apertamente di amarlo.
Avvertì per la prima volta in vita sua la gioia di essere accettato esattamente per quel che era e non per ciò che sapeva fare o per come appariva. Patria voleva lui, in tutta la sua interezza, e la cosa lo mise in soggezione.
«A-anche a me… tu piaci» rispose il Mezzorco, incapace di formulare un discorso più complesso. Le sue guance stavano avvampando sotto gli strati di sangue raggrumato «E-e anche se non lo credi possibile… sei perfetto come sei adesso, Patria. N-non cambierei niente di te… nemmeno se potessi».
I globi neri che erano gli occhi del Tiefling si allargarono e le sue labbra sottili fremettero mentre altre lacrime andarono a rigare le sue guance.
Tharazar si ritrasse leggermente, a dispetto del dolore che accompagnava ogni suo minimo movimento.
«Troppo sdolcinato?» domandò a disagio.
Patria tornò ad abbracciarlo, affondando il viso nel suo gilet. Non gli rispose, non verbalmente almeno. La sua presa vigorosa era sufficiente a comunicare quanto avesse apprezzato le sue parole melense.
Il Mezzorco sollevò lo sguardo e parve ricordarsi solamente allora che c’era una foresta che stava prendendo fuoco attorno a loro.
«Patria… mi dispiace interrompere questo momento… ma l’incendio si sta propagando...» fece presente con una smorfia «Che cosa facciamo?».
Il Tiefling sibilò irritato, sollevando il capo per controllare a sua volta la situazione, che purtroppo non era rosea.
«Voi non potete fare niente. Non nelle vostre attuali condizioni».
I due si voltarono insieme verso la fonte della voce: la Regina Lilah era appena arrivata, accompagnata da Pluma. Indossava un vestito aderente e corto e aveva i capelli raccolti in un complicato chignon che le permetteva di non averli d’intralcio.
La sovrana avanzò fino a superare i suoi ospiti, frapponendosi tra di loro e la fonte dell’incendio.
«Questa è la mia foresta. Io sono responsabile della sua incolumità» dichiarò con voce ferma, cominciando a muovere le mani per lanciare un incantesimo.
«Lilah? Sei davvero… tu?».
Da oltre l’enorme albero teatro dello scontro tra Tharazar e Patria fece capolino una figura caprina che al Tiefling era familiare. Si trattava del Satiro che aveva incontrato più a nord e che si era rifiutato di combattere.
La Pixie interruppe il suo incantesimo.
«Sei ancora vivo?! Come…?» esalò quest’ultima, scoccando poi un’occhiata di sbieco a Patria «Perché sei tornato?».
«Sono un Satiro, Lilah. Proteggo il mio habitat dalla distruzione...» il diretto interessato si avvicinò alla sua interlocutrice, lentamente e con fare del tutto innocuo «Non pensavo che saresti… intervenuta di persona».
«Questo è il mio dominio. Non posso permettere che bruci!» ribatté stizzita Lilah, al che il Satiro le si fece dappresso e le sorrise con fare audace.
A Patria ricordò in maniera inquietante alcune smorfie che Tharazar gli rivolgeva di quando in quando.
«Non ricordavo fossi così coraggiosa» commentò il Satiro «Permettimi di assisterti in questo compito» aggiunse, baciando il dorso della mano di lei.
Quest’ultima emise un sospiro compiaciuto e frivolo.
«Be’, questa sì che è una piacevole sorpresa...» replicò Lilah, avvicinando il viso al suo.
Tharazar notò con la coda dell’occhio Patria esibirsi in una smorfia di disgusto e seppe che era il momento di intervenire per trarsi d’impiccio prima di assistere a qualcosa di più spinto di una riunione d’emergenza.
«Scusate… noi feriti dove dobbiamo spostarci mentre voi risolvete la faccenda?» chiese con tono volutamente alto, allo scopo preciso di interrompere l’atmosfera romantica tra i due.
Patria lo guardò e poi sorrise; Lilah gli scoccò un’occhiataccia di traverso.
«Pluma, accompagnali al castello. Che i guaritori si occupino di loro...» la Regina liquidò la faccenda con un semplice gesto della mano «Dunque… dove eravamo rimasti?» disse, tornando a parlare al Satiro.
Pur non nutrendo la minima simpatia per i loro ospiti, Pluma si vide costretta ad obbedire ad un ordine impartitole direttamente dalla sua sovrana.
Con l’aiuto della magia, riuscì a rimettere Tharazar e Patria in piedi e a farli tornare con sé a palazzo. Mentre si allontanavano, zoppicando e aggrappandosi l’un l’altro e ai sostegni magici che li circondavano, Patria strinse la mano di Tharazar e mormorò: «Grazie per averli interrotti...».
L’incendio fu domato. Occorse del tempo perché fosse del tutto estinto ma Lilah ed il suo aiutante ci riuscirono.
Tharazar e Patria non furono nelle condizioni di assistere al ritorno della coppia di “eroi”: non appena giunti nelle capaci mani dei guaritori, vennero rimessi in sesto quel tanto necessario a scampare qualsiasi pericolo e poi lasciati a riposare.
Tharazar crollò addormentato ancora prima che i Pixie avessero finito di sistemarlo. Patria riuscì a rimanere sveglio mentre gli sistemavano la gamba fratturata e solo dopo andò a stendersi affianco al suo compagno.
A dispetto dell’essersi assopito più tardi, Patria fu il primo dei due a svegliarsi, a sera inoltrata. Il Mezzorco russava ancora al suo fianco e non pareva intenzionato a destarsi nell’immediato futuro.
«Sei sveglio, finalmente… cominciavo ad annoiarmi di aspettare...».
Patria spostò lo sguardo da Tharazar per volgerlo al fianco del letto: a pochi metri da esso era stata posizionata una poltroncina imbottita, attualmente occupata dalla Regina.
«Vostra Altezza» il Tiefling chinò brevemente il capo «Voleva parlare con me?».
Lilah si alzò in piedi, lasciando che i capelli si srotolassero sul pavimento, come un mantello. Si avvicinò a lui e gli sorrise con fare freddo.
«Non fare finta di niente. Sai che sono qui per l’incarico che ti ho assegnato… e che tu non hai svolto» la Regina parlava a voce bassa ma in tono deciso.
«Quel Satiro non è un demone e io non sono un mercenario» dichiarò con calma e fermezza Patria «D’altro canto Vostra Altezza converrà con me che sia stato un bene che non abbia ucciso quel Satiro» soggiunse, e stavolta non poté fare a meno di parlare in tono irritato.
Nell’immediato, Lilah tacque, scrutandolo con cipiglio cupo e altezzoso, tanto che Patria temette di aver osato troppo. Non voleva di certo offendere la proprietaria del castello presso cui stavano recuperando le forze, specialmente considerato che era stato lui - o meglio, il suo lato demoniaco - a dare origine all’incendio.
Non lo aveva detto a nessuno, nemmeno a Tharazar. Probabilmente gliel’avrebbe raccontato in seguito, quando si fosse ripreso, dato che dopo gli ultimi eventi non voleva più avere segreti con lui. A Lilah non l’avrebbe di certo confessato, né ora né mai.
Stava per scusarsi per il tono delle sue parole quando la Regina dei Pixie ruppe il suo silenzio con un: «Hai ragione… e di questo ti sono immensamente grata».
Patria sbatté le palpebre, confuso.
«Davvero?».
«All’inizio volevo solamente toglierti di mezzo per poter giacere con Tharazar... e poi ti ho voluto sfruttare per vendicarmi dell’uomo che mi aveva abbandonata» Lilah confessò le sue reali intenzioni con assoluta nonchalance, come se stesse raccontando una fiaba. Era evidente che fosse avvezza a manipolare le persone senza doverne mai affrontare le conseguenze.
Patria aggrottò le sopracciglia con diffidenza. Era pronto a intervenire nel caso in cui potesse diventare una minaccia per se stesso o il suo compagno; tuttavia, la fata continuò soltanto a parlare: «E poi lui è venuto da me, nel bosco. Mentre tu e il Mezzorco non eravate tra i piedi, abbiamo legato di nuovo. È stato come la prima volta che ci siamo conosciuti. È stato emozionante».
Lilah inspirò a fondo e poi sorrise ancora, questa volta con fare soddisfatto e compiaciuto.
«Non sarebbe mai successo se Tharazar non fosse corso a cercarti. Se non ti fossi stupidamente esposto al pericolo non avrei ritrovato l’amore e il fervore che solo un Satiro sa darmi… e per questo, ti ringrazio».
Patria si costrinse a tacere. Implicitamente e a sua completa insaputa, lo stava ringraziando di aver appiccato un incendio potenzialmente letale per tutti loro nella sua foresta. Non avrebbe chiesto scusa, non a colei che aveva appena ammesso di averlo manipolato per poter andare a letto con Tharazar e vendicarsi del suo ex amante.
«Di niente, Vostra Altezza» rispose, e furono le parole più sincere che avesse mai pronunciato in sua presenza.
«Non mi piace avere debiti con i mortali» ammise subito Lilah senza tanti convenevoli «Dunque direi di risolvere la questione quanto prima. Non appena il Mezzorco si sarà ripreso, organizzerò una festa a palazzo… in modo che anche tu possa assistere ad una delle sue splendide esibizioni musicali».
Patria la guardò con espressione sorpresa. Non si aspettava un simile gesto di gentilezza da parte di una persona che lo aveva considerato niente più che un banale ostacolo ai suoi capricci fino a non molto tempo prima. In fin dei conti l’aver protetto la vita del Satiro si stava rivelando una decisione saggia sotto molti punti di vista.
«Come Vostra Altezza desidera» replicò il Tiefling in tono apatico. Non aveva intenzione di darle alcuna soddisfazione in merito alla sua ostentata “magnanimità”.
Lilah serrò le labbra con cipiglio quasi offeso e se ne andò dalla camera, lasciandoli da soli.
Patria la seguì con gli occhi finché non ebbe chiuso la porta alle sue spalle, quindi tornò ad osservare il suo compagno ancora profondamente addormentato e decise di lasciarlo riposare in pace. Si alzò e si spostò zoppicando per la stanza con l’aiuto di una stampella, andando a recuperare la sua armatura.
Ritornò presso il baldacchino e si accomodò nella poltrona, quindi si mise a pulire le piastre di metallo. Non voleva farsi trovare impreparato quando fosse venuto il momento di sfoggiare la sua “armatura buona”.